1- Perchè le Costitutioni democratiche "nazionali" valgono, OGGI PIU' CHE MAI, come garanzia indispensabile delle libertà degli individui e dei popoli e assumono il ruolo di estremo baluardo delle "possibile" e "residua" democrazia?
Da più parti - e da varie angolazioni- mi arrivano sollecitazioni a tirare le fila del discorso in modo che non sussistano lacune od equivoci su quello che è veramente indispensabile chiarire. Obiettivo che conferisce un senso "ultimo" e complessivo a questo stesso blog.
In più post abbiamo cercato di dare risposta al quesito iniziale qui posto e, anzi, i links "interni" praticamente a tutti i post, dovrebbero consentire di svolgere un discorso organico.
Ma mi rendo conto che invece OCCORRE FARE UN PUNTO DI SINTESI COMPLESSIVA,
LA PIU' NITIDA POSSIBILE (nei limiti delle mie facoltà...limitate):
- un pò perchè i problemi sono complessi e non facilmente verificabili su un "testo" di riferimento;
- un pò perchè questo blog ha "prodotto molto", (e giustamente in molti mi chiedono di avere il tempo di assimilare le varie informazioni che si sono accumulate);
- un pò perchè questo blog, sulla scorta della "urgenza" determinata dall'ASSOLUTO ALLARME DEMOCRATICO determinato dall'attuale momento storico-politico, si rivolge a un obiettivo "plurimo", cioè tenta con immediatezza di rivolgersi anche a una classe di persone che dovrebbero essere già in grado di trarre certe conclusioni per propria specifica cultura professionale (i famosi "giuristi", su cui peraltro torneremo).
2- Cominciamo dal primo problema: non esiste un testo di riferimento per abbracciare interamente le soluzioni ai problemi che ci presenta l'UE-UEM sotto il profilo giuridico, perchè in tale campo non abbiamo un equivalente di ciò che è riscontrabile in economia, i famosi "manuali del primo anno", improntati a illustrare principi e "leggi economiche" consolidati (ammesso che in economia sia questa la situazione, dato che l'assalto "neo-classico" all'accademia può far dubitare di ciò).
Cercherò di dare però una indicazione "semplificante", ricavabile dai post già pubblicati.
Avvertiamo comunque di un problema "ineliminabile" (che potrà consolare i non giuristi della difficoltà di cogliere il discorso quando diviene veramente significativo e non meramente "ripetitivo" della singola norma): la "scientificità" del diritto è affermata, peraltro alternativamente, sia sulla base della sua capacità di creare un "sistema" di proposizioni logicamente coerenti tra loro, capaci di fare delle norme dei "dati" (tendenzialmente) univoci ed armonizzati in questa coerenza necessitata, sia sulla base della sua attitudine "logico-ermeneutica" di porre e risolvere sempre e comunque "correttamente" i problemi che le norme sollevano.
Pertanto, i discorsi "giuridici" sono sempre invariabilmente svolti sul piano del "meta-linguaggio", cioè esigono un rigore concettuale non immediatamente acquisibile e (si spera) frutto della conoscenza di secoli, se non millenni, di pensiero politico (quindi una conoscenza non affetta da inquietanti rimozioni e dimenticanze, come quella che aleggia in "europa").
Pertanto, i discorsi "giuridici" sono sempre invariabilmente svolti sul piano del "meta-linguaggio", cioè esigono un rigore concettuale non immediatamente acquisibile e (si spera) frutto della conoscenza di secoli, se non millenni, di pensiero politico (quindi una conoscenza non affetta da inquietanti rimozioni e dimenticanze, come quella che aleggia in "europa").
Non per questo occorre però "rinunciare" a divulgare la corretta "lezione" del diritto, perchè alla fine, storicamente, dobbiamo sceglierne il significato che deriva dalla Storia e che abbiamo più volte menzionato su questo blog: il diritto, oggi, è, e può essere soltanto, uno strumento di garanzia della democrazia e, quindi, ha un contenuto indeclinabile di "giustizia", intesa come tutela dei valori sociali redistributivi che soli garantiscono la "eguaglianza sostanziale" dei soggetti appartenenti all'ordinamento democratico. E quindi il "loro" benessere.
Che le cose stiano così discende dal fatto che la Costituzione italiana è, nelle sue linee essenziali, storiche e contenutistiche, "keynesiana" -e infatti abbiamo ipotizzato "Mortati come Keynes" in questo post , paragrafo 1.
Quindi, c'è un dato normativo "super-primario" che correttamente assunto nel suo significato economico di sostanza, non può essere negato poi con uno strumento di diritto dei trattati, com'è appunto Maastricht-Lisbona, senza violare la Costituzione stessa, in specie gli artt. 11 e 139 Cost. Insomma, i vari "tecnici" devono prendere atto che la scelta Keynesiana ha valore fondativo-costituzionale, cioè è, nel suo complesso, riassuntiva dei diritti fondamentali inviolabili della Costituzione (se non si è capito, ditemelo e lo ripeto con altre parole).
Che le cose stiano così discende dal fatto che la Costituzione italiana è, nelle sue linee essenziali, storiche e contenutistiche, "keynesiana" -e infatti abbiamo ipotizzato "Mortati come Keynes" in questo post , paragrafo 1.
Quindi, c'è un dato normativo "super-primario" che correttamente assunto nel suo significato economico di sostanza, non può essere negato poi con uno strumento di diritto dei trattati, com'è appunto Maastricht-Lisbona, senza violare la Costituzione stessa, in specie gli artt. 11 e 139 Cost. Insomma, i vari "tecnici" devono prendere atto che la scelta Keynesiana ha valore fondativo-costituzionale, cioè è, nel suo complesso, riassuntiva dei diritti fondamentali inviolabili della Costituzione (se non si è capito, ditemelo e lo ripeto con altre parole).
Tornando al profilo giuridico (che sposato alla "cultura" economica consente di trarre questa conclusione), l'indicazione semplificante è allora di "provare", per chi proprio volesse, a utilizzare tre testi (tra loro eterogenei ma nondimeno armonizzabili).
Non è che occorra leggerseli "tutti" ma gli spunti chiarificatori ce li trovate, secondo le esigenze "critiche" che le informazioni economiche di cui disponete vi possono consentire:
a) le "Istituzioni di diritto pubblico" di Costantino Mortati (Padova, Cedam). Personalmente ho l'edizione del 1975 e mi basta perchè tutti i problemi affrontati non sono stati alterati nell'esattezza delle soluzioni da dati normativi sopravvenuti di forza giuridica prevalente. La Costituzione, nei suoi principi "essenziali", è rimasta intatta: il suo valore di garanzia indeclinabile va ancora inteso come quello instillatovi dai "costituenti" e negare ciò significa negare le clausole fondamentali della stessa, oggi ancora assolutamente "supreme" e ben chiare. Su tutti rammentiamo gli artt. 1-4, 139 e 11 (per quanto rileva con immediatezza nella nostra situazione);
b) il libro "Il costituzionalismo asimmetrico dell'Unione", a cura di Antonio Cantaro, AA.VV. (Giappichelli, Torino, 2010), significativo non solo perchè ragiona dell'integrazione europea "dopo" il Trattato di Lisbona, e in rapporto alla Costituzione del 1948, ma perchè si tratta di un'opera "collettiva" e che, quindi, riflette il pensiero diffuso di una comunità significativa di costituzionalisti e lo fa in un modo talmente "problematico" da dare l'immagine dei problemi "irrisolvibili" che pone il preteso "costituzionalismo" europeo;
c) il libro "La nuova costituzione economica" di Sabino Cassese, (Laterza, Roma-Bari, 2001), che, in modo sufficientemente neutrale, consente di analizzare, con una lodevole attenzione al substrato storico e macroeconomico, l'impatto di Maastricht (lo diciamo per semplificare) sulle norme costituzionali interne in materia economica. Aspetto non direttamente trattato da Mortati e che proprio alla luce delle cognizioni economiche determinate dall'irruzione dell'euro ci consente di capire un conflitto permanente tra Unione e Costituzione democratica, risolto, allo stato, con la "sterilizzazione" di fatto della seconda, al di fuori della procedura di revisione costituzionale e della relativa "riflessione"-consultazione coinvolgente l'intera comunità nazionale.
c) il libro "La nuova costituzione economica" di Sabino Cassese, (Laterza, Roma-Bari, 2001), che, in modo sufficientemente neutrale, consente di analizzare, con una lodevole attenzione al substrato storico e macroeconomico, l'impatto di Maastricht (lo diciamo per semplificare) sulle norme costituzionali interne in materia economica. Aspetto non direttamente trattato da Mortati e che proprio alla luce delle cognizioni economiche determinate dall'irruzione dell'euro ci consente di capire un conflitto permanente tra Unione e Costituzione democratica, risolto, allo stato, con la "sterilizzazione" di fatto della seconda, al di fuori della procedura di revisione costituzionale e della relativa "riflessione"-consultazione coinvolgente l'intera comunità nazionale.
3- Molte altre cose sarebbero da dire sul punto appena trattato, ma occorrerebbe farlo con uno di quei lunghi libroni illeggibili che neppure gli specialisti e, più che altro, i "decidenti politici" si leggerebbero più...di questi tempi.
Affrontiamo dunque il secondo problema: la sintesi del "materiale" finora divulgato nella presente sede, in quanto riassumibile in un "filo conduttore".
Cominciamo col dire che le norme costituzionali possono essere classificate in tre tipologia:
1) i principi fondamentali in senso proprio, quelli che fissano la titolarità della "sovranità" che, essendo (si spera) democratica, cioè risiede nel popolo inteso come comunità complessiva dei cittadini, e stabiliscono altresì i "fini" irrinunciabili che persegue tale comunità. Questi fini sono perseguiti attraverso le "istituzioni" costituzionali, (art.1 Cost. "la sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione"), che non possono far altro che ricercarne la effettiva realizzazione, nel tempo: sono cioè ad obbligatorio costante perseguimento;
2) i principi "programmatici" cioè quelli che predeterminano le linee di azione che le stesse istituzioni devono perseguire per rendere effettivo il costante perseguimento dei "fini". Sono perciò dei "corollari" che connotano, in termini di azione di governo-legislazione, un percorso in assenza del quale i principi-fini rimarrebbero in costante pericolo di rimanere irrealizzati (tali sono, ad es; gli artt 36-38 Cost. e più in generale del norme della "Costituzione economica" di ci si è sopra parlato in termini di "sterilizzazione" occulta);
3) le norme di organizzazione, quelle che determinano in concreto come le istituzioni debbano essere strutturate in modo che tale stessa struttura garantisca il perseguimento dei fini e la effettività delle linee di azione programmatica.
Abbiamo visto nel post "I tagli ai costi della politica: facciamoli per bene", in che misura queste queste ultime norme siano modificabili e altrettanto, in misura molto più ristretta, per la seconda tipologia.
4- Di ciò ci parla pure Mortati per come citato nel post "Alcuni punti fermi. Ipotesi frattalica e Costituente. De jure condito ac de jure condendo"
Dovendo trovare una formulazione riassuntiva fondamentale facciamo riferimento a questa:
"Mortati, ancora una volta ci soccorre, in questa individuazione, e proprio parlando dei rapporti tra ordinamento costituzionale italiano e "prevalenza" del diritto comunitario. Ci dice: "Passando all'esame dei limiti (di questa prevalenza ndr)...è da ritenere che essi debbano ritrovarsi in tutti i principi fondamentali, sia organizzativi che materiali, o scritti o impliciti, della costituzione: sicchè la sottrazione dell'esercizio di alcune competenze costituzionalmente spettanti al parlamento, al governo, alla giurisdizione,...de'essere tale da non indurre alterazioni del nostro stato come stato di diritto democratico e sociale (il che renderebbe fortemente dubbia la stessa ratificabilità del trattato di Maastricht e poi di Lisbona, ndr). Non è possibile distinguere, fra le disposizioni costituzionali, quelle che riguardino i diritti e i doveri dei cittadini e le altre attinenti all'organizzazione, poichè vi è tutta una serie di diritti rispetto a cui le norme organizzative si presentano come strumentali alla loro tutela (rappresentatività delle assembleee legiferanti; precostituzione del giudice, organizzazione della giurisdizione tale da assicurare la pienezza del diritto di difesa ecc.). Pertanto il trasferimento di competenze dagli organi interni a quelli comunitari in tanto deve ritenersi ammissibile in quanto appaia sussistente, non già un'identità di struttura tra gli uni e gli altri, ma il loro sostanziale informarsi ad analoghi criteri in modo che risultino soddisfatte le esigenze caratterizzanti il nostro tipo di stato" (ecco: appunto, mentre aspettiamo un parlamento europeo con funzioni effettivamente legislative "principali", se non esclusive, e un governo europeo che ne abbia la decisiva, e non formale, fiducia legittimante). Stabiliti questi principi l'art. 139 Cost. dovrebbe avere questa nuova formulazione:
"La forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale nè essere derogata dalle fonti pattizie di cui all'art.11. In essa sono inclusi tutti i principi fondamentali di cui agli articoli da 1 a 12 nonchè i principi organizzativi che ne assicurano la effettiva e inderogabile realizzazione. In nessun caso possono essere apportate modifiche alle restanti norme costituzionali se non per i fini di cui all'art.3 comma 2, e fatto comunque salvo il carattere solidaristico e fondato sul lavoro dell'ordinamento repubblicano democratico"
5- Ma ciò che importa aggiuntivamente sottolineare è che la stessa struttura della Costituzione italiana (che vale come modello "ottimale" di Costituzione, a buon diritto e merito dei nostri illuminati costituenti...e nonostante le "digressioni" di Benigni), porta a due conseguenze fondamentali:
- gli obblighi irrinunciabili dei "principi-fini" pongono ciascun cittadino in posizione di legittima "pretesa" del loro adempimento da parte delle istituzioni. Non basta cioè che questi fini siano genericamente enunciati (e altisonanti): i cittadini hanno con immediatezza un interlocutore "vincolato" (questo sì che è un "vincolo" democratico) che coincide con la "Repubblica" assunta nel suo insieme di istituzioni di vertice;
- questo stesso schema di pretesa-obbligo incombente sulle istituzioni democratiche e rappresentative del popolo sovrano non è configurabile rispetto ai trattati UE: TUE e TFUE. Nessun cittadino europeo, rispetto all'istituzione europea, può accampare effettivamente una diretta pretesa alla realizzazione vincolante di principi-fine che, oltretutto, dettaglio fondamentale, non sono affatto equivalenti, per chiarezza e gerarchia di valori, a quelli enunciati nella nostra Costituzione.
Sul primo punto, abbiamo visto ciò che è stato detto nel post "Costituzionalismo e "internazionalismo finanziario" a caccia di sovranità"..., riassumibile in questo passaggio:
"...se considerano il diritto al "lavoro", Draghi, Andreatta (a suo tempo) e Fornero, affermeranno che non c'è alcun obbligo preciso in Costituzione nonostante gli art.1 (fondamento "lavorista della Cost.) e 4 Cost (dir. al lavoro). E in effetti, non c'è una formulazione che metta in rapporto preciso il singolo con un'istituzione-competenza dello Stato e determini ciò che questo "debba" fare.
Ma l'art.3, comma 2, invece, ci dice che TUTTA LA REPUBBLICA è obbligata a "promuovere" la uguaglianza sostanziale, "rimuovendo gli ostacoli...": se ne desume che, poichè i principi fondamentali sono inderogabili e non revisionabili (art.139 correttamente inteso), TUTTA LA REPUBBLICA DEVE AGIRE PERCHE' IL LAVORO -FONDAMENTO DEL PATTO SOCIALE- "NON DIMINUISCA" E SIA ADDIRITTURA SEMPRE MEGLIO RETRIBUITO (art.36 Cost. in relazione all'art.3).
E quindi, per gli artt.11 e 139 Cost, come ho detto in un "lettissimo" post, nessun obbligo europeo può giungere a imporci obblighi che contraggano livello di occupazione e delle retribuzioni."
6- Sul secondo punto (inconfigurabilità nei trattati del meccanismo pretesa-obbligo, nel rapporto tra cittadini e istituzioni UE), la questione è di tutta evidenza.
E questo per la semplice ragione che il trattato di Maastricht, come pure quello di Lisbona, non si rivolgono mai ai cittadini per individuarne degli interlocutori diretti: esistono solo enunciati rivolti alle istituzioni europee e agli Stati, ove i cittadini sono contemplati come "oggetti-destinatari", invariabilmente nel "bilanciamento-prevalenza" degli interessi di altri principali destinatari, tendenzialmente le imprese, e, dunque, i cittadini non sono mai diretti titolari di prerogative.
Dunque i trattati affidano, in qualità di "agenti", le loro "proposizioni" di principio agli Stati e alle istituzioni europee, cioè a un tipo di disciplina che, vedendo nella organizzazione multistatale e negli Stati i suoi tipici "soggetti di diritto", rimane, checchè ne dicano gli esponenti della sua governance, compresa la Corte europea, sul piano del diritto internazionale. Un diritto, cioè, che vede la soggettività (anche in senso sintattico delle norme) fare capo agli Stati e, a certe condizioni, alle organizzazione tra essi cui gli stessi "possono" dare vita.
Ma questa struttura del trattato, lo riporta naturalmente alla sua natura di fonte di diritto internazionale pattizio, e nulla più, dato che tutti i tentativi di "allargarne" la legittimazione oltre tale soglia sono null'altro che costruzioni forzate e incoerenti che, come attesta nel suo complesso il libro "Il costituzionalismo asimmetrico dell'Unione", finiscono solo per trovare soluzioni instabili a problemi mal posti.
Il trattato, o i trattati, tali rimangono e assumono nel sistema delle fonti, un carattere interposto tra la Costituzione e le leggi ordinarie, variamente configurabile nella giurisprudenza costituzionale dei vari Stati-membri, ma che deve sempre passare per il "recepimento" nell'ordinamento interno attraverso un mezzo di "ratifica" e "immissione" previsto dalle rispettive norme costituzionali.
E non solo: ma lo strumento di tale ratifica sarà sempre soggetto ai limiti di compatibilità previsti dalle Costituzioni democratiche (e visti sopra per quanto riguarda la nostra Costituzione), senza poterli forzare.
7- Nel post "Essi vivono. They live" abbiamo riportato questo passaggio:
"le corti costituzionali reagiscono (al problema delle interferenze tra fonti internazionali, e in specie europee, e diritto costituzionale interno ndr.) differentemente con riguardo al “rango” (livello della fonte) delle pretese avanzate dalla “Legge” UE. Secondo la giurisprudenza consolidata della Corte costituzionale polacca, la costituzione polacca è, in quel paese, la fonte di grado più alto e così prevale anche su quella europea…
La Corte costituzionale tedesca, a partire dalla pronunzia sul Trattato di Lisbona del 30 giugno 2009, ritiene la “identità costituzionale” tedesca (specialmente i diritti fondamentali e i principi base di organizzazione, ma anche gli obiettivi di “pace” propri dello Stato)…e la stessa “integrazione europea” costituzionalmente sancita, come superiori ad ogni fonte europea,….riconoscendo però alla “norma primaria europea” (trattati ndr.) un rango superiore al resto delle norme costituzionali (e primarie) tedesche- eccettuate le politiche estera e di sicurezza UE, che hanno il rango di semplice diritto internazionale (cioè non “ultraprimario” e “para-costituzionale” come il resto dei trattati UE, ndr.).
Secondo il principio fondamentale n.3 del pronunciamento su Lisbona, l’attuazione del diritto europeo deve lasciare “sufficiente” spazio i “diritti umani universali” in quanto di rango superiore".
Cominciamo col dire che le norme costituzionali possono essere classificate in tre tipologia:
1) i principi fondamentali in senso proprio, quelli che fissano la titolarità della "sovranità" che, essendo (si spera) democratica, cioè risiede nel popolo inteso come comunità complessiva dei cittadini, e stabiliscono altresì i "fini" irrinunciabili che persegue tale comunità. Questi fini sono perseguiti attraverso le "istituzioni" costituzionali, (art.1 Cost. "la sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione"), che non possono far altro che ricercarne la effettiva realizzazione, nel tempo: sono cioè ad obbligatorio costante perseguimento;
2) i principi "programmatici" cioè quelli che predeterminano le linee di azione che le stesse istituzioni devono perseguire per rendere effettivo il costante perseguimento dei "fini". Sono perciò dei "corollari" che connotano, in termini di azione di governo-legislazione, un percorso in assenza del quale i principi-fini rimarrebbero in costante pericolo di rimanere irrealizzati (tali sono, ad es; gli artt 36-38 Cost. e più in generale del norme della "Costituzione economica" di ci si è sopra parlato in termini di "sterilizzazione" occulta);
3) le norme di organizzazione, quelle che determinano in concreto come le istituzioni debbano essere strutturate in modo che tale stessa struttura garantisca il perseguimento dei fini e la effettività delle linee di azione programmatica.
Abbiamo visto nel post "I tagli ai costi della politica: facciamoli per bene", in che misura queste queste ultime norme siano modificabili e altrettanto, in misura molto più ristretta, per la seconda tipologia.
4- Di ciò ci parla pure Mortati per come citato nel post "Alcuni punti fermi. Ipotesi frattalica e Costituente. De jure condito ac de jure condendo"
Dovendo trovare una formulazione riassuntiva fondamentale facciamo riferimento a questa:
"Mortati, ancora una volta ci soccorre, in questa individuazione, e proprio parlando dei rapporti tra ordinamento costituzionale italiano e "prevalenza" del diritto comunitario. Ci dice: "Passando all'esame dei limiti (di questa prevalenza ndr)...è da ritenere che essi debbano ritrovarsi in tutti i principi fondamentali, sia organizzativi che materiali, o scritti o impliciti, della costituzione: sicchè la sottrazione dell'esercizio di alcune competenze costituzionalmente spettanti al parlamento, al governo, alla giurisdizione,...de'essere tale da non indurre alterazioni del nostro stato come stato di diritto democratico e sociale (il che renderebbe fortemente dubbia la stessa ratificabilità del trattato di Maastricht e poi di Lisbona, ndr). Non è possibile distinguere, fra le disposizioni costituzionali, quelle che riguardino i diritti e i doveri dei cittadini e le altre attinenti all'organizzazione, poichè vi è tutta una serie di diritti rispetto a cui le norme organizzative si presentano come strumentali alla loro tutela (rappresentatività delle assembleee legiferanti; precostituzione del giudice, organizzazione della giurisdizione tale da assicurare la pienezza del diritto di difesa ecc.). Pertanto il trasferimento di competenze dagli organi interni a quelli comunitari in tanto deve ritenersi ammissibile in quanto appaia sussistente, non già un'identità di struttura tra gli uni e gli altri, ma il loro sostanziale informarsi ad analoghi criteri in modo che risultino soddisfatte le esigenze caratterizzanti il nostro tipo di stato" (ecco: appunto, mentre aspettiamo un parlamento europeo con funzioni effettivamente legislative "principali", se non esclusive, e un governo europeo che ne abbia la decisiva, e non formale, fiducia legittimante). Stabiliti questi principi l'art. 139 Cost. dovrebbe avere questa nuova formulazione:
"La forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale nè essere derogata dalle fonti pattizie di cui all'art.11. In essa sono inclusi tutti i principi fondamentali di cui agli articoli da 1 a 12 nonchè i principi organizzativi che ne assicurano la effettiva e inderogabile realizzazione. In nessun caso possono essere apportate modifiche alle restanti norme costituzionali se non per i fini di cui all'art.3 comma 2, e fatto comunque salvo il carattere solidaristico e fondato sul lavoro dell'ordinamento repubblicano democratico"
5- Ma ciò che importa aggiuntivamente sottolineare è che la stessa struttura della Costituzione italiana (che vale come modello "ottimale" di Costituzione, a buon diritto e merito dei nostri illuminati costituenti...e nonostante le "digressioni" di Benigni), porta a due conseguenze fondamentali:
- gli obblighi irrinunciabili dei "principi-fini" pongono ciascun cittadino in posizione di legittima "pretesa" del loro adempimento da parte delle istituzioni. Non basta cioè che questi fini siano genericamente enunciati (e altisonanti): i cittadini hanno con immediatezza un interlocutore "vincolato" (questo sì che è un "vincolo" democratico) che coincide con la "Repubblica" assunta nel suo insieme di istituzioni di vertice;
- questo stesso schema di pretesa-obbligo incombente sulle istituzioni democratiche e rappresentative del popolo sovrano non è configurabile rispetto ai trattati UE: TUE e TFUE. Nessun cittadino europeo, rispetto all'istituzione europea, può accampare effettivamente una diretta pretesa alla realizzazione vincolante di principi-fine che, oltretutto, dettaglio fondamentale, non sono affatto equivalenti, per chiarezza e gerarchia di valori, a quelli enunciati nella nostra Costituzione.
Sul primo punto, abbiamo visto ciò che è stato detto nel post "Costituzionalismo e "internazionalismo finanziario" a caccia di sovranità"..., riassumibile in questo passaggio:
"...se considerano il diritto al "lavoro", Draghi, Andreatta (a suo tempo) e Fornero, affermeranno che non c'è alcun obbligo preciso in Costituzione nonostante gli art.1 (fondamento "lavorista della Cost.) e 4 Cost (dir. al lavoro). E in effetti, non c'è una formulazione che metta in rapporto preciso il singolo con un'istituzione-competenza dello Stato e determini ciò che questo "debba" fare.
Ma l'art.3, comma 2, invece, ci dice che TUTTA LA REPUBBLICA è obbligata a "promuovere" la uguaglianza sostanziale, "rimuovendo gli ostacoli...": se ne desume che, poichè i principi fondamentali sono inderogabili e non revisionabili (art.139 correttamente inteso), TUTTA LA REPUBBLICA DEVE AGIRE PERCHE' IL LAVORO -FONDAMENTO DEL PATTO SOCIALE- "NON DIMINUISCA" E SIA ADDIRITTURA SEMPRE MEGLIO RETRIBUITO (art.36 Cost. in relazione all'art.3).
E quindi, per gli artt.11 e 139 Cost, come ho detto in un "lettissimo" post, nessun obbligo europeo può giungere a imporci obblighi che contraggano livello di occupazione e delle retribuzioni."
6- Sul secondo punto (inconfigurabilità nei trattati del meccanismo pretesa-obbligo, nel rapporto tra cittadini e istituzioni UE), la questione è di tutta evidenza.
E questo per la semplice ragione che il trattato di Maastricht, come pure quello di Lisbona, non si rivolgono mai ai cittadini per individuarne degli interlocutori diretti: esistono solo enunciati rivolti alle istituzioni europee e agli Stati, ove i cittadini sono contemplati come "oggetti-destinatari", invariabilmente nel "bilanciamento-prevalenza" degli interessi di altri principali destinatari, tendenzialmente le imprese, e, dunque, i cittadini non sono mai diretti titolari di prerogative.
Dunque i trattati affidano, in qualità di "agenti", le loro "proposizioni" di principio agli Stati e alle istituzioni europee, cioè a un tipo di disciplina che, vedendo nella organizzazione multistatale e negli Stati i suoi tipici "soggetti di diritto", rimane, checchè ne dicano gli esponenti della sua governance, compresa la Corte europea, sul piano del diritto internazionale. Un diritto, cioè, che vede la soggettività (anche in senso sintattico delle norme) fare capo agli Stati e, a certe condizioni, alle organizzazione tra essi cui gli stessi "possono" dare vita.
Ma questa struttura del trattato, lo riporta naturalmente alla sua natura di fonte di diritto internazionale pattizio, e nulla più, dato che tutti i tentativi di "allargarne" la legittimazione oltre tale soglia sono null'altro che costruzioni forzate e incoerenti che, come attesta nel suo complesso il libro "Il costituzionalismo asimmetrico dell'Unione", finiscono solo per trovare soluzioni instabili a problemi mal posti.
Il trattato, o i trattati, tali rimangono e assumono nel sistema delle fonti, un carattere interposto tra la Costituzione e le leggi ordinarie, variamente configurabile nella giurisprudenza costituzionale dei vari Stati-membri, ma che deve sempre passare per il "recepimento" nell'ordinamento interno attraverso un mezzo di "ratifica" e "immissione" previsto dalle rispettive norme costituzionali.
E non solo: ma lo strumento di tale ratifica sarà sempre soggetto ai limiti di compatibilità previsti dalle Costituzioni democratiche (e visti sopra per quanto riguarda la nostra Costituzione), senza poterli forzare.
7- Nel post "Essi vivono. They live" abbiamo riportato questo passaggio:
"le corti costituzionali reagiscono (al problema delle interferenze tra fonti internazionali, e in specie europee, e diritto costituzionale interno ndr.) differentemente con riguardo al “rango” (livello della fonte) delle pretese avanzate dalla “Legge” UE. Secondo la giurisprudenza consolidata della Corte costituzionale polacca, la costituzione polacca è, in quel paese, la fonte di grado più alto e così prevale anche su quella europea…
Secondo il principio fondamentale n.3 del pronunciamento su Lisbona, l’attuazione del diritto europeo deve lasciare “sufficiente” spazio i “diritti umani universali” in quanto di rango superiore".
Ma l'enuciazione dei diritti umani universali, come pure quella relativa alla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione e come la stessa adesione alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, in base all'art.6 del TUE, "non estendono e non modificano", per esplicita previsione, "le competenze dell'Unione definite nei trattati".
8- Ciò conferma, se ce ne fosse bisogno, che i trattati nulla più dicono di quanto sarebbe stato implicitamente "obbligatorio" anche in assenza dell'art.6 stesso: cioè che gli Stati (membri) devono rispettare i diritti universali, ovvero fondamentali, essendovi già obbligati per le rispettive Costituzioni e, nel caso alla CEDU, per il vincolo di adesione, proprio del diritto internazionale pattizio e del tutto autonomo dai trattati UE.
L'unica novità è che l'Unione "aderisce" alla stessa CEDU, ma all'interno di previsioni che si muovono, senza dubbio, nell'ambito del diritto internazionale e senza "estensione di competenze", la cui ripartizione in sè definisce la parte essenziale del trattato, rendendo la questione dei diritti fondamentali, in pratica, ininfluente.
Ciò, in definitiva, significa tutt'al più che l'Unione - e gli Stati membri- sono soggetti allo jus cogens, dato che non aggiunge nulla nè agli obblighi gravanti sugli Stati aderenti ai vari trattati sui "diritti", nè al fatto che lo jus cogens è considerato, sulla base della prassi formatasi in applicazione dell'art.103 della Carta ONU, una superiore norma consuetudinaria di diritto internazionale, applicabile pacificamente anche al di fuori del suo espresso richiamo in un trattato.
Insomma nessuna delle caratteristiche di una Costituzione democratica moderna sono proprie del tipo di enunciati racchiusi nei trattati.
Non sono individuabili, in primo luogo, principi-fine che definiscano il titolare della sovranità nel popolo (tratto minimo essenziale della democrazia) e ne vincolino le istituzioni alla costante realizzazione: esistono piuttosto delle finalità "enfatiche" che, nel loro complesso di gran lunga prevalente, rispondono a una ideologia economica peculiare, e quindi riguardano il tipo di politica economica che gli Stati si vincolano a realizzare.
E questa ideologia, qui più volte esaminata, non solo tende esplicitamente a limitare/sopprimere gli interventi dello Stato, ma si rende, in partenza, incompatibile con "diritti fondamentali" che la stessa ideologia economica riduce a ostacoli semmai da sopprimere.
9- In contrapposizione frontale a tale impostazione economico-ideologica, infatti, le Costituzioni democratiche fanno dell'eguaglianza sostanziale e della connessa rimozione degli ostacoli alla sua realizzazione un articolato programma di azione, in specie enunciando il corollario-programma della realizzazione dei "diritti sociali" che danno luogo alla costituzionalizzazione del welfare, cioè esattamente quanto gli enunciati di principio del trattato di Lisbona (artt.1-6) tendono a neutralizzare subordinandoli, in una astrusa formulazione, deliberatamente ambigua, a una serie di priorità di politica economica fortemente liberistiche.
Da notare che quando il trattato parla di "dignità umana, libertà, democrazia, uguaglianza, stato di diritto e rispetto dei diritti umani" (art.2, par.1) l'Unione predica di fondarsi sul loro "rispetto" (c.d. "concezione negativa" delle vecchie costituzioni liberali ottocentesche) e non, si badi bene, sulla loro effettiva realizzazione, evitando accuratamente di collegarla agli "obiettivi comuni" agli Stati cui tende tutta l'Unione.
Gli "obiettivi comuni" soltanto sono oggetto della "realizzazione". Ma questo obiettivi comuni attengono essenzialmente alla incondizionata attuazione di un disegno macroeconomico ben connotato, come si è visto nel post "Aso e Abe, la politica fiscal creativa tra Keynes, Patinkin e Friedman".
Tant'è che l'Unione, finalmente "rivelando" il propio ruolo attivo, "instaura" un mercato interno e si "adopera" per lo "sviluppo sostenibile" basato sulla "stabilità dei prezzi e un'economia sociale di mercato fortemente competitiva" (art.3, par.3), che, attenzione, "mira alla piena occupazione".
Cioè non ritiene quest'ultima un obiettivo da perseguire attivamente ("instaurando" e "adoperandosi" in tal senso), ma, distinguendo con "nonchalance", lo vede come un "effetto" intrinseco, un corollario complementare che, nelle note teorie economiche, si accompagnerebbe alla forte competizione ed alla stabilità dei prezzi!
Potenza delle parole calibrate per non farsi capire dai cittadini dei popoli che verranno travolti da tali enunciati!
10- E non tragga in inganno il periodo successivo "L'Unione combatte l'esclusione sociale e le discriminazioni e promuove la giustizia e la protezione sociali, la parità tra donne e uomini, la solidarietà tra le generazioni e la tutela dei diritti del minore".
Si potrebbero citare anche i seguenti simili enunciati dell'art.3, par.3, ma rimane un piccolo particolare: tutte queste "belle" parole non sono poi seguite da previsioni organizzative "stringenti" nel successivo "trattato sul funzionamento dell'Unione" -come quelle che prevedono i compiti dei vari consigli e della commissione nel perseguire il coordinamento di questo o quell'aspetto della politica economica.
Cioè non ci sono priorità di azione e relativi organi UE che si facciano programmaticamente carico di questi obiettivi, in modo significativo e "attualizzabile", proprio perchè si tratta sempre e comunque di azioni che pongono capo a "direttive" e risoluzioni" affidate alla realizzazione degli Stati con l'imprinting dell'inutile Parlamento UE.
E come constatiamo ogni giorno di più, nella gran confusione di un trattato deliberatamente illeggibile, si tratta sostanzialmente di azioni "dimostrative", pur sempre subordinate alla realizzazione di "un'economia sociale di mercato fortemente competitiva" e alla "stabilità dei prezzi".
La materia dei "valori" enfatici, al più , è servita a creare la mistica europea dei "diritti cosmetici" della cui funzione "distraente" rispetto alla più concreta azione di distruzione dei diritti sociali, abbiamo visto nel post "Hollande e lo scudo infranto dei diritti cosmetici".
Che esista una tale subordinazione risulta ormai chiaro dal fatto che nessun governo federale con un connesso adeguato e realistico budget può agire a livello di Unione per realizzare questi obiettivi "minori" (e fastidiosi). Mancano cioè le norme organizzative del tipo di quelle previste nelle vere costituzioni che possano consentire una effettiva realizzazione dei "principi programmatici" di cui si è sopra parlato.
11- Per contro, la "stabilità dei prezzi" trova la sua attuazione nella principale e unica istituzione propria dell'Unione monetaria, cioè la BCE-SEBC, che avrebbe pure il compito di perseguire "tutti" gli obiettivi dell'art.3, tra cui la "piena occupazione", come abbiamo visto nel post "Giuristi ed economisti: cronache da un fronte per difendersi dalla precomprensione...": solo che, abbiamo altrettanto spiegato (sempre nel post "Aso e Abe...") come, con sofisticate distinzioni terminologiche, l'Unione abbia "contestualizzato" tale concetto, con accorta formulazione strategica, come "tasso di disoccupazione naturale" alla Friedman e alla Lucas, intendendolo come un mero corollario "derivante" dalla stabilità dei prezzi e dalla "efficiente allocazione delle risorse" e non come un obiettivo "attivo" dotato di autonoma rilevanza.
E' chiaro che quanto detto nel post "Giuristi ed economisti...", sulla oggettivabilità in senso Keynesiano della locuzione "piena occupazione", è certamente sostenibile. Specie se l'Italia assumesse il legittimo punto di vista della propria Costituzione nell'intendere la "piena occupazione"del trattato, operazione "dovuta" per poter accettare la costituzionalità del "vincolo europeo" ai sensi dell'art.11 Cost.
Una operazione interpretativa di buona fede può inchiodare cioè il trattato alla sua stessa studiata ambiguità, per ravvisarvi un concetto keynesiano di piena occupazione, dotata perciò di centralità rispetto alla concezione di "equilibrio del sistema": ma sostenere ciò con successo equivarrebbe a un tale mutamento politico-ideologico che sarebbe più facile pervenire a un mutamento radicale del contenuto stesso dei trattati.
Piuttosto che all'adesione ad una diversa interpretazione giuridica, dotata di "giustizia" nel senso precisato nel post "La fine dell'euro: giustizia nel diritto e visione UE", sarà più probabile assistere alla dissoluzione-implosione, sotto i colpi della "inattendibilità" della sua stessa ideologia economica, dell'ambigua dissimulazione di ideologia contenuta nei trattati, restauratori maldestri del capitalismo intransigente anteriore alla crisi del 1929.
8- Ciò conferma, se ce ne fosse bisogno, che i trattati nulla più dicono di quanto sarebbe stato implicitamente "obbligatorio" anche in assenza dell'art.6 stesso: cioè che gli Stati (membri) devono rispettare i diritti universali, ovvero fondamentali, essendovi già obbligati per le rispettive Costituzioni e, nel caso alla CEDU, per il vincolo di adesione, proprio del diritto internazionale pattizio e del tutto autonomo dai trattati UE.
L'unica novità è che l'Unione "aderisce" alla stessa CEDU, ma all'interno di previsioni che si muovono, senza dubbio, nell'ambito del diritto internazionale e senza "estensione di competenze", la cui ripartizione in sè definisce la parte essenziale del trattato, rendendo la questione dei diritti fondamentali, in pratica, ininfluente.
Ciò, in definitiva, significa tutt'al più che l'Unione - e gli Stati membri- sono soggetti allo jus cogens, dato che non aggiunge nulla nè agli obblighi gravanti sugli Stati aderenti ai vari trattati sui "diritti", nè al fatto che lo jus cogens è considerato, sulla base della prassi formatasi in applicazione dell'art.103 della Carta ONU, una superiore norma consuetudinaria di diritto internazionale, applicabile pacificamente anche al di fuori del suo espresso richiamo in un trattato.
Insomma nessuna delle caratteristiche di una Costituzione democratica moderna sono proprie del tipo di enunciati racchiusi nei trattati.
Non sono individuabili, in primo luogo, principi-fine che definiscano il titolare della sovranità nel popolo (tratto minimo essenziale della democrazia) e ne vincolino le istituzioni alla costante realizzazione: esistono piuttosto delle finalità "enfatiche" che, nel loro complesso di gran lunga prevalente, rispondono a una ideologia economica peculiare, e quindi riguardano il tipo di politica economica che gli Stati si vincolano a realizzare.
E questa ideologia, qui più volte esaminata, non solo tende esplicitamente a limitare/sopprimere gli interventi dello Stato, ma si rende, in partenza, incompatibile con "diritti fondamentali" che la stessa ideologia economica riduce a ostacoli semmai da sopprimere.
9- In contrapposizione frontale a tale impostazione economico-ideologica, infatti, le Costituzioni democratiche fanno dell'eguaglianza sostanziale e della connessa rimozione degli ostacoli alla sua realizzazione un articolato programma di azione, in specie enunciando il corollario-programma della realizzazione dei "diritti sociali" che danno luogo alla costituzionalizzazione del welfare, cioè esattamente quanto gli enunciati di principio del trattato di Lisbona (artt.1-6) tendono a neutralizzare subordinandoli, in una astrusa formulazione, deliberatamente ambigua, a una serie di priorità di politica economica fortemente liberistiche.
Da notare che quando il trattato parla di "dignità umana, libertà, democrazia, uguaglianza, stato di diritto e rispetto dei diritti umani" (art.2, par.1) l'Unione predica di fondarsi sul loro "rispetto" (c.d. "concezione negativa" delle vecchie costituzioni liberali ottocentesche) e non, si badi bene, sulla loro effettiva realizzazione, evitando accuratamente di collegarla agli "obiettivi comuni" agli Stati cui tende tutta l'Unione.
Gli "obiettivi comuni" soltanto sono oggetto della "realizzazione". Ma questo obiettivi comuni attengono essenzialmente alla incondizionata attuazione di un disegno macroeconomico ben connotato, come si è visto nel post "Aso e Abe, la politica fiscal creativa tra Keynes, Patinkin e Friedman".
Tant'è che l'Unione, finalmente "rivelando" il propio ruolo attivo, "instaura" un mercato interno e si "adopera" per lo "sviluppo sostenibile" basato sulla "stabilità dei prezzi e un'economia sociale di mercato fortemente competitiva" (art.3, par.3), che, attenzione, "mira alla piena occupazione".
Cioè non ritiene quest'ultima un obiettivo da perseguire attivamente ("instaurando" e "adoperandosi" in tal senso), ma, distinguendo con "nonchalance", lo vede come un "effetto" intrinseco, un corollario complementare che, nelle note teorie economiche, si accompagnerebbe alla forte competizione ed alla stabilità dei prezzi!
Potenza delle parole calibrate per non farsi capire dai cittadini dei popoli che verranno travolti da tali enunciati!
10- E non tragga in inganno il periodo successivo "L'Unione combatte l'esclusione sociale e le discriminazioni e promuove la giustizia e la protezione sociali, la parità tra donne e uomini, la solidarietà tra le generazioni e la tutela dei diritti del minore".
Si potrebbero citare anche i seguenti simili enunciati dell'art.3, par.3, ma rimane un piccolo particolare: tutte queste "belle" parole non sono poi seguite da previsioni organizzative "stringenti" nel successivo "trattato sul funzionamento dell'Unione" -come quelle che prevedono i compiti dei vari consigli e della commissione nel perseguire il coordinamento di questo o quell'aspetto della politica economica.
Cioè non ci sono priorità di azione e relativi organi UE che si facciano programmaticamente carico di questi obiettivi, in modo significativo e "attualizzabile", proprio perchè si tratta sempre e comunque di azioni che pongono capo a "direttive" e risoluzioni" affidate alla realizzazione degli Stati con l'imprinting dell'inutile Parlamento UE.
E come constatiamo ogni giorno di più, nella gran confusione di un trattato deliberatamente illeggibile, si tratta sostanzialmente di azioni "dimostrative", pur sempre subordinate alla realizzazione di "un'economia sociale di mercato fortemente competitiva" e alla "stabilità dei prezzi".
La materia dei "valori" enfatici, al più , è servita a creare la mistica europea dei "diritti cosmetici" della cui funzione "distraente" rispetto alla più concreta azione di distruzione dei diritti sociali, abbiamo visto nel post "Hollande e lo scudo infranto dei diritti cosmetici".
Che esista una tale subordinazione risulta ormai chiaro dal fatto che nessun governo federale con un connesso adeguato e realistico budget può agire a livello di Unione per realizzare questi obiettivi "minori" (e fastidiosi). Mancano cioè le norme organizzative del tipo di quelle previste nelle vere costituzioni che possano consentire una effettiva realizzazione dei "principi programmatici" di cui si è sopra parlato.
11- Per contro, la "stabilità dei prezzi" trova la sua attuazione nella principale e unica istituzione propria dell'Unione monetaria, cioè la BCE-SEBC, che avrebbe pure il compito di perseguire "tutti" gli obiettivi dell'art.3, tra cui la "piena occupazione", come abbiamo visto nel post "Giuristi ed economisti: cronache da un fronte per difendersi dalla precomprensione...": solo che, abbiamo altrettanto spiegato (sempre nel post "Aso e Abe...") come, con sofisticate distinzioni terminologiche, l'Unione abbia "contestualizzato" tale concetto, con accorta formulazione strategica, come "tasso di disoccupazione naturale" alla Friedman e alla Lucas, intendendolo come un mero corollario "derivante" dalla stabilità dei prezzi e dalla "efficiente allocazione delle risorse" e non come un obiettivo "attivo" dotato di autonoma rilevanza.
E' chiaro che quanto detto nel post "Giuristi ed economisti...", sulla oggettivabilità in senso Keynesiano della locuzione "piena occupazione", è certamente sostenibile. Specie se l'Italia assumesse il legittimo punto di vista della propria Costituzione nell'intendere la "piena occupazione"del trattato, operazione "dovuta" per poter accettare la costituzionalità del "vincolo europeo" ai sensi dell'art.11 Cost.
Una operazione interpretativa di buona fede può inchiodare cioè il trattato alla sua stessa studiata ambiguità, per ravvisarvi un concetto keynesiano di piena occupazione, dotata perciò di centralità rispetto alla concezione di "equilibrio del sistema": ma sostenere ciò con successo equivarrebbe a un tale mutamento politico-ideologico che sarebbe più facile pervenire a un mutamento radicale del contenuto stesso dei trattati.
Piuttosto che all'adesione ad una diversa interpretazione giuridica, dotata di "giustizia" nel senso precisato nel post "La fine dell'euro: giustizia nel diritto e visione UE", sarà più probabile assistere alla dissoluzione-implosione, sotto i colpi della "inattendibilità" della sua stessa ideologia economica, dell'ambigua dissimulazione di ideologia contenuta nei trattati, restauratori maldestri del capitalismo intransigente anteriore alla crisi del 1929.
Ha l'aria di essere un "post piattaforma" (io sto cercando di arrampicarmi fino alla cima sfruttando un appiglio dietro l'altro...).
RispondiEliminaMa un commento ce l'ho già, assai banale : il meglio è nemico del bene (in fin dei conti AlCapone fu incriminato per evasione fiscale). Intanto arricchirà tutti noi operare per : «... sostenere ciò con successo equivarrebbe a un tale mutamento politico-ideologico che sarebbe più facile pervenire a un mutamento radicale del contenuto stesso dei trattati. »
Più che un post piattaforma è un post di "scudo" e affilatura...
EliminaNon se ne può proprio più di sostenitori dell'UE-UEM (che non hanno letto e/o capito il trattato) che accusano chi difende veramente la democrazia dall'europa di fare il gioco di "b".
Hai ben colto il paradosso finale: è la radice giuridico-economica dell'ipotesi frattalica :-)
Io ho colto:) la portata di questo post, seppur limitato nella sintesi*: tutti i punti salienti delle analisi precedenti sono esposti chiaramente.
RispondiEliminaVolendo estrapolare un punto essenziale o file rouge che mi ha particolarmente colpito, scelgo questo:
"Insomma nessuna delle caratteristiche di una Costituzione democratica moderna sono proprie del tipo di enunciati racchiusi nei trattati.
Non sono individuabili, in primo luogo, principi-fine che definiscano il titolare della sovranità nel popolo (tratto minimo essenziale della democrazia) e ne vincolino le istituzioni alla costante realizzazione: esistono piuttosto delle finalità "enfatiche" che, nel loro complesso di gran lunga prevalente, rispondono a una ideologia economica peculiare, e quindi riguardano il tipo di politica economica che gli Stati si vincolano a realizzare.
E questa ideologia, qui più volte esaminata, non solo tende esplicitamente a limitare/sopprimere gli interventi dello Stato, ma si rende, in partenza, incompatibile con "diritti fondamentali" che la stessa ideologia economica riduce a ostacoli semmai da sopprimere."
*sherzavo:))sintesi impeccabile.
Non dubitavo che avresti colto...E in fondo non era proprio una sintesi (di me stesso),ma uno sviluppo-esplicitazione di una conclusione che (per timidezza? Incultura economica?) si stenta ad assumere, in Italia. Non parliamo poi di diffonderla...Ma per questo ci siete VOI :-)
EliminaCaro 48, un grande lavoro di sintesi, davvero prezioso per orientarmi.
RispondiEliminaE ti ringrazio perchè è dedicato proprio a quelli che mi avevano variamente sollecitato un "orientamento" di fronte a segnali "disorientanti" :-)
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