L'Irlandesizzazione?
1.
Risulta invece interessante indagare su un ulteriore concetto, nell'ottica di
decifrare il futuro prossimo del popolo italiano.
Lo
abbiamo già definito, con un'approssimazione simbolica, la irlandesizzazione.
Questa
può senz'altro ritenersi una versione della giapponificazione presentandone
i tratti comuni essenziali: bassa inflazione e bassa crescita - nel medio
periodo, per quanto con delle "curiose" anomalie -, e redistribuzione
di reddito e ricchezza in senso concentrato crescente, con mercato del lavoro
fortemente dualistico.
Per irlandesizzazione,
semplicemente, può intendersi la trasformazione istituzionale di un paese
"occidentale" in un sistema industriale e finanziario a proprietà
(essenzialmente) estera.
Per
l'Italia, questo traguardo è ancora a una certa distanza, sebbene, tra appello
mediatico allo straniero e esaltazioni politiche dell'investitore estero
abbiamo già fatto un bel pezzo di strada(qui,
pp. 1-3).
Ma
è una versione peculiare; intendiamoci, per molti aspetti estrinseci, la
realizzazione di questa versione, - diciamo un modello di
specializzazione in cui l'Irlanda non è unica-, non è stata certo uno
svantaggio. Ma un elemento culturale strutturale, il
parlare l'inglese come (seconda) lingua nazionale, rende comunque peculiare
la vicenda irlandese.
2. Basti considerare il dato demografico: tra i più atipici nell'ambito storico europeo.
Paese
tradizionalmente caratterizzato da un
alto tasso di natalità nelle famiglie legittime, basso tasso di
natalità extra-matrimoniale, e un basso tasso di matrimoni (conseguente
alla "grande fame" della prima metà dell'occidente), l'Irlanda ha
notoriamente avuto uno "spettacolare" record di emigrazione nei
secoli scorsi, pur rapportato ad una popolazione residente che, a parità di
estensione del territorio, rimane una delle più basse dell'Europa
occidentale.
In
sintesi: aveva una popolazione di 6,5 milioni alla vigilia delle
"grande fame" del 1846 (cioè ben superiore a quella odierna),
ridottasi, nel 1961, a seguito di una ultrasecolare emigrazione, a 2,8
milioni (!).
Anche
il baby-boom degli anni '60 implicò una ridotta crescita demografica, a causa
della persistente emigrazione verso il Nord America (soprattutto: circa 4,5
milioni di canadesi e 35 milioni di statunitensi sono di origine irlandese).
Negli
anni '90, con la nascita del modello della tigre celtica, cioè
di uno spiccato dumping fiscale, interno all'Unione europea,
sul settore societario, la crescita demografica incrementa, sostenuta
specialmente dal ritorno di ex-emigrati irlandesi (e, progressivamente, dal
consueto afflusso dai paesi dell'ex Est europa sovietico). Con la crisi
economica e bancaria del 2008, l'Irlanda sperimenta un ritorno
ad un'intensa emigrazione netta, recuperando demograficamente solo a partire
dal 2015, allorché
l'immigrazione dall'estero supera nuovamente la persistente (forte) emigrazione
dalla Repubblica.
Ed
infatti:
"Nel
Novembre 2013, Eurostat riporta che l'Irlanda registrò il
saldo netto di emigrazione più elevato tra tutti gli Stati dell'UE, con 7.6
emigranti per 1,000 abitanti. Peraltro, ha la popolazione più giovane di tutta
l'Ue e i residenti sono previsti in crescita ancora per decenni, al contrario
del declino demografico atteso nella maggior parte dell'Unione europea.
La
Repubblica ha anche sperimentato un recente baby boom,
con tassi di natalità crescenti.
Nonostante
ciò, il tasso di fertilità totale rimane ancora sotto la capacità
di replacement, a seconda di quando sia fatto iniziare il periodo di
misurazione.
Il
tasso di fertilità irlandese è, infatti, ancora il più alto dell'Ue. Ma questo
incremento è significativamente alimentato dall'immigrazione
non-irlandese; nel 2009, un quarto di tutti i bambini sono nati da madri
immigrate da altri paesi.".
Tra
vecchie "attitudini" nazionali e nuove tendenze comuni a tutta
l'eurozona, l'Irlanda mostra, sul piano demografico, la sua
differenza rispetto al Giappone (dove l'immigrazione è un fenomeno finora
irrilevante), ma anche di essere divenuta, - grazie al suo modello
fiscale aggressivamente attrattivo-, perfettamente €uropea;
pur presentando, appunto in occasione della crisi del 2008 e del
"recupero" successivo, uno dei suo tanti fenomeni di "montagne
russe" (come vedremo...).
3.
La "tigre celtica" dei decenni passati, ha costituito l'espressione
di un'idea della internazionalizzazione, del mercato dei capitali e della
produzione industriale, considerata vincente: per lo sviluppo
e per il benessere sociale della popolazione irlandese.
Non
ripercorreremo questa ormai pluridecennale vicenda: qui trovate una ricostruzione ben fatta, che spiega come i dati sulla crescita del PIL siano in Irlanda "gonfiati" e non corrispondenti agli standards di vita dei cittadini.
Prendiamo un dato, da un recente report che riassume la rassegna della World Bank intitolata, significativamente, The Changing Wealth of Nations" (2018), e che rileva i mutamenti intervenuti, nel reddito nazionale pro-capite di tutti i paesi del mondo, tra il 1995 e il 2014.
Prendiamo un dato, da un recente report che riassume la rassegna della World Bank intitolata, significativamente, The Changing Wealth of Nations" (2018), e che rileva i mutamenti intervenuti, nel reddito nazionale pro-capite di tutti i paesi del mondo, tra il 1995 e il 2014.
Il
dato estrinseco, tralasciando altri elementi storici di valutazione, può
riassumersi in ciò: nel 1973, all'entrata dell'Irlanda nell'allora
CEE (comunità economica europea), questa era il paese più povero
d'Europa. Ad oggi (grosso modo: il report WB è del 2018 su dati fino
al 2014, appunto), figura invece al 19° posto assoluto della
graduatoria dei paesi più ricchi del mondo per reddito lordo nazionale
pro-capite.
Una graduatoria top-20
in cui, si noti, non figura più l'Italia.
A
questa notazione, peraltro, il Report
citato aggiunge subito una precisazione:
"questa posizione
irlandese (in graduatoria) è esagerata da distorsioni multinazionali (is
exaggerated by multinational distortions) (per esempio, l'ammontare degli investimenti diretti
esteri dall'Irlanda verso l'estero (outward foreign direct investment-
FDI) nel 2017, è stato "ridicolmente" più grande dello
stock di investimenti diretti verso il suo interno, secondo i dati ufficiali!)".
In
dettaglio: si passa da un saldo attivo di FDI (IDE), affluenti verso
l'Irlanda, di 42 miliardi nel 2016 ad un deflusso negativo netto di prevalenti
disinvestimenti, 2017, di 26 miliardi.
Cifre
che segnalano non solo la presenza di "montagne russe" un
pochettino anomale, ma anche la volatilità dell'affidarsi strutturalmente
alla leva dell'investimento estero (nel caso si trattava di massicci
disinvestimenti dal Lussemburgo...e dagli Stati Uniti). Una volatilità che, nel
2017, paga un pesante pegno sul saldo delle partite correnti e pure
sulla crescita (nella fase iniziale dell'anno), come vedremo più
sotto. E il fenomeno si sta ripetendo nella seconda parte del 2019.
3.1. Montagne russe investono anche la crescita del PIL: è ormai notorio l'episodio del + 26.3% del 2015 - che portò alla controversa definizione di Krugman come Leprechaun Economics-, a seguito di alchimie di bilancio e finanziarie delle multinazionali investitrici in Irlanda.
Per
contro, questo assetto segnala una sorta di alimentazione
esterovestita dello stesso bilancio fiscale irlandese (che si
distacca nettamente, in ciò, da ogni altro paese europeo:
Anche i saldi delle partite correnti con l'estero e la stessa inflazione, oltre naturalmente all'andamento della crescita del PIL, se rapportati agli altri paesi dell'eurozona negli anni più recenti, segnalano le "montagne russe"...irlandesi:
Ireland Current Account
Ireland Current Account
Tasso di inflazione (altalenante in modo sfasato rispetto al resto dell'EZ)
Come pure la crescita più recente del GDP (PIL)
Ma in Irlanda, come nell'Ue orientale, non a caso la critica è verso le grandi banche a controllo straniero, che dominano il settore finanziario nazionale, accusate di rimpatriare troppi profitti.
3.3. Dunque: forti, ma altalenanti tassi di crescita, e forti oscillazioni, ravvicinate nel tempo, dei saldi delle partite correnti, indicano un controllo dell'economia in proprietà estera: il rimpatrio dei profitti, così come l'incidenza di redditi e profitti di multinazionali estere sulle entrate fiscali nazionali, si rivelano una determinante fondamentale di entrambi questi aspetti, così importanti nel segnare l'effettiva prosperità della comunità sociale.
Nella realtà, la versione irlandese della giapponificazione, determina certamente delle diseguaglianze nella distribuzione del reddito. Traiamo da questo studio (irlandese) del 2019:
3.2.
In sostanza, abbiamo un'economia del tutto anomala, almeno rispetto a come
si presentano gli indicatori economici corrispondenti nei paesi europei più
"tradizionali"; ed infatti, analoghe peculiarità, ma non
così pronunciate, possono ritrovarsi nei paesi Ue dell'ex Est europeo, pur
essi caratterizzati dalla preponderante presenza della proprietà produttiva di
investitori esteri; in particolare della Germania.
Ed
in Irlanda, come nei paesi dell'Est Ue, questa forza del capitale estero,
industriale e finanziario, non può non riflettersi in un forte
influenzamento dello stesso processo politico-economico nazionale: in specie
nell'interesse del "controllore" estero alla moderazione nella
crescita salariale (contrapposto, ormai apertamente, nell'Est Ue, alla
volontà dei governi di allentare la morsa che blocca i salari reali).
Ma in Irlanda, come nell'Ue orientale, non a caso la critica è verso le grandi banche a controllo straniero, che dominano il settore finanziario nazionale, accusate di rimpatriare troppi profitti.
3.3. Dunque: forti, ma altalenanti tassi di crescita, e forti oscillazioni, ravvicinate nel tempo, dei saldi delle partite correnti, indicano un controllo dell'economia in proprietà estera: il rimpatrio dei profitti, così come l'incidenza di redditi e profitti di multinazionali estere sulle entrate fiscali nazionali, si rivelano una determinante fondamentale di entrambi questi aspetti, così importanti nel segnare l'effettiva prosperità della comunità sociale.
Nella realtà, la versione irlandese della giapponificazione, determina certamente delle diseguaglianze nella distribuzione del reddito. Traiamo da questo studio (irlandese) del 2019:
Il
salario mediano (quello percepito con più frequenza in
rapporto al totale degli occupati) è di € 3,674 al mese.
3.4. Da quest'altro studio, ricaviamo altri dati interessanti che riporto in sintesi:
- sebbene il sistema tributario irlandese sia considerato come il più progressivo, e quindi ai vertici della "capacità ridistributiva", tra quelli dei paesi OCSE, e comunque essendo assicurato un sistema di aliquote e di trasferimenti fiscali che sono sopra-media OCSE quanto al reddito effettivo (cioè effettivamente spendibile al netto dei tributi)
- tuttavia, la
diseguaglianza del "reddito di mercato", in Irlanda, è la più alta tra
tutti i paesi OCSE (il reddito di mercato è quello disponibile prima dei
prelievi fiscali e dei trasferimenti sociali; cioè a vario
titolo di welfare).
Spiegazione
principale (e più immediata): gli alti "premi"
retributivi offerti a chi dispone di una laurea o di un titolo
superiore, post-universitario, sono prevalentemente "dovuti
alla forte presenza delle multinazionali che offrono lavori altamente
retribuiti a chi possegga competenze elevate. All'opposto, chi
possieda un titolo di studio al di sotto della scuola secondaria superiore si
concentra nel fondo della distribuzione del reddito".
In
sostanza, chi non lavora per i gruppi multinazionali, è in una situazione di
emarginazione da working poor (qui,
p. 5.3).
3.5.
Fortunatamente...per gli irlandesi, la loro percentuale di laureati e
post-laureati, è superiore a quella della media OCSE. Anzi: la loro
forza, è stata proprio l'eccezionale
quota raggiunta, nella popolazione attiva, di laureati e post laureati...
(E
considerando che l'Italia
è invece abbondantemente sotto la media OCSE, verrebbe da ripetere
"ragazzi studiate!"; se fosse possibile dirlo a cuor leggero,
considerate le dinamiche reali della crescita della spesa pubblica italiana in
pubblica istruzione, università e ricerca).
Anche
facendo riferimento agli ultimi anni, successivi alla crisi del 2008, i dati
Eurostat più recenti, ci dicono che, quanto a percentuale assoluta,
e anche a variazione, del tasso di povertà o rischio di esclusione,
l'Irlanda ha fatto, e sta facendo, meglio dell'Italia (percentuali
inferiori e diminuzione, anzi che aumento, tra il 2008 e il 2017). Per
quanto vada sottolineato che l'Italia, tra i "grandi"
(demograficamente) paesi UE è l'unico ad aver peggiorato la sua situazione tra
il 2008 e il 2017.
Mentre
è altrettanto rilevante che tutta l'UE, e in particolare
l'eurozona, abbia fatto registrare dei miglioramenti del tasso di
"rischio esclusione sociale" molto esili rispetto alla situazione
sociale verificatasi in seguito alla recessione: in un decennio, il
miglioramento è minimo, tranne che in Polonia, Romania e Bulgaria (neofiti dell'Ue
e estranei all'eurozona).
Alla
fine di questo breve excursus, verrebbe da dire: bene
allora, studiamo tutti (più a lungo) e affidiamoci agli investitori esteri,
dato che le multinazionali estere sono più brave a fare profitti e pagano
meglio i propri dipendenti (che potremmo essere noi). Insomma,
#facciamocome l'Irlanda, e prendiamo atto che i nostri mitici piccoli-medi
imprenditori non sono all'altezza di garantire crescita e occupazione ai
livelli degli investitori esteri (...dentro l'eurozona).
Ma
prepariamoci ad andare a nostra volta, sulle "montagne russe";
istituendo l'inglese come seconda lingua ufficiale della Repubblica italiana,
però...aspetto che gioca un ruolo piuttosto importante in tutta la vicenda.
4. Prima di assumere come questa conclusione, però, proverei a esaminare un paio di altri dati.
Anzitutto
la posizione netta sull'estero (net international investment
position); questa ci dà conto del saldo tra
il dare/avere di un paese verso il resto del mondo in termini di stock di
credito/debito commerciale o relativo alla proprietà di assets,
finanziari e non, che danno luogo a un diritto di pagamento a favore del
proprietario straniero, (nazionale ovvero estero, nel dare/avere
considerato).
In
estrema sintesi: oltre al debito commerciale cumulato ed
ancora esigibile, anche il debito legato al diritto di restituzione del
capitale spostato all'estero da un investitore estero (in campo
finanziario o industriale).
Ora, al
2018 (dati
Eurostat del 2019), mentre l'Italia aveva un saldo passivo della NIIP di
appena 4,7% in rapporto al PIL, l'Irlanda aveva un corrispondente saldo
negativo del 167,9%; che è di gran lunga il più alto in Ue; persino più
alto di quello della Grecia, 143,3% (soggetta ai programmi di saldo&svendita della
Trojka).
5. Ma c'è pure un'ulteriore passività da considerare.
Il
debito privato complessivo in rapporto al PIL: è
questo un indicatore che esprime molto bene il grado di finanziarizzazione e di
distribuzione della crescita del prodotto all'interno di una società.
Se il debito contratto dal settore privato è molto elevato, e crescente a livelli divenuti stratosferici, ciò indicherà una debole capacità di risparmio diffuso, nelle famiglie, e una ridotta capacità delle imprese di ricorrere all'autofinanziamento mediante i profitti, nonché una costante crescita cumulativa dell'onere degli interessi.
Dunque, un
equilibrio precario relativo alla solvibilità del settore
privato, che rinvia a un problema simmetrico del sistema bancario
prestatore. E tanto più precario, quanto maggiore è la quota del risparmio
nazionale che si converte in profitti riesportati dagli
investitori stranieri.
L'Irlanda, in base al
più recente dato da poco pubblicato, ha un livello di debito
privato rispetto al PIL tra i più alti del mondo, 382,27%.
In
Ue, secondo solo all'anomalo Lussemburgo.
L'Italia,
per conto suo, registra un ben più solvibile 166,2 %, non
lontano dal 147,6 della Germania, paese notoriamente risparmiatore (e
accumulatore di surplus record con l'estero).
6. Veniamo infine ad un altro importante elemento da considerare, più squisitamente politico-istituzionale.
Cosa
significhi un tale livello di diritto proprietario estero, e
connesso potere (giuridico) di tipo gestionale (industriale e finanziario), è
facilmente intuibile: cioè l'indirizzo strategico dell'intero sistema
produttivo e finanziario di un paese risulta inevitabilmente deciso in
base agli obiettivi e agli interessi dell'investitore estero.
Ciò
significa ulteriormente che il livello di occupazione e dei salari del
paese "recettore" è stabilito nell'interesse del profitto privato
dello stesso investitore. E tale livello può salire solo se salgono i
profitti: in caso di recessione mondiale e di scomparsa dei profitti, il paese
"recettore" vedrà enormemente amplificati gli effetti
sull'occupazione.
Inoltre, l'investitore estero è sostanzialmente un creditore che ha diritto alla restituzione, attuale o potenziale, del capitale investito: come creditore, in vista della fiducia che ha accordato, troverà legittimo imporre delle condizionalità e esigere delle adeguate garanzie. Garanzie che, quindi, serviranno, in molte forme, ad una rapida "escussione" privilegiata.
E
questo potere va congiunto al, già visto, potere generale di gestione
finanziaria e industriale, che, sul piano dei livelli di occupazione e
salariale, sostituisce e marginalizza la sfera d'azione
(costituzionale) dello Stato recettore: quest'ultimo, si limiterà ad
apprestare quel tanto di welfare
minimo-assistenziale (qui, p.3) e quel tanto di
ridistribuzione e azione pubblica (es; un sistema di formazione funzionale
agli skills specificamente richiesti dai gruppi esteri), che
serva da presupposto e cornice supply side pro-capitale
estero e funzionale alla indispensabile sedazione della
conflittualità sociale.
Almeno
finché le cose andranno "bene" (per gli investitori esteri, cioè
finché realizzano i profitti attesi; per lo Stato "recettore" c'è
sempre la faccenda della riesportazione dei profitti e della forte posizione
patrimoniale negativa con l'estero).
7. In sostanza, in conseguenza del rischio (strutturalmente pendente) di "realizzazione-esazione" del suo credito, l'investitore estero che assurga a figura "dominante" di un'economia nazionale, esercita un potere di indirizzo, politico-economico e fiscale, fortissimo; se non totale.
Il che pone una questione di democrazia, se ancora si può dire che la democrazia includa l'indipendenza di una Nazione, ma anche di concreto rischio di "montagne russe", nella crescita e nell'occupazione di un paese "recettore".
Perché
non sempre il ciclo economico dell'economia globale, finanziarizzata e
(inguaribilmente) deflattiva, consente di raggiungere profitti e di
"beneficiare" gli skills della forza lavoro del
paese in cui si investa.
Come
abbiamo visto nel precedente post della serie, l'ingegneria finanziaria ed il
conseguente indebolimento del manifatturiero a favore dei servizi, creano
problemi di "caduta permanente della domanda". Ed un peso
insostenibile dell'indebitamento (privato).
Pericoli
a cui è esposto anche chi produce manifattura high-tech...su
tecnologie di proprietà di gruppi esteri (che
riesportano comunque i profitti).
E quando ci sono le "perdite", come adesso si teme, appunto in questo ambiente finanziarizzato globale, le cose possono andare male, molto male.
E
il tuo stato democratico potrebbe non farci granché; quasi nulla.
8. E...by the way: persino ora che le cose vanno apparentemente bene, questa perfetta €uropeizzazione dell'Irlanda, - ma, non casualmente, con un mercato dualistico del lavoro, spaccato a metà tra ben retribuiti e working poors- di fronte al crescente problema della presenza intensificata degli immigrati, provoca esattamente gli stessi problemi che si hanno in Italia, o meglio (peggio), in Germania.
Tra
paesini di poche centinaia di abitanti dove sono ricollocati, in secret e
senza consultare la local community, gruppi di presunti rifugiati o
semplici migranti economici, preoccupazioni per le contestate assegnazioni
abitative nel public housing system e per la tenuta
dell'assistenza sanitaria e pensionistica, si verificano incendi dolosi
negli hotel di "prima collocazione" (molto spesso, nell'unico hotel
del paesino, abitato da non skilled workers, che spera di
risollevarsi attraverso il turismo).
Ogni
opposizione alle prime sistemazioni viene etichettata come
"far right".
Mentre
i partiti al potere si dividono tra un "aiutiamoli a casa loro"
e un contestato atteggiamento di denial, col solito: "l'immigrazione
è una cosa positiva ma bisogna comunque gestirla".
E
di fronte ai sempre
più frequenti atti di violenta contestazione, (certo gli irlandesi non
possono essere accusati di una tradizione xenofoba & fascista), si
organizzano, nei paesini destabilizzati, manifestazioni pro-immigrati importando piccoli
gruppi di attivisti che nessuno ha mai visto prima, tra gli abitanti rurali in
rivolta...
Insomma:
l'Irlanda è un polveriera, come tutta l'€uropa, ma nella verde Repubblica, data
la sua peculiare industrializzazione estero-guidata, hanno innescato una
bomba sociale ancora più grossa...
(5- SEGUE)
(5- SEGUE)
visto che non riesco ad andare in pensione provvedimenti del governo Monti faccio il lavoratore povero La maggior parte dei miei concorrenti nel lavoro di Rider sono stranieri un qualche decina di anni meno di me da un atteggiamento irenico verso l'immigrazione sono arrivato a un insofferenza totale verso il fenomeno
RispondiElimina