giovedì 31 ottobre 2019

IL DESTINO DELL'ITALIA (10): SANITA' PUBBLICA E PRIVATIZZAZIONI



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(Questo post in realtà...sono due post: la contestualizzazione dei  2 "poderosi" argomenti corrisponde all'esigenza di concentrazione per consentire di cogliere meglio il quadro complessivo della "manovra", in meno tempo, e coglierne perciò la portata disperdendo le forze di...concentrazione su meno post).

1- Tagliare la copertura pubblica gratuita alla alla cura della salute aumentando contribuzione al SSN e spiazzando sul settore privato la relativa spesa delle famiglie.
1.1. Un discorso analogo a quello svolto con riguardo al "controllo" della spesa in pensioni investirà, dentro l'agenda FMI, anche il costo del servizio sanitario nazionale.
Questo costo, in termini reali, cioè ove rapportato all'intera variazione (nominale) del PIL, è già in costante diminuzione, negli ultimi anni (applicativi del percorso verso il pareggio strutturale di bilancio): e ciò, nonostante l'ampliamento della sfera dei beneficiari, dovuto all'aumento della percentuale di popolazione anziana e alla crescente assistenza fornita a numeri sempre più ampi di immigrati (regolari e non) che sostanzialmente, nella vasta maggioranza, non sono in condizioni di contribuire a finanziare il servizio.
Ce lo dicono sia la Corte dei conti, sia un profluvio di studi in cui, (ad es; in questo dossier, del maggio 2019, della Camera dei deputati) si sottolinea che, nonostante la negativa, crescita del PIL reale registratasi complessivamente a partire dal 2008, la diminuzione della spesa pubblica sanitaria rispetto al PIL è risultata "più efficiente" che nel resto della pubblica amministrazione! 
Questo un estratto del quadro consuntivo della Corte dei conti aggiornato al giugno 2019 (riportato dal "Quotidiano Sanità"): 

"I dati di contabilità nazionale dimostrano l’efficacia dei controlli economici e contabili adottati negli ultimi anni dal settore sanitario, la cui spesa, pari a 115,4 miliardi nel 2018, è cresciuta del 60,8% nel periodo 2000/2008, e di appena il 3,7% negli anni 2009/2018. Al più moderato profilo di crescita hanno contribuito tutte le componenti del conto economico, che presenta variazioni annuali in valore assoluto negative per le uscite dovute ai redditi da lavoro dipendente (dal 2009 al 2017) e la farmaceutica convenzionata (dal 2009 al 2018), mentre più problematico appare, per il governo dei conti, il controllo della spesa farmaceutica ospedaliera; quest’ultima, spinta dalla costosità delle nuove terapie farmacologiche, è uno dei principali fattori di crescita dei consumi intermedi (+25% nel periodo 2009/2018, +1,7% nel 2018 rispetto al 2017, di cui +6,5% solo la farmaceutica), che nello scorso anno ha determinato un’eccedenza di spesa (rispetto al tetto programmato del 6,89% del Fondo sanitario nazionale) di circa 2 miliardi
...La parsimoniosità del settore nell’assorbire risorse finanziarie emerge anche dal confronto con le uscite a carico delle altre principali voci di spesa del Conto consolidato delle pubbliche amministrazioninegli anni 2014/2018 il tasso medio di variazione della spesa sanitaria è stato pari all’1% (a fronte di una crescita media, nel periodo 2005-2009, del 4,2%), inferiore quindi a quello della spesa corrente, netto interessi, non sanitaria (1,3%), mentre le uscite per prestazioni previdenziali ed assistenziali in denaro sono cresciute ad un tasso circa doppio (+1,8%). In valore assoluto ciò ha significato, nel periodo 2013- 2018, un incremento cumulato di spesa per il SSN di 5,8 miliardi, a fronte di un aumento delle uscite per prestazioni sociali in denaro (di tipo previdenziale e assistenziale) pari, complessivamente, a circa 29 miliardi.
...Nel 2017 la spesa sanitaria pubblica in Italia è stata pari al 6,6% del Pil, un valore inferiore di circa tre punti percentuali a quella in Germania (9,6%) e Francia (9,5%), di un punto percentuale rispetto al Regno Unito, e di poco superiore a quella di Spagna (6,3%), Portogallo (6,0%) e Repubblica Ceca (5,8%). I dati Ocse relativi all’arco temporale 2000/2017 mostrano, soprattutto a partire dal 2009, la progressiva perdita di peso del comparto sanitario sul Pil rispetto a quello dei maggiori paesi europei: se nel 2000 Francia e Germania spendevano per il servizio sanitario due punti percentuali di Pil in più rispetto all’Italia (rispettivamente 7,5, 7,7 e 5,5%), nel 2017 il divario è cresciuto a sfavore dell’Italia di tre punti percentuali. Anche l’indicatore della spesa pro capite mostra il sottodimensionamento relativo di quella italiananel 2017 la spesa pubblica italiana (espressa in dollari a parità di potere di acquisto) è stata pari a 2.622 USD, ossia inferiore del 35% a quella francese (4.068 USD) e del 45% a quella tedesca (4.869 USD), con un divario che cresce, rispetto a quello dell’anno 2000, rispettivamente di 10 e di 15 punti percentuali."

1.2. Questo sottodimensionamento e ridimensionamento della parte pubblica della spesa (sempre tenendo conto di condizioni sociali e demografiche che aumentano invece la platea dei beneficiari) si riflette naturalmente in un aumento della spesa per cure sanitarie posto a carico dei redditi delle famiglie:
"...Se nel 2008 l’incidenza della spesa out of pocket (spesa diretta delle famiglie) sulla spesa sanitaria totale era sostanzialmente simile in Francia (21,8%), Germania (23,8%) e Italia (22,3%), nel 2017 il divario a sfavore dell’Italia è di circa 10 punti percentuali; Francia e Germania, nello scorso decennio, hanno perseguito politiche mirate ad incrementare il grado di copertura pubblica della spesa totale, mentre l’Italia l’ha ridotta, è ciò fa sì che l’Italia, pur avendo una spesa complessiva (pubblica e privata) inferiore del 57% a quella tedesca e del 42% a quella francese, abbia una spesa privata pro capite (655 euro) di poco inferiore ai livelli francese (665 euro) e tedesco (668 euro).
...I dati statistici relativi al periodo 2001-2017 mostrano una flessione, dopo il 2009, della spesa sanitaria pubblica in percentuale della spesa totale (pubblica e privata), e un incremento di quella direttamente sostenuta dalle famiglie (out of pocket), malgrado la sostanziale stagnazione dei redditi seguita alla recessione del 2009 (nel 2017 il Pil pro capite reale in Italia è risultato ancora inferiore del 6,2% a quello del 2008); nel 2017 la spesa out of pocket ha raggiunto i 39,7 miliardi, pari a un valore pro capite nazionale di 656 euro, segnando una crescita del 3,5% rispetto al 2016, e un’incidenza sul Pil pro capite nominale in aumento dall’1,9% (nel 2008) al 2,3% nel 2017. Nel 2017 le risorse pubbliche hanno coperto il 74% della spesa complessiva (152,8 miliardi), mentre la spesa diretta delle famiglie il 26,0 % (circa 39 miliardi, di cui 35,9 direttamente pagati dalle famiglie e 3,7 attraverso assicurazioni private)."

1.3. Mettendo insieme questi dati cosa si escogita per contenere ulteriormente la già declinante copertura pubblica della salute (art.32 Cost.) e dunque per incrementare il risparmio finanziario complessivo per mezzo dell'incisione sulla sanità pubblica?
"Entro il 31 marzo 2020 (ma il premier Giuseppe Conte ha già frenato sui tempi), sarà infatti messa in cantiere la riorganizzazione del sistema dei ticket sanitari, ovvero la quota che i contribuenti versano allo Stato come forma di «compartecipazione» per le prestazioni assistenziali diagnostiche o ambolatoriali specialistiche. Oggi i ticket sono fissati nella misura massima di 36,15 euro ma domani potrebbero essere ancorati al «reddito familiare equivalente» in base allo slogan «chi più ha, più paga». Ciò significa che il costo dei ticket crescerà in proporzione alla ricchezza calcolata non più in base al gettito Irpef ma anche al patrimonio, comprese rendite e case.
Una scelta solo apparentemente di buon senso e di equità sociale. I numeri, infatti, raccontano tutta un’altra storia. Il 71 per cento delle prestazioni della sanità pubblica è già oggi erogato a cittadini esenti dal ticket per motivi legati al reddito o al tipo di patologia grave o cronica. È solo il restante 29 per cento a concorrere a coprire le spese di un settore che, di suo, è già finanziato dalle tasse dei cittadini. Facile intuire, allora, che l’unico effetto che il riordino della materia voluta dal ministro neo comunista sarà quello di abbattere ulteriormente questa percentuale pagante che sceglierà, a parità di esborsi, di migrare verso il privato.
Il 9° Rapporto Rbm-Censis ha spiegato che circa venti milioni di connazionali saldano le cure mediche di tasca propria (la cosiddetta spesa out of pocket) mentre altri 6 milioni hanno rinunciato del tutto a curarsi. Inoltre, il 62 per cento di chi ha ricevuto una prestazione sanitaria nel pubblico ne ha richiesto almeno un’altra in quella a pagamento. E questo riguarda sia i redditi bassi (56,7 per cento) sia quelli alti (68,9 per cento). La stessa ricerca ha messo, inoltre, in evidenza che il 38 per cento dei redditi bassi si rivolge direttamente al privato senza passare per il pubblico.
Analoga percentuale è quella che riguarda quanti non sono riusciti a prenotare almeno una volta una prestazione nel pubblico per la chiusura delle liste d’attesa. Non è una sorpresa, quindi, che la spesa per la sanità privata sia arrivata a 37,3 miliardi di euro con un incremento del 7 per cento rispetto al 2004."

1.4. Dunque, l'oggettiva tendenza è quella di indurre il cittadino a migrare verso il privato, laddove se lo possa permettere (nonostante già finanzi il SSN con le imposte e tasse pagate alla fiscalità generale), nella consapevolezza che l'evidente dinamica del taglio reale della spesa pubblica sanitaria gli pone davanti "liste di attesa" che vanificano le più elementari esigenze di diagnosi e cura tempestive.
Ecco: una diffusa rieducazione a provvedere a proprie spese alla cura della salute, in deroga alla previsione costituzionale, sta avendo l'effetto de facto di privatizzare la sanità, spiazzandone la spesa dal settore finanziario pubblico a quello finanziario privato assicurativo. Tutto questo agevolerebbe progressivamente la sostanziale riduzione della spesa sanitaria pubblica, marginalizzata a prestazioni gratuite (urgenti e, giocoforza, sempre meno sostenute da mezzi e personale specialistico avanzati) per soli soggetti in condizioni reddituali di povertà o molti vicine ad essa. Ce lo dice lo stesso prof. Savona, in un recente intervento:
"Il prossimo governo, nella manovra autunnale, dovrebbe “rivedere il patto tra chi produce e chi ha bisogno di assistenza” perché “se io oggi ti do assistenza aggiuntiva e per farlo devo ridurre gli investimenti, sto peggiorando le condizioni della crescita e del lavoro“. Il suggerimento dunque è di smettere di “dare la sanità gratis a persone che sono in grado di pagarsela: il cittadino non può essere coperto da tutti i rischi".

1.5. Una buona tecnica incrementativa della segnalata tendenza, che potrebbe ben rientrare nell'agenda FMI, è agire simultaneamente su due livelli: abbassare la soglia della gratuità, assumendo un non inconsueto concetto di "ricchezza relativa" e aumentare il costo dei ticket fino a spingere fasce di popolazione crescenti a migrare verso il privato. Una tecnica del tutto analoga a quella utilizzata appunto per le pensioni.
Un esempio creativo potrebbe escogitarsi vedendo le condizioni di ammissione al ticket: una colpisce in particolare tra quelle attualmente vigenti, poiché non attiene a condizioni che manifestano in modo diretto un'evidente forma di disagio sociale: "cittadini di età inferiore a 6 anni e superiore a 65, appartenenti ad un nucleo familiare con reddito complessivo non superiore a 36.151,98 euro (CODICE E01)"
Agendo su questa attuale duplice soglia di esenzione, sarebbe sufficiente rideterminare l'età più elevata che dà diritto all'esenzione sulla data dell'effettiva età di pensionamento - nel 2020 portata a 67 anni - e ridurre la soglia di reddito, in coerenza con quella assunta per la super-contribuzione "solidale-intergenerazionale", che abbiamo visto ponibile alla fatidica soglia dei 28.000 euro (pensione mensile lorda superiore a circa 2100 euro, con applicazione, peraltro su ogni reddito, della "mitica" aliquota del 38%). Il ticket, poi, potrebbe essere aumentato nella sua soglia di base e, via via, in proporzione, per ogni crescente fascia di reddito (secondo la proposta del governo attuale).
Ne risulterebbe: 
a) un risparmio di spesa sanitaria netta, a regime, di qualche miliardo; 
b) un deciso incremento dello spiazzamento dell'onere delle cura dalla spesa pubblica a quella privata assicurativa.
Il calcolo del maggior gettito, e della minor copertura, è abbastanza complesso: tuttavia, essendo i dati disponibili, non è difficile immaginare un legislatore "creativo" e volto alla crescita inclusiva e sostenibile di lungo periodo, calibrare sobriamente il tutto per un consolidamento fiscale (strutturale) di un 2-3 decimali di PIL (dai 3,5 ai 5,2 miliardi). O magari anche di più, in una progressione "a tappe" pluriennale. E tutto questo per poter "aumentare gli investimenti" (pubblici?) e non sacrificarli...

2- Un piano quinquennale di privatizzazioni.
2.1. Qua parliamo della privatizzazione del settore societario-industriale a proprietà (o almeno "controllo") pubblico. 
Con una precisazione: per pensioni e sanità si tratta sostanzialmente di un sistema anch'esso di privatizzazione, sia pure indiretta - mediante de-finanziamento e disincentivi economici alla prestazione erogata dal pubblico - , ma concerne quelle che la Costituzione (art.32 e 38 Cost) ritiene essere funzioni pubbliche di primario interesse generale, fondative della Repubblica fondata sul lavoro (art.1 Cost.), e non meri servizi pubblici. Quindi una privatizzazione tout-court, per riforma legislativa abrogatrice dell'intervento e delle strutture pubbliche, incontrerebbe delle difficoltà notevoli nelle previsioni costituzionali, che sarebbero incompatibili con la immediatezza e il "fate presto" insiti nella realizzazione dell'agenda FMI.

2.2. Quanto alla privatizzazione in senso "proprio", nelle prospettive attuali, la fantasia di un illuminato legislatore statominimista, e dedito a perseguire la crescita mediante crowding-out, può esercitarsi con grande ampiezza. La parola d'ordine, lo sappiamo, è "abbattere l'enoooorme debito pubblico". 
Ora, l'ammontare del debito pubblico, in assoluto, è oggi all'incirca pari a oltre 2337 miliardi
Il valore delle partecipazioni pubbliche in società quotate si aggira intorno ai 35 miliardi: e ciò, considerate cumulativamente sia le partecipazioni direttamente in capo al Ministero dell'economia che a Cassa Depositi e Prestiti che, però, pur essendo controllata dallo Stato all'84%, è qualificabile come proprietario "privato" (essendo considerata market unit, cioè operatore finanziario "sul mercato"); pertanto la sua precedente acquisizione di quote dal Ministero è stata, ed è tutt'ora, pur con alcune perplessità ventilate in sede Ue, considerata una privatizzazione (per quanto attenuata dal punto di vista gestionale).

Un'operazione di totale dismissione delle sole partecipazioni dirette statali, avrebbe dunque effetti di cassa transitori sul deficit annuale (anche perché il collocamento potrebbe richiedere più di un anno) ma risultati modesti, se non quasi irrilevanti, sul debito pubblico. E questo non potendo esservi aggiunte, per l'appunto, neppure le ulteriori partecipazioni, anche in società non quotate, detenute da CC.DD.PP, tramite CdP Equity (già, in origine Fondo Strategico Italiano), che detiene partecipazioni, non sempre di controllo e peraltro nel quadro di accordi di partnership strategica con altri soggetti investitori (esteri), per circa 2,7 miliardi (a chiusura esercizio 2017).

2.3. Un'operazione di cessione totale e a breve termine dell'intero "pacchetto statale", pone inoltre un problema di sostituzione delle entrate derivanti, nel bilancio consolidato dello Stato, dai profitti distribuiti da tali società, aspetto che riduce, strutturalmente, e non transitoriamente, il sollievo transitorio, per l'indebitamento annuale dello Stato

In definitiva, considerata la redditività positiva delle "quotate" in mano allo Stato e i rendimenti decrescenti del titoli del debito pubblico che il corrispettivo della cessione andrebbe ad ammortizzare, vi sarebbe una perdita di flusso di cassa (di entrate) ben superiore all'onere attuale degli interessi passivi sul debito ammortizzato (v. qui, p.5
Senza parlare del problema più strettamente industriale, della perdita di gestione e controllo di filiere che alimentano la capacità competitiva, di investimento innovazione e ricerca, nazionali. Finché siano, appunto, all'interno del controllo nazionale. Ma questo problema non pare molto "sentito" nelle dichiarazioni dei responsabili politici dell'economia italiana.

2.4. Vi sono però ulteriori elementi di pubblica proprietà di società, variamente classificabili come industriali, che fanno capo al settore pubblico: sia statale, che regionale, che comunale che di "altri settori". Secondo i dati del Mef, emergenti dal "Rapporto sugli esiti della revisione straordinaria delle partecipazioni pubbliche" (tavola II, pag.18), del 2019, il numero delle partecipazioni societarie pubbliche, dunque anche non quotate, facenti capo ai vari Ministeri è pari a 207; quello complessivamente attribuibile alle varie amministrazioni locali (includenti anche le Regioni) è di 32.207 (e hanno risposto al censimento soltanto l'85% delle amministrazioni locali); gli enti previdenziali e assistenziali, poi, detengono altre 13 partecipazioni.
Il valore di bilancio complessivo di questa costellazione - che spazia, naturalmente dai servizi pubblici di fornitura di acqua, gas e elettricità, al manifatturiero, alla ricerca scientifica fino all'agricoltura -, non è riferito nel Rapporto; il dato più indicativo è che circa un terzo (il 34%) è in perdita. Ma per quanto riguarda la volontà dichiarata di mantenimento, e quindi di "non dismissione", la percentuale di quelle in perdita scende al 20% (dunque l'80% delle mantenibili, è in pareggio, 5%, o in utile, 75%).
La procedure di alienazione concluse positivamente, rispetto alla volontà dichiarata in sede di censimento (formula alternativa al recesso), sono state pari a un terzo di quelle per cui si era preso un impegno, e ha dato, finora, un corrispettivo di circa 420 milioni (Tabella V.24 a pag.46), riguardando un totale, estremamente eterogeneo quanto a fatturato e settori di attività, di 458 società.

Ma anche questo settore, in cui le dismissioni sono già "programmate", ipotizzando un ottimistico e solerte "pienone" da parte delle Amministrazioni locali, prevalentemente interessate alla cessione, la privatizzazione porterebbe, sì e no, ad un aggiuntivo introito di poco superiore a 800 milioni.

2.5. La realtà è che controllo e gestione delle multiutilities che gestiscono i principali servizi pubblici "a rete" sono già in (lucrosa) proprietà e/o controllo privati: 
la cessione generalizzata (per subentrato obbligo legale "riformatore") di eventuali e, ormai spesso minoritarie, partecipazioni pubbliche, sarebbe però possibile e lucrosa nell'ordine dei miliardi. Sempre ad avere un censimento dei valori di bilancio e degli utili netti distribuiti (che non pare esserci, essendo il Rapporto solo una radiografia delle cessioni di quelle in perdita). Il problema è la perdita di controllo pubblico sulla gestione, sull'effettivo andamento tariffario (che sia affidato a un'analisi dei costi effettivamente trasparente e comprensibile per un "utente medio"). 

E lo evidenzia bene il costituzionalista Bin (qui, p.4): 
"[...] qualsiasi legame con gli enti rappresentativi è reciso"; "i servizi pubblici hanno" quindi "perso ogni rapporto con il circuito della responsabilità politicapuò infatti un ente locale rispondere politicamente pro quota azionaria? Chi risponde della politica dei servizi pubblici, e a chi? Mentre appare irrisoria l’ipotesi che – soprattutto in situazioni dove il mercato non esiste – siano i consumatori lillipuziani a bilanciare il peso del colosso industriale, è però del tutto evidente che i cittadini sono completamente scomparsi dell’orizzonte: con loro è scomparsa la “comunità” quale destinataria dei servizi pubblici, e la politica come sede delle scelte sull’estensione, l’intensità e il carattere sociale degli stessi."

2.6. Concludendo: la decisione di procedere a ulteriori privatizzazioni di società che vedano le più varie forme di partecipazione pubblica, consistente per lo più in cessione di quote non maggioritarie - anche se, talora, come nel caso dell'ENI, sufficienti ancora a garantirne il controllo -, è oggettivamente una decisione di mera sostanza politica. 
Qualsiasi valutazione in termini di pura economicità è resa "labile", dal fatto che, nella realtà, i valori cedibili sono poco consistenti rispetto allo scopo ex se di ridurre il debito pubblico, e che si tratta in grande prevalenza di società che (quale che sia il collocamento a livello territoriale della loro proprietà) rendono al settore pubblico, come flusso di utili, più di quanto non siano gli interessi passivi sul debito pubblico che ne verrebbe ammortizzato.
Le società in questione, infatti, corrispondono, (ormai molto) in astratto, ai più vari interessi pubblici, diretti ed indiretti - sviluppo coordinato dell'economia industriale, attenuazione delle rendite nel settore delle utilities, caratterizzate strutturalmente dalla rendita di monopolio, o di oligopolio concentrato (o più spesso "concertato"). 
Ma il valore aggiunto del perseguimento di tali interessi, che sono evidentemente occupazionali, quantitativi e qualitativi, agli investimenti innovativi, alla gestione nell'interesse del potere di acquisto delle famiglie, è del tutto perduto: disperso nelle maglie complessive della disciplina che ne regola i rispettivi settori. E che, inutile sottolinearlo, ha tutta origine nel diritto europeo.

2.7. Uno dei "colpi" più magistrali che potrebbero essere messi a frutto, in termini sia di cassa che di ampiezza del controllo gestionale che verrebbe ad essere trasferito, - e che, pertanto, per la sua appetibilità per l'investitore estero non può essere trascurato - è la privatizzazione, cioè la cessione sul mercato finanziario "internazionale" (ulteriore, oltre a quelle già cedute alle Fondazioni bancarie) di quote di controllo, o comunque consistenti, della Cassa Depositi e Prestiti.  
La Cassa è, infatti, già una società per azioni (art. 5 del d.l. n. 269/2003 (“collegato” alla legge finanziaria 2004 - convertito, con modificazioni, dalla legge n. 326/2003); la stessa legge, altrettanto, già prevede (art. 5, comma 2), che  "altri soggetti pubblici o privati, tra cui sono indicate espressamente le fondazioni bancarie, possono detenere quote di capitale, purché nel complesso tali quote rimangano di minoranza". 

Sarebbe dunque sufficiente, per un legislatore "creativo e bene intenzionato" rimuovere questo limite di cui al comma 2, per consentire di negoziare l'entrata di altri soggetti privati, fino a consolidarne, magari mediante il complicato presupposto di una procedura infarcita di advisor e soggetti "collocatori", un controllo privatizzato. 

Si consideri che l'attuale 15,95% (in origine "era" il 30%...) dell'azionariato CC.DD.PP collocato presso le 65 fondazioni bancarie, è stato pagato 1 miliardo e 50 milioni (il valore azionario complessivo è fissato in 3.5 miliardi di lire). 
Lo sperimentato intervento (para)procedimentalizzato degli advisor (v. qui, pp. 8-9) porterebbe alla cessione ulteriori a valori presumibilmente ben accresciuti rispetto a quelli formali del capitale sottoscritto, considerato che la Cassa distribuisce profitti annuali "ben superiori" al 10% ai fortunati investitori delle Fondazioni che, soprattutto, possono fruire della previsione statutaria, all'art.30, sull'obbligo ("saranno assegnati") di distribuzione di utili. E magari con (il non facile) scorporo della "gestione separata" destinata al finanziamento degli enti territoriali pubblici.
E si consideri, non secondariamente che il controllo pubblico dell'Eni è sostanzialmente "blindato" nella Cassa: il Tesoro, infatti, possiede il 4,34 delle azioni, mentre CC.DD.PP. ben il 26,37% (il "colpo magistrale" potrebbe realizzare il sogno delle "sette sorelle" fin dai tempi di Mattei...).

2.8. In definitiva, quindi, un legislatore (policy maker ideale) determinato, potrebbe comunque perseguire la scelta di introdurre un regime ulteriore di privatizzazione, adeguatamente articolato per i vari settori societari e produttivi, statali e locali coinvolti, e, ricavarne alcune decine di miliardi: certamente, dovrebbe sapere di sacrificare definitivamente ogni residuo, anche solo potenziale, di perseguimento degli interessi generali sopraddetti, che corrispondono a precisi obiettivi politico-economici costituzionali "primari", indicati negli artt. 41, 42 e 43 della Costituzione. E prima ancora derivanti dai principi fondamentalissimi della Repubblica fondata sul "lavoro".
Ma, in alcun modo, il policy maker ideale, coerente con l'agenda FMI, potrebbe e vorrebbe tenerne conto: in questa scelta politica prevarrebbero gli obiettivi di "fare cassa", a un livello formale-contabile (per quanto inefficace e limitato), e, soprattutto, di far accedere il capitale degli "investitori esteri" a partecipazioni profittevoli, quasi prive di alcun rischio, immettendo nel sistema esausto dell'industria nazionale dosi massicce di irlandesizzazione.

(10- segue)

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