Vi propongo uno studio di Arturo che, mai come in questo momento, ha una forza chiarificatrice decisiva.
Quello che ne emerge - come complemento e approfondimento del discorso svolto ne "La Costituzione nella palude"- è un punto sul quale non vi dovrebbero essere più incertezze, se si vuole, prima, capire e, poi, risolvere l'inesauribile crisi economica italiana, che sta minando irreversibilmente la democrazia della Repubblica fondata sul lavoro.
E il punto è che, diversamente da quanto implicano gli amici Giacchè e Cesaratto (con diverse sfumature), non c'è, - e non c'è mai potuto essere-, un "europeismo" diverso dall'Unione europea; cioè, diverso da un "internazionalismo dei mercati", liberoscambista, che non sia legato ad una rigida pianificazione della rivincita del capitale sul lavoro. In nome di una pace ab orgine contraddittoriamente brandita, ma solo, e sempre, "contro" gli scenari naturali della democrazia (come persino Togliatti aveva ben chiaro), fondati sugli Stati-nazione.
L'Unione europea non ha "tradito" alcuna originaria purezza del disegno federalista, ma ne è solo il punto di approdo di una fase: per passare poi, in assoluta coerenza col disegno originario, alle ulteriori fasi che stiamo vivendo.
Quelle fasi dalle quali la democrazia, e la Costituzione su cui essa si fonda in Italia, usciranno definitivamente "distrutte", per usare le parole di Calamandrei (ex multis, fra i Costituenti che avevano fatto avvertimenti fin dagli anni '40 del secolo scorso).
Lo pubblicazione dello studio procederà in tre parti, ciascuna da meditare e interiorizzare (speriamo) con la dovuta attenzione.
PRIMA
PARTE
Ci siamo lasciati dicendo che la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha svolto un ruolo fondamentale nel
processo di integrazione.
Per vederci un po’ più chiaro e
poter comprendere nel loro contesto le due decisioni spartiacque (Van Gend en
Loos e Costa vs. Enel) occorre seguire un percorso di carattere storico.
Perché?
1. La storia è nemica di tutti i
regimi, che ne hanno giustamente timore.
Un esempio di casa nostra, fra i tanti
possibili: durante "il regime
mussoliniano" "la letteratura
sulla Prima guerra mondiale assunse caratteri prevalentemente retorici. Quanto
accadde a Gioachino Volpe, il maggiore storico di orientamento fascista, o al
colonnello Angelo Gatti, che durante il conflitto mondiale aveva diretto
l'ufficio storico del Comando supremo, sta a dimostrarlo.
A Gioacchino Volpe,
che nel 1923 iniziava a comporre una storia del popolo italiano durante la
guerra per conto della Fondazione Carnegie, fu improvvisamente sbarrato
l'accesso agli archivi, poiché ci si era accorti che egli si interessava troppo
di operai, di scioperi e di disfattismo.
Angelo Gatti, che nel 1925, era stato
incoraggiato da Mussolini a scrivere una storia di Caporetto, fu poco tempo
dopo convocato dallo stesso Mussolini il quale lo invitò a interrompere le sue
ricerche perché - come il dittatore gli spiegò - il regime "aveva
bisogno di miti e non di storia" (P. Melograni, Storia politica
della grande guerra, Mondadori, Milano, 1998, pagg. VI-VII).
1.1. Non si può dire che l’Europa
non condivida bisogni analoghi, come dimostra l’edificante storiella, che ci
viene regolarmente propinata, di illuminati e coraggiosi padri fondatori
impegnati, soli, contro l’egoismo e la ristrettezza di vedute degli Stati
nazionali, a edificare uno splendido monumento alla pace e amicizia fra i
popoli.
Come colgono benissimo gli autori di una sintesi della storia
comunitaria di cui non posso che raccomandare la lettura integrale ai
francophones, ossia François Denord e Antoine Schwartz ("L’Europe social n’aura
pas lieu", Éditions Raison d’agir, Paris, 2009, pag. 8):
“Riscritto, il passato europeo si
libera di ogni connotazione ideologica e, più in generale, di tutti gli aspetti
scomodi: fallimenti di
possibilità storiche non realizzate, influenze imbarazzanti, personaggi
torbidi, manovre diplomatiche incerte, ecc. Della costruzione europea non resta allora altro che un progetto
universale e positivo, che si pretende apolitico, un metro su cui poter
giudicare gli ulteriori sviluppi dell’integrazione e incoraggiarne i
“progressi”. E’ questa pretesa “purezza” del disegno originale che autorizza
i rimpianti sul carattere incompiuto della costruzione, sulle “deviazioni” e
sulle “lacune” (deficit democratico, Europa sociale, ecc).”
1.2. Lo abbiamo visto nella discussione con Andor: è la mitologia
della purezza originale che consente di interpretare il disastro presente come
deviazione, o addirittura “tradimento”, di cui sarebbe non solo possibile, ma
addirittura doveroso, tentare correzioni (potenzialmente rimandando la
soluzione fino all’indefinito tempo in cui queste ultime si rendano possibili).
Anche il pur pregevole libro di
Stiglitz è infiorato di considerazioni analoghe.
Chi invece ritiene che gli attuali
sviluppi non rappresentino che “un
irrigidimento di una via seguita fin dai primi passi” (Ibid., pag. 80),
avrà una visione assai meno ottimista
circa i possibili margini di correzione, ma anche decisamente meno imbarazzata
davanti alla prospettiva di rotture radicali.
1.3. Sono convinto che pochi
aspetti della costruzione comunitaria abbiano più urgente bisogno di
quest’opera di demistificazione della storia della Corte di Giustizia
dell’Unione Europea e della sua giurisprudenza.
D’altra parte, solo attraverso
un esame storico espressioni apparentemente contraddittorie come “constitutionalism
without constitution” oppure “féderalisme furtif” (federalismo di
nascosto), usate dagli studiosi per descrivere l’esperienza giuridica europea,
diventano comprensibili.
Ora, sarà un caso, o forse no, ma
la Corte di Giustizia, benché mantenga degli archivi (esiste un regolamento, il
numero 1700/2003, che la obbliga a farlo), non ha la minima intenzione di
indicare una qualsiasi data in cui questi saranno consultabili.
Nel frattempo,
i documenti lì custoditi (che non si sa nemmeno quali siano) si trovano
convenientemente al riparo da tutte le norme che consentono l’accesso agli atti
comunitari (dettagli in For History’s Sake, Editorial in European
Constitutional Law Review, 2014, 10, pag. 196. Ringrazio Sergio Govoni per la
segnalazione dell’articolo), costringendo gli storici a lavorare su fonti
secondarie, con limitatissime eccezioni (che riguardano un giudice italiano e
che vi fornirò: tutto materiale pubblico e strapubblico, sia chiaro :-)). Come
dicevo, la storia fa paura.
Cerchiamo di capire perché.
2. In un pregevole paper
gli stessi Denord e Schwartz, trattando delle origini neoliberali del
trattato di Roma, hanno colto efficacemente un punto sociologico fondamentale:
“il suo carattere neoliberale [del
Trattato di Roma] proviene dalla preesistenza di un gruppo transnazionale,
unito da tempo dal suo attaccamento al liberalismo e all’impegno europeo, i cui
rappresentanti occupano posti chiave
all’interno dei differenti Stati membri (compresa la Francia) al momento
delle negoziazioni.”
Per chiarire: i contenuti del
Trattato non sono un prodotto lineare dei politici, ma risultano notevolmente
influenzati dall’operato di questi network tecnocratici transnazionali, che
hanno saputo abilmente inserirsi nel processo di negoziazione prima e di
interpretazione poi.
Il fil rouge di questa operazione è
consistito nell’attribuzione al processo di integrazione un significato “costituzionale”. Per intenderne
il senso occorre necessariamente allargare il quadro.
2.1. La logica del ragionamento è
abbastanza lineare e se n’è già parlato:
per chi interpreta il crollo dell’ordine internazionale dei mercati avvenuto
dopo la crisi del ‘29, e la seconda guerra mondiale, come frutto un eccesso di interventismo statalista e totalitario,
anziché una ribellione delle società
gestita autoritariamente, sterilizzare l’unica possibile sede politicamente
rilevante di espressione del disagio sociale, cioè i parlamenti statali, tanto
più pericolosi se costituzionalmente obbligati all’attuazione di un modello di
democrazia sociale, appare sensato.
Sia chiaro: lo stesso senso che avrebbe,
volendo ridurre la fuoriuscita di vapore da una pentola a pressione, eliminare
la valvola, anziché spegnervi la fiamma sotto.
Non è un caso che varie
associazioni e progetti di unificazione europea, come quella del nostro vecchio
amico Kalergi, si affaccino proprio durante gli
anni fra le due guerre.
Tuttavia il “primo progetto d’integrazione
istituzionale dell’Europa che
abbia superato lo stadio di semplice proposta intellettuale e sia stato
effettivamente vagliato dai governi degli Stati europei” fu il piano Briand, proposto dalla Francia:
“Briand prospetta l’estensione del sistema di
garanzie di Locarno a tutto il sistema degli Stati europei, subordinando così
la sicurezza della “Comunità” al bilanciamento di potere e alle garanzie
bilaterali. Il terzo punto definisce l’organizzazione economica dell’Europa
come indirizzata alla creazione di un mercato comune, per incrementare il
livello del benessere, da realizzarsi tramite l’abbattimento delle barriere
doganali, tema cardine nella politica di Briand. Era quindi prospettato un mercato unico privo di limiti di
circolazione di merci, capitali e persone, con la sola riserva dei
“bisogni della difesa nazionale di ciascuno Stato”, e che subordinava così
l’unione economica all’esercizio della sovranità degli Stati nella materia
della sicurezza.”
2.2. L’esigenza del piano nasceva
da quella che gli storici definiscono l’incapacità
americana di assumersi “le responsabilità connesse al ruolo di
potenza egemone sul piano economico, in
primis la difesa della stabilità del sistema finanziario internazionale.”,
come si esprime Mascherpa nel saggio sopra linkato.
Più che di cattiva volontà, è forse
più corretto dire che furono le ripercussioni interne della fragilità del
sistema economico-finanziario occidentale a rendere impossibile agli USA lo
svolgimento di quel ruolo imperiale di stabilizzazione (“La drammatica recessione obbligava
a concentrare energie e forze sul piano interno e qualsiasi altra problematica
era subordinata alla risoluzione della crisi economica. Fare altrimenti
avrebbe comportato delle pesanti conseguenze elettorali, come Hoover aveva
potuto verificare.” (M.
Del Pero, Libertà e impero, Laterza, Roma-Bari, 2014, s. p.)).
Dal canto loro, i leader europei,
oltre a non poter contare sulle medesime risorse americane, non godevano certo
di una situazione interna più stabile né della reciproca fiducia necessaria a
portare a termine i negoziati.
E’ sintomatica la reazione
dell’Italia fascista, e in particolare di quell’autentico campione della
stabilizzazione politico-finanziaria di marca anglosassone che era il ministro
degli esteri italiano, Dino Grandi.
Come riporta il saggio di
Mascherpa, Grandi temeva, probabilmente non senza fondamento, che la proposta
francese nascondesse una manovra aggressiva ai danni dell’Italia nei Balcani.
D’altra parte, l’anno successivo, Grandi rivolgeva queste parole al ministro del
tesoro americano Mellon:
“Insistendo io sulla necessità che gli Stati
Uniti non abbandonino la politica iniziata nel mese di giugno u.s., che d’altra parte
oggi la stretta connessione dei
fenomeni finanziari ed economici con quelli politici non permette
all’America di seguire una politica di intervento finanziario cui
l’obbliga la sua stessa potenza finanziaria in tutti i paesi del mondo, dichiarando tuttavia nello
stesso tempo la sua astensione da ogni collaborazione sul terreno politico, che
l’America sarà obbligata a uscire da questa contraddizione che non regge più,
Mellon mi ha risposto che di tutto ciò i leaders della politica americana sono
già persuasi ma che l’opinione
pubblica americana deve essere abituata a poco a poco, soprattutto
l’opinione pubblica del centro e dell’Est dell’Unione. Ma non è che questione
di tempo”. (D. Grandi, Il mio paese.
Ricordi autobiografici, Il Mulino, Bologna, 1985, pag. 332. Significativo che,
come da lui stesso dichiarato, Grandi ritenesse il nostro paese pronto a un
giudizio equanime sul suo operato solo negli anni Ottanta).
Negli anni Trenta non si “fece in
tempo”, ma quale migliore occasione della guerra fredda per riprendere i fili
del discorso europeo?
E infatti Mascherpa, che scrive sul solito, e prezioso,
Federalista, ossia la rivista del MFE, osserva:
“Se, due decenni dopo, la Dichiarazione Schuman, che diede origine alla
CECA, poté essere accolta, in gran parte fu grazie all’ombrello della sicurezza
atlantica e al beneplacito degli
Stati Uniti d’America, fortemente interessati alla realizzazione del progetto.”
(1- segue)
Bello, scorre fluido e senza strappi.
RispondiEliminami scusi ricordo che monnet e' quello che ha fatto costruire co victory program tutti i bombardieri che hanno portato le bombe a dresda
RispondiElimina1) l'argomento è irrilevante ai fini del tema del post;
Elimina2) semmai conferma i forti legami di Monnet con l'establishment industrial-militare USA (ammesso che la cosa sia obiettivamente riscontrabile da fonte diretta e attendibile);
3) gli alti profitti dell'industria militare e quelli, strettamente connessi, degli ambienti finanziari USA, nel contesto della seconda guerra mondiale, sono stati, comunque, l'unica ragione per cui i neo-liberisti hanno accettato - sia pure per un breve periodo e pronti alla immediata rivincita in USA e in Europa- le politiche "espansive" e di piena occupazione che hanno effettivamente risolto, solo con la guerra, la crisi americana del 1929.
Gli €uropeisti hanno semplicemente ottenuto il Fogno che da sempre volevano con il metodo dei piccoli passi della rana bollita. Il tradimento è stato della nostra classe dirigente nei confronti della Costituzione, e non dei moderni €uropeisti nei confronti del Fogno €uropeo originale, che è sempre stato uguale, partorito con il beneplacito e il finanziamento della Cia. Ho sempre provato profonda irritazione per tutti coloro che volevano stendere una patina di idealismo sopra i Fognatori originali del calibro di Spinelli, Monnet, Shuman, De Gasperi e Adenauer.
RispondiEliminaNell'intervento di Togliatti a cui rimanda l'incipit del post (seduta del 20 giugno 1947) ce n'è, oltre che per Einaudi, anche per De Gasperi (pp. 5091-92). Togliatti si pronuncia molto duramente nei confronti dell'allora Presidente del Consiglio, e la sua filippica, che parte in maniera alquanto significativa («Ho sentito dire che De Gasperi è un onesto democratico. Farei qualche riserva: lo definirei piuttosto un buon conservatore.») si conclude in maniera particolarmente aspra: «Infine, mi permetta, onorevole De Gasperi, la critica forse più acerba che vorrei farle, è che se in tutti i partiti cattolici d'Europa in generale è scarso lo spirito nazionale, in lei questo spirito nazionale è particolarmente scarso».
EliminaMi sono ricordato delle parole - qui già ampiamente note - di Lelio Basso, pronunziate dinnanzi a una platea di europeisti nel 1973, in cui il nostro rammentava avvenimenti del 1957, quindi risalenti a dieci anni dopo rispetto all'intervento di Togliatti che ho prima citato. Diceva Basso: «Dopo la firma, i Trattati di Roma furono presentati al parlamento per la ratifica. Io allora militavo nel partito socialista - nelle mie alterne vicende, le montagne russe della mia partecipazione al partito - ed ero membro della segreteria del partito. In quel momento, vi ricorderete tutti, il partito comunista prese una posizione nettamente negativa, votò contro, con un’argomentazione che veramente in bocca a comunisti e marxisti lasciava perplessi: la sovranità nazionale».
Notiamo come a dieci anni di distanza i comunisti italiani tenevano ancora il punto.
Comunque non dovrebbe sorprendere più di tanto a noi oggi il richiamo costante, da parte di un movimento comunista, alla nazione. In primo luogo, perché, come proprio Basso brillantemente spiegava in un altro passo qui ricordato, internazionalismo non significa affatto cosmopolitismo. In secondo luogo, perché, storicamente, il comunismo ha di fatto agito come ideale propulsivo per l'azione di movimenti di liberazione nazionale da regimi coloniali in Asia, Africa, Sud America. Se per noi italiani e "occidentali" (ha ragione Bazaar: sul fondamento ideologico della categoria di Occidente ci sarebbe tanto da dire) in generale comunismo e Unione Sovietica significavano applicazione del modello costituzionale (con alti e bassi) per ragioni prevalentemente tattiche, per tanti altri popoli significavano indipendenza e riscatto dopo secoli di sfruttamento e umiliazioni.
Uno storico ci potrà dire certamente di più su questo, ma il comunismo in qualche misura sta effettivamente al Novecento come il nazionalismo rivoluzionario sta all'Ottocento. Ciò che in Europa è avvenuto prima, altrove è avvenuto dopo (e questo non ha nulla a che fare con una presunta e a conti fatti inesistente arretratezza culturale degli altri continenti: l'eurocentrismo, nelle sue molteplici manifestazioni, ha fatto e continua a fare tanti danni ancora oggi: vedasi alla parola "Occidente"). E di tutto ciò bisogna tenere conto per effettuare una valutazione spassionata di cosa è stato il comunismo.
Bello spunto, che mette in evidenza,tra l'altro ed anzi conferma, l'incompatibilità sostanziale tra liberalismo e democrazia parlamentare, laddove, invece, la "vulgata" dominante vede (ancora) come l'uno padre dell'altra.
RispondiEliminaNon è invece così (e lo vediamo oggi), non era così (e lo vediamo leggendo criticamente i trattati di Roma ed il manifesto di Ventotene), non era così ancora prima (vedi il liberale Salandra e tanti altri come lui affascinati dalle sirene dell'autoritarismo fascista).
E non era così nemmeno "alle origini" in un certo senso.
Già alla fine dell'800, infatti, Sonnino si trovava ad affermare (nel celebre "Torniamo allo Statuto") che "In un Governo fondato quasi totalmente sull'elezione manca nella alta direzione della cosa pubblica la rappresentanza dell'interesse collettivo e generale". Il Passo citato ci dice già tutto: la composizione civile degli interessi particolari, che, a ben vedere, è alla base del confronto parlamentare deve cedere, ad avviso di Sonnino, il passo ad un preteso interesse superiore che è visto addirittura come estraneo e sovraordinato ai meccanismi della democrazia rappresentativa, i quali, per loro natura intriseca, rappresentano addirittura qualcosa di opposto (i cattivi "interessi particolari"). Si tratta, in sostanza, di un perverso primato della politica che costituisce, puta caso, la "grundnorm" di un particolare "stato di eccezione", quello del "vincolo esterno" che diventa, da un punto di vista morale, una sorta di misura necessitata per, potrebbe ben dirsi, salvare la democrazia da se stessa (annullandola).
In quel testo si trovano, poi, tanti altri rimandi al nostro presente. Primo fra tutti il mito del "governocentrismo" come unica via per affermare il preteso interesse superiore. Il ritorno alla formula letterale del potere esecutivo in capo al Re, con conseguente rigetto della prassi parlamentare che si era consolidata, viene infatti giustificato da una visione di un potere esecutivo che deve (si citano le testuali parole) "nella sua azione di governo, mantenersi al di sopra e al di fuori dei partiti" (e come si collocano, oggi, le istituzioni €uropee? "Al di sopra e al di fuori dei partiti"!!!), e che non deve (si cita sempre dal testo) "favorire gli interessi della maggioranza piuttostoché quelli della minoranza [ ... ] ma considerare tutti i cittadini allo stesso modo tenendo conto del solo interesse generale dello Stato". Ben potrebbero vedersi, in queste parole, gli albori di quella che potremmo definire "morale della tecnocrazia": se il potere esecutivo, per ricondursi all'interesse superiore di cui è unico portatore, deve prescindere da ciò che un Parlamento democraticamente eletto rappresenta, ciò significa -e non potrebbe essere altrimenti- che l'unico modo in cui il secondo può coesistere col primo è vincolato alla presenza di un perenne stato di eccezione che ne neutralizzi la sostanza, riducendolo a mero organo ratificatore.
Insomma, la "dottrina" era già stata scritta.....
Guardando ai fatti di oggi, rimango sempre più convinto che Liberalismo e parlamentarismo tutto sono tranne che fratelli. E non c'è momento nella storia, dalla nascita delle prime democrazie ottocentesche, in cui il primo non manifesti, ad intervelli regolari, decisa insofferenza verso il secondo.....
Sono d'accordissimo, ma l'equivoco, se vogliamo chiamarlo così, mi pare semplicemente il frutto di una separazione fra storia filosofico-politica e storia giuridica.
EliminaSe si evita l'apologetica della prima e ci si concentra sulla seconda, la "normale" apribilità dello stato di eccezione (ricordo la citazione di Bin che avevo riportato qui e quella di Zagrebelsky qui, punto 1.4) e la prevalenza dell'esecutivo sui parlamenti (vedi la citazione di Bagehot riportata da Nania qui) risultano fatti acquisiti.
Ci sarebbe da chiedersi perché i parlamenti siano stati, comunque, nel corso del tempo, anche esaltati dal capitalismo anglosassone, che è poi il modello di riferimento del sempre autorazzista spirito imitativo delle elites italiane.
EliminaVolendo farla breve, la ragione principale di tale concorrente "vena" della facciata etica del capitalismo liberoscambista, e implicitamente mercantilista-imperialista (come evidenziò Joan Robinson), è la CORRUTTIBILITA' delle compagini parlamentari (preorientativa delle deliberazioni assembleari: cose che, ancora oggi, vediamo divenuta una mitologia pop in serials USA come House of cards o "The Boss", dicui consiglio la visione a ci se lo fosse perso).
In sostanza, la prevalenza dell'Esecutivo porta a un certo qual consolidamento di rapporti di forza che si incentrano sui più eminenti operatori economici "tradizionali" e, in qualche modo, legati all'accumulo di terra-oro nel territorio nazionale.
Si tratta, ovviamente, di banchieri, della cui "morale" prevalente Bazaar ha evidenziato l'essenzialità relativamente alla fondazione delle regole pregiuridiche, e delle grandi industrie di "prima generazione"; questo complesso consolidato, in quanto tale, tende a condizionare opinione pubblica e legislazione "a valle" di essa.
In altri termini, gli operatori economico-finanziari, resa rispettabile la propria condizione, tendono irresistibilmente ad assumere funzione e ruolo delle vecchie aristocrazie (che hanno espulso dal potere) ed "occupano" le strutture istituzionali, cioè lo stesso Cabinet e le "filiere" pubbliche dell'esercito e della diplomazia (e della magistratura).
Se la burocrazia diviene così esponenziale dello Stato borghese-liberale, incarnato dalla tendenziale prevalenza dell'Esecutivo, lo diviene in un modo particolare: cioè, inevitabilmente autoconservativo di certi rapporti di forza "interni" alla classe capitalistico-mercantile.
Allora, in questa situazione, le forze nuove che operano sull'evoluzione dei traffici commerciali e delle filiere industriali, in chiave colonialista e mercantilista, entrano in concorrenza con l'establishment del capitalismo (pro-tempore) divenuto rispettabile (ma non meno attento a conservare la prevalenza nel conflitto sociale interno).
EliminaPer indurre politiche che siano anche protettive e promozionali dei nuovi settori emergenti, che spesso, in poco tempo, divengono i più lucrativi, questi ultimi tendono a comprare l'indirizzo legislativo tramite il parlamento, di cui si assicurano un crescente numero di esponenti eletti e foraggiati, nelle loro prese di posizione, dai nuovi flussi finanziari.
Sul punto, rammento; http://orizzonte48.blogspot.it/2016/04/la-mano-invisibile-che-affida-la.html (relativo alla guerra dell'oppio; esempio paradigmatico che può essere esteso a molte altre successive ed analoghe vicende, anche negli Stati Uniti).
Questa, in fondo, è la logica dei checks and balances: essa presuppone cioè la possibilità di avvicendamento tra settori o fazioni del potere economico, storicamente mutevoli e in dialettica rispetto agli assetti autoconservativi interni alla classe oligarchica.
Dunque, sulla base di alcuni principi organizzativi quali l'idraulicità delle elezioni, garantita dal controllo dei media, e i meccanismi delle leggi elettorali (invariabilmente tesi a selezionare l'elettorato passivo), i parlamenti sono considerati accettabili come espressione della "Mano Invisibile" proiettata nel campo del controllo concorrenziale delle istituzioni: ma sempre ascrivibile ad una sola classe sociale...
Al di fuori di queste rigide condizioni, e spesso proprio per la inefficienza in termini di benessere collettivo di questi meccanismi delimitati, i parlamenti "entrano in crisi": cioè finiscono per rappresentare diversi gradi di malcontento sociale.
Ed è allora che la solidarietà della classe finanziario-industriale viene ritrovata e si muove l'attacco sistematico ai parlamenti.
Inutile dire che la causa di ciò sono diversi gradi di compromesso: cioè allorquando si accetta il suffragio (più o meno) universale e/o accedono alla burocrazia esponenti di altri ceti sociali, o "peggio", si organizza il potere sindacale.
Il parlamentarismo va bene, dunque, purchè non si realizzi neppure un minimo di Stato pluriclasse e l'idraulicità sopporti soltanto stress soggetti all'agire di forze, in evoluzione, tutte interne all'oligarchia.
Oggi, dai veloci (e spesso violenti) arricchimenti coloniali, siamo passati all'affermarsi delle "nuove tecnologie" come dinamiche caratterizzanti questa dialettica, considerata accettabile e che, entro queti limiti, fa ancora conservare i parlamenti e i processi elettorali..
In pratica: solidali quando si tratta di scongiurare la "dittatura della maggioranza", in concorrenza, anche feroce quando di tratta di sostituire una "dittatura della minoranza" ad un'altra.
EliminaIl rapporto normale del capitalismo con le pubbliche istituzioni politiche, dunque, è la corruzione, che rappresenta l'applicazione del metodo concorrenziale al processo di formazione dell'indirizzo politico (si tratta, a ben vedere, di un corollario della formazione dei prezzi in regime oligopolistico).
Oggi, più tecnocraticamente (and out of political correctness), la designano "capture", ma il principio è sempre lo stesso.
La corruzione-brutta - quella delle classifiche promosse dai più grandi corruttori (su scala industriale)- è solo quando intermediari non appartenenti alle elites si inseriscono nel meccanismo ed alzano il costo della competizione politica "interna", rendendo "inammissibilmente" più incerto e oneroso un esito favorevole (cioè ottimo-allocativo paretiano).
Non a caso, Presidente, il Parlamento è un’istituzione dell’epoca liberale, mentre l’istituzione dell’epoca democratica è rappresentata dai partiti di massa: l’entrata in scena di questi ultimi avrebbe dovuto spostare il centro della vita democratica fuori del Parlamento, organo che quindi avrebbe dovuto essere profondamente modificato per adattarsi al nuovo scenario. Non è accaduto.
EliminaI risultati sono quelli da Lei puntualmente rilevati: scadimento dell’istituto Parlamentare a beneficio del Governo, con sostanziale concentrazione del potere oligarchico-capitalistico in capo a quest’ultimo (la scampata riforma costituzionale voleva non a caso sublimare quest’assetto).
Il problema è, manco a dirsi, spostare dal Parlamento alle masse il definitivo baricentro, in modo che le masse possano inserirsi negli ingranaggi della vita collettiva, cioè là dove sono in giuoco i loro interessi. Partiti e sindacati di classe, valorizzazione degli enti locali (Comuni), gestione diretta ed autonoma dei servizi sociali, culturali e servizi essenziali, oltre che dei sistemi informativi. Ma, soprattutto, democratizzazione del processo produttivo mediante gestione aziendale (art. 46 Cost., di cui i molti ignorano l’esistenza; le argomentazioni di Giannini, sul punto, andrebbero riprese alla lettera).
Non è utopia, è Costituzione italiana, norme precettive: artt. 1, 3, comma II, 4 e ss.. Sempre allo stesso punto andiamo a finire. Ma tanto che ce lo diciamo a fare…
"In altri termini, gli operatori economico-finanziari, resa rispettabile la propria condizione, tendono irresistibilmente ad assumere funzione e ruolo delle vecchie aristocrazie (che hanno espulso dal potere) ed "occupano" le strutture istituzionali, cioè lo stesso Cabinet e le "filiere" pubbliche dell'esercito e della diplomazia (e della magistratura). "
EliminaConsiglio a tal proposito la ricostruzione storica svolta da Luciano Canfora in "La democrazia. Storia di un'ideologia" (pag. 161 e seguenti) della divergenza di vedute fra il deputato Liebknecht e Engels riguardo il ruolo dell’esercito nella Germania di fine ‘800. Ne evidenzio alcuni passi riguardanti le forme dell'occupazione delle strutture pubbliche da parte del governo (il maiuscolo è mio):
Liebknecht: “A produrre la necessaria docilità e arrendevolezza della volontà serve l’osservanza scrupolosa del regolamento, la disciplina da caserma, la santificazione della divisa dell’ufficiale e del sottufficiale, che in molti settori appare veramente come LEGIBUS SOLUTA e sacrosanta, in breve la disciplina e il controllo che stringono in una morsa di ferro il soldato in tutto ciò che fa e che pensa (vachi echi ci HAYEK), dentro e fuori il sevizio.”
Canfora: Questa era la macchina-esercito: ampiamente la descrive Arthur Rosenberg nel primo capitolo del suo libro forse più riuscito, Le Origini della Repubblica Tedesca (1928). La matrice remota era la Potsdam federiciana, ma la grande fucina del NUOVO militarismo era il progetto di dominio mondiale che avrebbe inevitabilmente portato ad una guerra inter-imperialistica dalle conseguenze imprevedibili.
(Ma ovviamente uno spettro gironzolava per l’Europa. Il modo in cui presero provvedimenti, di fronte all’insorgenza del pericolo di infiltrazioni socialiste nell’esercito, fu molto semplice, e lo esporrò)
Canfora (riassumendo Liebknecht): […] tra i 20 e i 22 anni i giovani non hanno ancora la formazione politica che acquisiscono più tardi quando, a 25 anni, saranno elettori; e soprattutto (Liebknecht) lancia un allarme: non è vero che il GOVERNO non sa cosa fare, al contrario ha introdotto ore di ISTRUZIONE CONTRO la socialdemocrazia nella formazione delle reclute. […] si trattava ormai di un potere “massiccio”, per usare un termine caro a Gramsci, CON UNA SALDA PRESA SULLA SOCIETÀ, fondato sulla centralità della casta militare.
In effetti...: "The Commissions appointed to investigate the state of the Parliamentary constituencies of Gloucester and Wakefield only confirm, by their daily disclosures, the saying of old Coppock, the late electoral agent of the Reform Club, that the real Constitution of the British House of Commons might be summed up in the word Corruption."
Elimina« morale della tecnocrazia »
EliminaEffettivamente, su questo punto fondante ci supporta il solito Carl Schmitt.
I principi fondanti universali sono dialetticamente categorizzabili in due (non è difficile identificare le classi/caste che hanno introiettato questi "principi" di cui Schmitt, come al solito, omette commenti):
Tesi - l'assoluta inviolabilità dell'Uomo (leggi "democrazie sociali")
Antitesi - (appunto) perseguimento di valori supremi per cui tutto e tutti possono essere sacrificati (leggi "tecnocrazie liberali")
Quando si parla di falsa coscienza...
Questo, caro Arturo, è un altro post raffinato sia per il contenuto che per il metodo; lo metto in continuità con un altro tuo lavoro (http://orizzonte48.blogspot.it/2014/04/storia-non-troppo-segreta-della-pace.html#comment-form). Quando si dice “spaccare il capello in quattro” :-) Grazie.
RispondiElimina“… Se vogliamo prosperità e pace nel mondo, dobbiamo combattere contro i monopoli di ogni sorta; epperciò anche contro quelli che, per nascondere la propria natura nemica all’uomo, si chiamano monopoli di stato…” [L. EINAUDI, La nota americana ed il commercio internazionale in Risorgimento liberale, 20 marzo 1945].
“… Gli effetti dannosi del frazionamento dell’Europa in microscopici mercati sono oggi assai maggiori di quel che non fossero innanzi al 1914. In quegli anni lontani, ho avuto l’onore di combattere insieme con alcuni pochi uomini testardi, primissimi fra tutti Edoardo Giretti, Antonio De Viti De Marco, Attilio Cabiati, Maffeo Pantaleoni, contro il protezionismo doganale…
QUEL CHE VOGLIAMO NOI FEDERALISTI È DUNQUE L’ABOLIZIONE DELLE FRONTIERE ECONOMICHE FRA STATO E STATO … Fa d’uopo essere ben chiari su questo punto… FEDERALISMO È SINONIMO DI RIDUZIONE DELLA SOVRANITÀ ECONOMICA di ognuno degli stati federati …
Io credo che la limitazione sarà di grande vantaggio all’economia dei singoli Stati ex sovrani. … La sua attuazione incontrerà ostacoli ed opposizioni formidabili; ed è tanto più necessario guardarli in faccia. Se noi vogliamo evitare le guerre, od almeno una parte di esse, dobbiamo sapere quali sono le difficoltà che dovranno superare per ottenere il bene massimo della pace [L. EINAUDI, La unificazione del mercato europeo, Europa federata, Edizioni di Comunità, 1947, 55-56].
L’idea del pacifismo borghese è infatti quella di non eliminare la guerra sulla base di reali motivazioni etiche, ma sulla scorta di di considerazioni pratiche e utilitaristiche e di una azione che sottragga allo stato-nazione la possibilità di manifestare la propria volontà sovrana. Cioè di tutelare i diritti fondamentali dei propri cittadini e, quindi, la vera pace sociale. (segue)
Legare la pace all’internazionalismo del capitalismo sfrenato, a quanto pare, è stato sempre un vizietto, la facciata buona dei liberoscambisti incalliti (da R. Cobden a E. Giretti, da V. Pareto a B. Wootton), quella “purezza originale” da arricchire gradualmente con gli epiteti più disparati da dare poi in pasto agli idioti di ogni tempo (spinelliani inclusi).
RispondiEliminaPace e concordia, come no. Probabilmente il seguente passo lo abbiamo già citato, ma vale la pena riprenderlo:
“… formalmente la società borghese risolve tutte le sue contraddizioni e per ogni soperchieria brutale che il capitalismo compie, per ogni forma di sfruttamento che il capitalismo impone alle classi oppresse, ESSO DEVE SEMPRE TROVARE UNA GIUSTIFICAZIONE IDEALE. Di fronte ad una contraddizione che si aggrava sul piano sociale, BISOGNA SEMPRE TROVARE UNA APPARENZA DI SOLUZIONE VALIDA SUL PIANO FORMALE: ed è questo il servigio che i ceti medi rendono alle classi capitaliste, è appunto il servigio di tradurre in questo linguaggio ideale e formale le contraddizioni brutali della società…
È veramente una situazione assurda e io la sottolineo in questo dibattito, perché credo che essa ci aiuti a mettere in rilievo quello che, secondo me, è l’elemento che va denunciato nello strumento che è sottoposto alla nostra ratifica. Il Consiglio europeo, cioè, è la maschera PROGRESSISTA, IDEALISTA che deve coprire due realtà brutali: LA MANOMISSIONE ECONOMICA CHE L’IMPERIALISMO, IL GRANDE CAPITALE AMERICANO, ESERCITA SULL’EUROPA E LA POLITICA DEL BLOCCO OCCIDENTALE IN FUNZIONE ANTISOVIETICA.
Tradurre questa politica nel linguaggio del federalismo, esprimere cioè questa realtà di sopraffazione e di soperchieria IN TERMINI IDEALI, È UN MEZZO CHE SERVE A FARE ACCETTARE QUESTA POLITICA A MOLTA GENTE IN BUONA FEDE per poi servirsi di tutta questa gente in buona fede come specchio per le allodole onde trascinare certi strati della popolazione dalla stessa parte...
I progetti di Briand del 1930 sono falliti … perché il capitale finanziario allora si muoveva ancora nel quadro dello stato nazionale; eravamo ancora in fase di grave conflitto tra i capitali finanziari dei singoli paesi; il capitale europeo non aveva ancora trovato un capitale più forte, come quello americano, che lo riducesse all’obbedienza. L’Europa non aveva ancora allora trovato la sua vera capitale a Wall Street. Questa la ragione per la quale nel 1930 sono falliti i progetti di Briand. Questa la ragione per cui oggi si realizzano i nuovi progetti.
… Noi non vogliamo assurdi ritorni al passato. Il processo di concentrazione capitalistica è in atto; il processo di predominio del capitale finanziario segue il suo corso; esso ingigantisce le contraddizioni di classe, ingigantisce le contraddizioni del mondo capitalistico. E noi socialisti siamo la coscienza vivente di queste contraddizioni, che nascono da questo mondo e da questa società. Il capitalismo tende a COPRIRE LA SUA BRUTALE POLITICA CON UNA APPARENZA IDEALE, cerca di risolvere su questo piano puramente formale le sue interne contraddizioni. Coloro che, coscientemente o incoscientemente, sono al servizio degli interessi del grande capitale, sono sempre pronti A TRADURRE IN LINGUAGGIO IDEALISTICO LE BRUTALI SOPERCHIERIE E LE IMPRESE DEL CAPITALISMO. È il compito di un Léon Blum e di un André Philip…” [L. BASSO, Intervento sul disegno di legge “Ratifica ed esecuzione dello Statuto del Consiglio d’Europa firmato a Londra il 5 maggio 1949, Camera dei deputati, 25 maggio 1949].
Altro che purezza originaria. L’€uropa viene al mondo grondante sangue e sporcizia da ogni poro
Grazie, Francesco, questa citazione di Basso mi conforta molto. :-)
EliminaArturo, perdona la pedanteria sul tuo bel post: Europe socialE: si è persa una "e".
RispondiEliminaIl libro è piuttosto diffuso nelle università francesi e anche in altre grandi biblioteche cittadine. Quando torno lassù me lo procuro e me lo leggo.
I titoli di quell'editore sembrano molto interessanti.
Bah, il ne faut pas s’excuser, là: t’as raison. :-)
EliminaE' breve tanto quanto è denso: meriterebbe una traduzione: "Or, précisément, l’Union européenne actuelle ne réalise pas les idéaux de solidarité et de fraternité dont elle se réclame parfois. On ne saurait pour autant affirmer que son inclination libérale constitue un dévoiement du projet des «pères fondateurs», conservateurs et libéraux: elle marque, au contraire, son aboutissement." (pag. 122).
(Comunque, lo dico per chi in Francia non ci va, con l'interbibliotecario lo trovate).
Intanto puoi anche ascoltare questa intervista a Denord; sull’argomento Corte di Giustizia, anticipando temi su cui tornerò, interessante anche questo post sul blog di Coralie Delaume, se già non lo conosci.