Da Francesco Maimone e Bazaar riceviamo, e volentieri pubblichiamo, questo post: ci pare che esso contribuisca a una riflessione necessaria proprio in questo momento, nel quale la "via stretta" di una resistenza democratica deve procedere, più che mai, evitando l'interpretazione "inerziale" (rispetto a tendenze che nel presente risultano inattuali) degli elementi strutturali della realtà.
Ci pare cioè importante prevenire "scostamenti ideologici" da un corretto percorso dialettico, scostamenti destinati pericolosamente ad amplificarsi nel proseguire delle traiettorie prescelte. Ovvero, scostamenti destinati ad accentuare un "cul de sac", pur quando reso evidente dai duri fatti della realtà socio-economica dell'eurozona. Una realtà ormai decisamente orwelliana.
La cosa di cui dovremmo essere coscienti è che siamo in un momento eccezionale di travolgimento delle istituzioni costituzionali senza precedenti nella storia delle Repubblica: lo sforzo resistenziale dovrebbe indirizzarsi a neutralizzare il trascinamento di steccati ideologici, superabili con un realistico dialogo in nome della forza unificante del comune interesse costituzional-democratico (ovviamente, la disponibilità al superamento deve essere bilaterale: cioè vale per qualunque parte in causa). Ho aggiunto qualche "nota di Quarantotto" [NdQ].
1. Questo intervento prende
le mosse dal post, a firma dell’amico Mimmo Porcaro, pubblicato il 10 maggio
2017 su “Sollevazione” ed intitolato “Strategia
e tattica: le lezioni che ci vengono dalla Francia”. Le argomentazioni ivi addotte
da Porcaro, ed in gran parte condivisibili, rappresentano allo stesso tempo
l’occasione per alcune riflessioni su taluni passaggi del suo ragionamento che,
di contro, non ci vede del tutto in sintonia.
In tal senso, Porcaro ha sottolineato
con efficacia che il successo elettorale di Macron è stato determinato dalla “Union
Sacrée” dell’oligarchia eurocratica
dipinta, tuttavia, come forza democratica contrapposta al Front National
propagandato, per converso, come forza dagli spiccati connotati fascisti.
L’evidente
dissonanza cognitiva di massa evidenziata da Porcaro ci pare corretta, dal
momento che – come lo stesso sottolinea – la mera autoreferenzialità
democratica ed antifascista, supportata ad arte dal clero mediatico, non può predicarsi
per un “europeismo padronale di cui Macron è al momento l’eroe riconosciuto”
e che ha “da tempo messo in atto con
efficacia una precisa strategia di dissoluzione de iure e de facto
delle Costituzioni”. Pertanto, quell’europeismo “antifascista” (l’Union Sacrée), cosmeticamente acconciato da democrazia – prosegue
Porcaro – sarebbe in realtà solo “il miglior sostituto funzionale del fascismo
stesso” che, tuttavia, al momento
“semplicemente
non c’è”.
2. Quest’ultimo
passaggio rappresenta il primo punto sul quale riteniamo di non convenire con
il pensiero di Porcaro, per come testualmente dallo stesso espresso.
In
proposito, bisogna preliminarmente intendersi su cosa debba intendersi per “fascismo” (almeno nella tradizionale elaborazione
della teoria marxiana) termine quantomai equivoco e foriero di fraintendimenti
più di quanto si possa immaginare. Volendo definire il fenomeno in relazione a quelli
che Lelio Basso assumeva fossero i suoi “caratteri permanenti” e non
contingenti, è possibile sostenere che lo stesso è “… la tendenza del capitale ad
esercitare una totale manomissione sul pubblico potere, assicurandosi in pari tempo una base di massa nel paese, qualunque
siano poi le forme che questo regime reazionario di massa riveste di volta in
volta” [L. BASSO,
Fascismo ed antifascismo oggi, in Problemi del socialismo, marzo 1960,
n. 3, 285].
Il capitalismo, a causa
delle sue contraddizioni, nei suoi momenti di crisi (che per Marx costituiscono
la normalità) si trova nelle condizioni di non riuscire a superarla e deve
allora cominciare ad utilizzare lo Stato.
Da questo punto di vista, il fascismo
storico in Italia – innescato dalla crisi del primo dopoguerra, ma
non solo - non ha fatto altro che anticipare “… un processo che poi si generalizzerà: cioè la simbiosi tra Stato e capitalismo, fra economia e politica.
A un certo momento per non tenere in movimento - in quel caso per rimettere in
movimento il meccanismo del profitto che si era fermato, e oggi viceversa per
mantenere costantemente in movimento il meccanismo del profitto - è necessario che ci sia questa simbiosi fra
Capitale e Stato. Lo Stato diventa
l’ausiliario quotidiano del capitalismo…” [L. BASSO, Le origini
del fascismo, Savona, Centro giovanile, cicl., 10-45].
3. Ciò che costituisce la “forza determinante”, il carattere permanente del fenomeno fascista come
storicamente rivelatosi è quindi la costante “tendenza del … capitale
oligopolistico all’appropriazione del potere statale” [L. BASSO,
Le origini del fascismo, in Fascismo e antifascismo (1918-1936) – Milano, 12].
Nel fascismo storico la concentrazione del capitale oligopolistico aveva
sembianze nazionali; negli odierni sviluppi (v. p.5) tale concentrazione, trainata
dall’ideologia neo-liberista, si presenta in versione allargata e
transnazionale, ovvero europea nonché a vocazione (naturalmente) globalizzata.
“Appropriazione del potere statale” significa
sostanziale privatizzazione dell’interesse pubblico attraverso desovranizzazione degli Stati e
manomissione definitiva dei processi democratici che continuano a permanere
come mera vernice per coprire la restaurazione del vecchio ordine capitalistico
(ante 1929, per intenderci), con le
conseguenti manifestazioni che Porcaro bene elenca, cioè: dissoluzione della democrazia parlamentare, sottrazione di potere ai
parlamenti nazionali e traslazione del medesimo potere “ad organismi non-parlamentari posti scientemente “al riparo dal
processo elettorale” (le oligarchie economiche, rappresentanti del governo
sopranazionale dei mercati).
4. Nel caso specifico del
fenomeno €urounitario, gli strumenti utilizzati dalle oligarchie economiche transnazionali
sono i trattati ordoliberisti, compiuta realizzazione di quella “terza via” dal carattere mimetico, convintamente
messa alla porta, in Italia, in sede di Assemblea Costituente e poi “gioiosamente”
rientrata dalla finestra grazie ad una sedicente “sinistra”, paludata di quel
federalismo irenico e del benessere il cui suggello massimo si identifica con
la moneta unica (novella versione dello storico gold standard) e la teoria della Banca Centrale Indipendente, teleologicamente
orientata al mantenimento della stabilità dei prezzi (obiettivo cui sono preordinati principlalmente il
divieto per la BCE e per le banche centrali nazionali di finanziare i deficit
del bilancio pubblico nonché il divieto statutario di adottare azioni solidali interstatali, all'interno dell'eurozona, qui p.7, che possano
perseguire o tentare di ripristinare la piena occupazione).
Orbene, se, mutuando ancora
le parole di Gramsci a completamento di quanto poc’anzi detto, il fascismo “… è l'espressione organica della classe
proprietaria in lotta contro le esigenze vitali della classe lavoratrice, della
classe proprietaria che vuole, con la fame e con la morte dei lavoratori ricostruire
il sistema economico rovinato dalla guerra imperialista (appunto il
capitalismo ante 1929)…” [A. GRAMSCI,
Il carnefice e la vittima, Ordine nuovo, 17 luglio 1921], allora l’attuale
assetto eurounitario non può considerarsi un mero “sostituto funzionale del fascismo”,
ma incarna la quintessenza stessa del fascismo, ontologicamente presente (pur essendo necessariamente diverso dal fascismo storico, appunto nelle contingenti forme sovrastrutturali e ideologiche, nel senso inteso da Marx).
5. Questo riscontro dei "caratteri permanenti" indicati da Basso e Gramsci, semplicemente c’è, ed i dati in Italia
sulla disoccupazione strutturale, il livello ingravescente della povertà e
l’immiserimento generalizzato (del tutto incompatibili con il dettato della nostra
Costituzione keynesiana) stanno a testimoniarlo.
Non dovrebbe destare
stupore, peraltro, che il fascismo new
style come sopra inteso difficilmente, nei suoi caratteri contingenti,
esteriori ed equivoci (per esempio, lo squadrismo), possa ripresentarsi con le
stesse forme del ventennio.
Già nel ’60, al riguardo, Lelio Basso avvertiva:
“… Da
molti anni io mi sforzo di richiamare l’attenzione della sinistra italiana su
questi equivoci e su questo problema,
sulla necessità cioè di individuare la
vera natura del fascismo e le sue radici strutturali; ciò è necessario anche a
fini pratici perché compito della sinistra è precisamente quello di attaccare e
distruggere quelle radici senza di che non sarà mai spianata la via alla
democrazia.
Non solo ma se non sappiamo distinguere gli aspetti permanenti
e quelli contingenti del pericolo fascista,
rischiamo di continuare ad attendere una minaccia fascista nelle stesse forme
del 1922 e a non vedere il fascismo
che si avanza per altre vie… Sotto questo profilo la posizione della destra socialista è tipica: agitando lo
spauracchio di un fascismo vecchio stile, essa rinuncia a combattere a fondo il fascismo nuovo stile…” [L. BASSO,
Fascismo ed antifascismo, cit.].
6. Gli stessi moniti ci
venivano rivolti nel 1950 da Piero Calamandrei (che pure non era marxista) il
quale, nel rivendicare e difendere la sovranità democratica, avvertiva
che
“… le forme di limitazione di sovranità conosciute e classificate dai
giuristi non sono tutte le limitazioni che operano di fatto nella vita degli
Stati … i canali di penetrazione
attraverso i quali le imposizioni esterne riescono ad infiltrarsi nell’interno
di un ordinamento costituzionale apparentemente sovrano possono essere molto
più complicati e molto meno classificabili di quelli previsti negli schemi dei
giuristi.
Sicchè può avvenire che
in uno Stato che si afferma indipendente gli organi che lo governano si
trovino, senza accorgersene, in virtù di questi segreti canali di permeazione,
a esprimere non la volontà del proprio popolo, ma una volontà che vien dettata
dall’esterno e di fronte alla quale il popolo cosiddetto sovrano si trova in
realtà in condizione di sudditanza…” [P. CALAMANDREI, Lo Stato
siamo noi, Chiarelettere, Milano, 2016, 35-36].
Calamandrei
non sarebbe purtroppo vissuto abbastanza per constatare che, nell’attuale
frangente storico, quei “segreti canali
di permeazione” sono in verità quanto mai palesi, e che quelle “limitazioni di sovranità” si sono
concretate addirittura in cessioni di sovranità eurocertificate.
7. Alla
luce di quanto sopra esposto, su altri punti dell’analisi fornita da Porcaro ci
permettiamo di dissentire.
Egli, al riguardo, dopo aver affermato che “il fascismo semplicemente non c’è”, paventa
altresì che esso potrebbe materializzarsi in futuro sotto le sembianze del
Front National e della Lega Nord, qualificati all’uopo - in quanto
movimenti di una “destra protezionista” - come
“organismo politico della frazione
più debole del capitale” che andrebbe
incontro “alla specifica esigenza di una
parte del capitale, che non è già quella di avere una nazione priva di
immigrati… ma piuttosto quella di avere una nazione piena di immigrati clandestini, e quindi più facilmente
sfruttabili”.
Orbene, chiarita in primo
luogo l’intima essenza di quel fenomeno autoritario che per comodità chiamiamo
fascismo, sia il “soggetto” che attualmente lo impersonifica (ovvero, l’assetto
eurounitario risultante nel complesso dai Trattati), a noi sembra invece
fondamentale “spulciare” il programma
della Lega Nord (lo stesso vale per il Front
Nazional francese) per capire se tale movimento assecondi o meno un tale assetto
istituzionale.
E su questo specifico aspetto si dà il caso che proprio la Lega
Nord (così come il Front National) abbia assunto come primario punto
programmatico la rivendicazione della
sovranità democratica (sia pure con una "indecisione" terminologica che, oggettivamente, riflette un conflitto al suo interno che non appare ancora del tutto risolto), opponendosi in ogni sede (nazionale ed europea) a
quest’Europa mediante la pubblica denuncia dei suoi metodi e delle sue finalità
considerate (a ragione) in netto conflitto con i principi fondamentali della
Costituzione (appunto nella sostanza, laddove, peraltro, non è solo tale partito, ma praticamente tutti, ad "accusare" un richiamo poco consapevole alla effettiva portata del modello costituzionale).
8. In tal
senso, diciamo "sostanziale" (e indubbiamente ben suscettibile di essere perfezionato in base al compimento di un intero percorso), la rivendicazione della piena sovranità democratica-costituzionale (intesa,
ex artt. 1, 3, comma II, e 4
Cost., come effettiva e necessitata
realizzazione di tutti i diritti sociali) - la quale presuppone di
necessità l’abolizione della BCE indipendente e del connesso “vincolo esterno” – deve
essere considerata tutt’altro che irrilevante ai fini della tutela della
dignità dei lavoratori e dei diritti fondamentali di tutti i cittadini italiani,
i quali di quella sovranità sono e rimangono gli esclusivi titolari.
Ciò che
semmai può rimproverarsi alla Lega Nord (meno al Front National, almeno fino ai recenti "tentennamenti", che denotano una certa qual mancanza di fiducia nella propria scommessa politica) è semmai l'enfasi largamente insufficiente
posta sui temi evidenziati (rapporto di assoluta idiosincrasia tra BCE
indipendente, mercato del lavoro flessibile e, ovviamente, parametro costituzionale di sua tutela come principale argomento di legittima opposizione al "vincolo €uropeo"), la cui propugnazione è invece essenziale, se
non assorbente, per chiudere la partita del conflitto sociale.
9. In secondo luogo, è bene
altresì intendersi in cosa consista quella “frazione
più debole del capitale” protezionista di cui la Lega Nord (e il Front
National in Francia) costituirebbe il rappresentante politico.
Se, come sembra,
la “frazione più debole del capitale” è fatta coincidere da Porcaro con la piccola
e media borghesia, cioè con quel ceto medio che Lelio Basso (ma v. qui, P.4) definiva “Terza Forza” (PMI, intellettuali, liberi
professionisti, burocrati etc.), essa - chiusa
nell’individualismo che non è affatto coscienza liberale, ma un meschino
egoismo antisociale - è in realtà una vittima del capitale oligopolistico,
esattemente come il proletariato: “… La piccola borghesia e gli
intellettuali, per la posizione che occupano nella
società e per il loro modo di esistenza, sono
portati a negare la lotta delle classi e sono condannati quindi a non
comprendere nulla dello svolgimento della storia mondiale e della storia
nazionale che è inserita nel sistema mondiale e obbedisce alle pressioni degli avvenimenti
internazionali …”
[A. GRAMSCI, Previsioni, Avanti!, ed. piemontese, 19 ottobre 1920].
Privo di una coscienza di
classe, il ceto medio è incapace di rendersi conto che l’attuale concentrazione
capitalistica, trainata dall’assetto €urocratico, non può che condurlo alla
rovina: “… Il regime fascista muore
perché … ha contribuito ad accelerare la
crisi delle classi medie. L'aspetto economico di questa crisi consiste nella rovina della piccola e media azienda:
il numero dei fallimenti si è rapidamente moltiplicato in questi due anni. Il
monopolio del credito, il regime fiscale, la legislazione sugli affitti hanno
stritolato la piccola impresa commerciale e industriale: un vero e proprio passaggio di ricchezza si è verificato dalla piccola
e media alla grande borghesia, senza sviluppo dell'apparato di produzione;
il piccolo produttore non è neanche proletario, è solo un affamato in permanenza, un disperato senza previsioni per
l'avvenire…” [A. GRAMSCI, La crisi delle classi medie, L'Unità,
26 agosto 1924].
10. [NdQ] Dunque, sul piano strutturale, e non su quello sovrastrutturale-ideologico delle "illusioni" del Terzo Partito, abbiamo un'evidenza: se i ceti medio-piccolo imprenditoriali e professionali, in base ad un corretta analisi dei dati economici registrabili dagli esiti delle politiche economiche del fascismo, furono marginalizzati da esso - in nome dello stato di necessità che corrispondeva, allora, all'antioperaismo utilizzato come spauracchio sedativo-, ne dovremmo trarre un'obbligata quanto incredibilmente trascurata conclusione (che pure la storia economica di addita con grande chiarezza).
E cioè che, sul piano logico, se tale condizione passa, tra l'epoca del fascismo ed il secondo dopoguerra, dalla marginalizzazione politico-economica ideologicamente sedata, ad una rilevanza politico-economica senza precedenti, questi stessi ceti hanno goduto, forse più di tutti, della crescita del benessere legata alla (pur parziale) applicazione del modello democratico costituzionale.
Ed inoltre, il passaggio dalla condizione di operaio o contadino a quella di piccolo-medio imprenditore o di professionista, è tra l'altro, un fenomeno (generazionale) che si afferma solo dopo il 1948, come frutto della progressiva democratizzazione sociale costituzionale, e denota l'irrompere nella società italiana della c.d. "mobilità sociale" che è appunto il frutto della "eguaglianza sostanziale" e della c.d. "redistribuzione ex ante", (qui, p.4) che è la vera caratteristica della democrazia costituzionale del 1948.
I ceti "indipendenti", valorizzati politicamente e, specialmente, allargati nel numero, sono, sul piano dei riscontri consentiti dalla ricognizione dei fattori della crescita italiana del dopoguerra (v. qui, pp.5-8), i grandi beneficiari delle politiche industriali pubbliche codificate dalla c.d. "Costituzione economica", che hanno diffuso sul territorio, e pervaso in strati sociali sempre più ampi, la capacità di reddito e di spesa originata dall'incremento occupazionale e competitivo consentito dalla presenza della grande impresa pubblica.
10.1. Infatti, come negli anni ’20 per le oligarchie
nazionali, così nella situazione odierna per il capitale oligopolistico
internazionale:
“… Tutta una serie di
misure viene adottata dal fascismo per
favorire una nuova concentrazione industriale … L'accumulazione che queste
misure determinano non è un
accrescimento di ricchezza nazionale, ma è spoliazione di una classe a
favore di un'altra, e cioè delle classi
lavoratrici e medie a favore della plutocrazia.
Il disegno di favorire la
plutocrazia appare sfacciatamente nel progetto di legalizzare nel nuovo codice
di commercio il regime delle azioni privilegiate; un piccolo pugno di
finanzieri viene, in questo modo, posto in condizioni di poter disporre senza
controllo di ingenti masse di risparmio provenienti dalla media e piccola
borghesia e queste categorie sono
espropriate del diritto di disporre della loro ricchezza.
Nello stesso
piano, ma con conseguenze politiche piú vaste, rientra il progetto di
unificazione delle banche di emissione, cioè, in pratica, di soppressione delle
due grandi banche meridionali …”. [A. GRAMSCI, Il fascismo e la sua politica, Tesi approvate dal congresso
del partito comunista a Lione (gennaio 1926)].
Nelle parole di Gramsci risuona
l’eco delle privatizzazioni che hanno investito e continuano ad interessare il
nostro Paese sull’onda di un clima di crisi permanente, della
deindustrializzazione massiccia del sistema produttivo italiano (nonché del
conseguente indotto, campo prediletto delle PMI) ormai per lo più estero-controllato,
l’acquisizione in mano straniera degli assets
strategici (da ultimo, il caso Alitalia prossimo venturo) nonché i probabili sviluppi
della crisi bancaria sottoposta alle regole del bail in europeo a danno della gran massa dei risparmiatori.
11. Ciò che risulta paradossale,
peraltro, è che il capitale oligopolistico non celi le proprie strategie di
concentrazione, ma anzi le reclami in nome del “più €uropa” e della
globalizzazione, come si ricava dalle inequivocabili parole di Vincenzo Boccia, Presidente di Confindustria, ovvero della la più
grande associazione di quella “frazione
dominante del capitale” che Porcaro pur individua essere “l’elemento che
realmente diede il via libera a
Mussolini”.
Nel
corso dell’incontro linkato, infatti, l’intervistatore ha fatto notare a Boccia
che il sistema italiano è composto in maggioranza di PMI, riferendo che un
grande imprenditore italiano avrebbe però affermato quanto segue “Le piccole e medie imprese sono microaziende. Le microaziende, in questo
mondo, non hanno più alcun significato”.
Il commento di Vincenzo Boccia è stato lapidario: “Ha ragione. Piccolo è una condizione da superare. Bisogna costruire le filiere
e le alleanze. Se vogliamo affrontare i
mercati globali, quello che dice Guerra è esattamente la verità. Non possiamo più difendere lo status quo,
ma bisogna costruire un percorso. Bisogna andare in Borsa”.
Il ceto medio – confermando
le parole di Gramsci sopra riportate - non è quindi in grado di comprendere
che nulla ha da spartire con quest’€uropa di matrice mercantilistica (cioè costruita
su misura proprio per la “frazione
dominante del capitale” votata all’export
ed alla concentrazione), dal momento che il proprio terreno di elezione è da
sempre rappresentato dal mercato interno, ormai quasi del tutto sterminato a
causa delle politiche deflattive neo-ordoliberiste e della valuta unica che
vietano ogni intervento statale in economia.
In definitiva, quella medesima piccola e media borghesia, appoggiando
il sistema eurocratico anti-Stato che la vuole “far fuori”, non è cosciente che
si autocondanna a diventare una costola del proletariato oppresso e con il
quale, a ben vedere, avrebbe quindi tutto l’interesse a solidarizzare.
12. A stretto rigor di
termini, dunque, ammettendo che la Lega Nord (stesso discorso è valido per il
Front National) sia “l’organismo politico”
della piccola e media borghesia alla quale la propria proposta politica si
rivolgerebbe (la “frazione più debole del capitale”),
allora la battaglia programmatica anti-€uro e per il recupero della piena sovranità costituzional-democratica (monetaria,
di controllo pubblico dell’economia e dei confini nazionali) non può che avvantaggiare tutte quante le classi, in teoria antagoniste
(coscienti o meno che siano) della grande borghesia capitalistica
internazionale.
Quanto detto ci porta di conseguenza a sostenere che dette
forze politiche non si scaglino affatto “contro
una parte dei lavoratori”, poiché la
rivendicazione di un’attuazione piena ed incondizionata della democrazia
costituzionale significa, per antonomasia, tutela sociale redistributiva e pluriclasse.
[NdQ-2] Come sarebbe poi (parliamo del caso, e del programma del Front National) operativamente possibile "scagliarsi contro una parte dei lavoratori" se oltre al recupero della sovranità monetaria, si considera prioritario (parlando addirittura di "sacralizzazione"), il rafforzamento dell'iniziativa industriale pubblica e la pubblicizzazione non negoziabile dei servizi pubblici, insieme con l'abolizione della loi travail?
13. [NdQ3] Semmai, a rendere implausibili queste enunciazioni, è tentennare e "reculer" sulla questione dell'euro, che, per l'appunto costituisce il vincolo istituzionale che rende impossibile ogni attuazione di politiche sociali del pieno impiego, nonché di politiche industriali pubbliche, falcidiate dal regime del divieto di aiuti di Stato e dai limiti di bilancio (che sono appunto previsioni dei trattati intenzionalmente intese a rendere irrilevanti tali politiche, proprio perché incompatibili col modello sociale gold standard abbracciato dall'Unione europea).
Ma la scarsa fiducia nella comprensione degli elettori, da parte delle forze "sovraniste", di fronte a inevitabili battute d'arresto transitorie, è il risultato (erroneo) di una presa d'atto della forza mediatica delle oligarchie finanziarie, e in nessun modo l'indicatore rivelante una recondita strategia di scagliarsi contro "una parte dei lavoratori".
E tra l'altro, tale "parte", come verrebbe selezionata dato che, abbiamo visto, quei punti programmatici avvantaggiano indistintamente tutte le classi danneggiate dai poteri timocratici filo-europeisti?
Sarebbe un'operazione (di maliziosa "riserva mentale") semplicemente irrealizzabile a posteriori, perché suicida dal punto di vista del consenso, una volta conquistata una posizione di governo da cui realizzare quei punti progammatici. (E la riconversione post-elettorale di Trump, comunque nascente da un'ambiguità originaria ben più accentuata, insegna quanto le "riserve mentali" siano una strada di perdizione verso la precarietà nel consolidamento del potere conquistato alle urne).
Sarebbe un'operazione (di maliziosa "riserva mentale") semplicemente irrealizzabile a posteriori, perché suicida dal punto di vista del consenso, una volta conquistata una posizione di governo da cui realizzare quei punti progammatici. (E la riconversione post-elettorale di Trump, comunque nascente da un'ambiguità originaria ben più accentuata, insegna quanto le "riserve mentali" siano una strada di perdizione verso la precarietà nel consolidamento del potere conquistato alle urne).
14. Su un ultimo punto, in
proposito, ci sembra importante porre l’attenzione.
Ci sembra innanzi tutto una
(ulteriore) contraddizione in termini qualificare, come fa l’amico Porcaro, dette forze
politiche come protezioniste e addirittura xenofobe, salvo poi sostenere che le
medesime vorrebbero “una nazione piena di
immigrati clandestini … più facilmente sfruttabili”.
A noi pare, piuttosto,
che una tale asserzione sconti una “contaminazione ideologica”, in quanto da un
lato non si fonda su reali dati fenomenologici (è anzi di dominio pubblico che
Lega Nord e Front National siano contrari all’immigrazione clandestina, e
proprio per tale motivo sono ormai identificati in modo semplicistico come
forze politiche razziste/xenofobe) e dall’altro, correlativamente, presuppone
che il protezionismo sia sempre e comunque negativo.
Il protezionismo, quello
autentico (ammesso che il termine abbia un senso univoco fuori dal contestodegli imperialismi europei e del loro naturale sviluppo in termini di controllodei mercati), non può in prima battuta avvantaggiare le PMI, le quali semmai ne traggono solo un vantaggio
riflesso e marginale, essendo le stesse – come detto - legate
all'intervento pubblico nell'economia nonché alla connessa crescita industriale del
territorio.
Il protezionismo in senso stretto, infatti, avvantaggia
l'oligopolio nazionale, che fa “da asso piglia tutto” e non consente di
certo - dato il suo panorama istituzionale e il funzionamento della
"rendita" rispetto al livello di occupazione - che esista
una "frazione debole del capitale".
15. Il grande capitale
oligopolistico, infatti, mira sempre e comunque a creare classi subalterne ed
oppresse, mantenute a livelli di mera sopravvivenza non dissimili da quelli del
medio-piccolo salariato, in linea con la previsione di Marx secondo cui la lotta suprema è combattuta tra due
classi soltanto, proletariato e
borghesia, senza alcuna distinzione - nell’ambito di quest’ultima - tra
frazione debole e dominante del capitale.
In definitiva: protezionismo
imperialista old style o
"internazionalismo cosmopolita" (sempre come definito da Basso nella sua equivalenza al primo, p.2), è sempre e solo la grande impresa
finanziarizzata a dominare la scena.
Piuttosto, un
protezionismo intelligente, una sapiente “autarchia
economica nazionale” in campo merceologico e della forza lavoro erano sostenuti
da Keynes [J.M. KEYNES, National Self-Sufficiency, The Yale Review,
Vol. 22, no. 4 (June 1933), 755-769] come da Federico Caffè (intellettuali che
non possono essere definiti propriamente imperialisti o xenofobi), ci sembrano
quanto mai necessari e conformi, in Italia, al dettato della Costituzione.
[NdQ4] Senza dimenticare quell'anello di congiunzione tra i due costituito dall'illuminante analisi di Kaldor relativa al "vincolo della bilancia dei pagamenti" rispetto alla piena occupazione, e ai diversi modi di risolverlo, cooperando e adottando misure di coordinamento non egoistico tra paesi diversi: cioè esattamente l'opposto di quanto predicato nei trattati europei.
16. Deve,
cioè, essere assolutamente chiaro che non sono più eludibili l’interrogativo e
le argomentazioni che proprio Caffè poneva in proposito negli anni ’80:
“… Nell’ambito di un’economia mondiale interdipendente e
soggetta, nello scorcio degli anni più recenti, a vicissitudini perturbatrici
origine di problemi tuttora aperti, è
individuabile una funzione utile per una politica economica che miri a
realizzare un adeguato dosaggio tra l’incoraggiamento delle esportazioni e
un’autonoma azione di sostegno della domanda interna? I termini adoperati evitano ogni appello emotivo alla creazione di “un
nuovo ordine internazionale”, come pure ogni atteggiamento difensivo di
orientamenti protezionistici.
Né le frasi ad effetto, ripetute sino alla
noia, né il ripudio della realtà con
aprioristiche demonizzazioni contribuiscono a dare concretezza allo sforzo
di comprensione e di immaginazione necessario per avviare a soluzione i
complessi problemi dell’economia internazionale.
La loro gravità non sembra da collegare a prospettive di
crolli finanziari o di disgregazioni involutive proprie delle vicende degli
anni trenta. Trasformazioni profonde sono intervenute rispetto a quei tempi.
Nondimeno malgrado l’enfasi che abitualmente viene posta sulle proiezioni verso
il futuro, non può sfuggire a un
osservatore attento il riaffermarsi di quella “cristallizzazione delle
disuguaglianze” che, nell’immediato secondo dopoguerra, fu di ostacolo al
conseguimento degli attesi risultati istituzionali sul piano della cooperazione
internazionale nella sfera degli scambi internazionali. Si assiste, oggi, a un succedersi di monologhi che sembrano sinora
incapaci di dar vita a un valido dialogo …” [F. CAFFE’, In difesa del
welfare – Saggi di politica economica,
Rosemberg & Sellier, 1986, 93 e ss.].
16.1. Ripudiare la realtà
attestandosi su “aprioristiche
demonizzazioni” (in particolare riassunte nella frettolosa e non scientificamente univoca locuzione "protezionismo"), e contra
Constitutionem, in nome della pace e di un benessere utopistici da decenni contrabbandati
però ad arte dal pensiero unico, significa continuare a sostenere (anche
involontariamente ed in modo equivoco) posizioni inaccettabili propugnate già
da Von Mises [L. MISES, Die
Gemeinwirtschaft - Untersuchungen über den Sozialismus, 1922,
219, nota 1, e 220] nonché da Einaudi [L. EINAUDI, Protezionismo operaio,Corriere della sera 20 novembre 1910], che francamente non ci sembrano essere
stati campioni di democrazia e di solidarietà sociale.
Recuperare, in Italia,
l’indipendenza nazionale e la sovranità democratica della dignità del lavoro costituisce
quindi la essenziale (e necessaria) pre-condizione rispetto ad ogni altra discussione;
solo in un secondo momento, quello della normalizzazione che superi lo “stato di eccezione” eterodeterminato e
la “rottura costituzionale”, sarà
possibile ritrovare lo spazio per la legittima contrapposizione politica e le
differenze programmatiche (nei limiti, s’intende, del necessitato programma
fissato dalla Costituzione repubblicana).
Sino ad allora – e senza
che ciò significhi in alcun modo “legittimare l’idea … che in fondo Le Pen e Salvini
sono “un po’ di sinistra”, o comunque “più di sinistra” dei vari Renzi,
D’Alema, Bersani e via elencando” - ci sembra autolesionistico, in nome di
una intransigente prevenzione, escludere dal novero degli “Alleati” qualunque
forza politica che dichiari di condividere l’obiettivo sopra menzionato e che
solo la storia, a posteriori, sarà quindi in grado di giudicare.
L'importanza della "deideologizzazione", che diviene totalitaria dopo la sconfitta coscienziale del Sessantotto, ha oramai una più che documentata genesi.
RispondiEliminaChi lo avrebbe mai detto?
« [...] The CIA had been responsible for secretly financing a large number of “civil society” groups, such as the National Student Association and many socialist European unions, in order to counter the efforts of parallel pro-Soviet organizations. “[I]n much of Europe in the 1950’s,” wrote Braden, “socialists, people who called themselves ‘left’ — the very people whom many Americans thought no better than Communists — were about the only people who gave a damn about fighting Communism.”
The centerpiece of the CIA’s effort to organize the efforts of anti-Communist artists and intellectuals was the Congress for Cultural Freedom.
[...]
Established in 1950 and headquartered in Paris, the CCF brought together prominent thinkers under the rubric of anti-totalitarianism. For the CIA, it was an opportunity to guarantee that anti-Communist ideas were not voiced only by reactionary speakers; most of the CCF’s members were liberals or socialists of the anti-Communist variety. With CIA personnel scattered throughout the leadership, including at the very top, the CCF ran lectures, conferences, concerts, and art galleries.
[...]
During the Cold War, it was commonplace to draw the distinction between “totalitarian” and “free” societies [Hayek! Popper!, ndB] by noting that only in the free ones could groups self-organize independently of the state. But many of the groups that made that argument — including the magazines on this left — were often covertly-sponsored instruments of state power, at least in part. Whether or not art and artists would have been more “revolutionary” in the absence of the CIA’s cultural work is a vexed question; what is clear is that that possibility was not a risk they were willing to run. And the magazines remain, giving off an occasional glitter amid the murk left behind by the intersection of power and self-interest. »
Non sono puntini sulle "i": è portare coscienza. Perché, tutto ciò che viene divulgato e che non porta coscienza, è di fatto reazionario. Propaganda gratuita al potere antidemocratico.
Elementare Watson...
EliminaMa mi sa che mi toccherà tradurlo :-) (tanto possono sempre dire che trattasi di fake news. E' talmente facile!)
Nel caso non vi fosse già noto, segnalo questo testo, che approfondisce su documenti desecretati il tema della 'guerra fredda culturale' in Europa.
EliminaGrazie.
EliminaAnche questo conferma il grado di efficacia di una strategia culturale in fondo ovvia, quasi obbligata, che ha investito (volente e nolente) ogni settore della cultura e delle varie scienze: e che spiega benissimo perché oggi, dopo decenni di questa spinta, il concetto del fascismo sia divenuto rigorosamente separato dal quello delle sue radici economiche liberiste.
Una rimozione, resecativa dei fatti storici, particolarmente "felice" perché facilmente evolvibile verso l'assetto "neo"liberista che troneggia sulla "fine della Storia" (in tutti i sensi, ma più che altro come disciplina...).
Ovviamente il liberismo si rivela ancor più occultato, nella sua "doppia verità" ipergerarchica, da questa influenza culturale: si è avuta e si ha, comunemente, molta più facilità a ripresentarlo e molta più difficoltà a riconoscerlo nei suoi antecedenti politico-strutturali.
Esso infatti ha presenta una costante inalterata fino ai nostri giorni (e che rende particolarmente opportuna la mimesi della "libertà" e dell'estraneità ai totalitarismi): consiste nell'applicazione della pura legge della domanda e dell'offerta al solo mercato del lavoro, riverniciando i monopoli PRIVATI con gli oligopoli PRIVATI a mercato transnazionale "naturale", e, appunto, privatizzando le istituzioni degli Stati.
Questa privatizzazione, in modo sempre più evidente, agisce in via diretta (mediante un'azione, inevitabilmente autoritaria, nazionale), o, secondo il caso, indiretta, attraverso le organizzazioni economiche di DIRITTO INTERNAZIONALE PRIVATIZZATO.
Ma il peggio di tutto ciò è che la gente comune accoglie quasi con fastidio la "fatica" di una presa d'atto, occorrendo, ormai, un livello diffuso e concentrato di crisi economica e di impoverimento, perché trovi la motivazione a liberarsi.
Per evitare questa fatica (cioè, pur sempre, un livello aggiuntivo di sofferenza, seppure non sterile e passiva) è disposta a tollerare un graduale e lento stillicidio, con crescita stagnante e, specialmente, una inesorabile redistribuzione della ricchezza verso l'alto.
La cecità paga, se si vive al buio...
Ecco spiegata la dissonanza cognitiva nei due ultimi capolavori di Orwell: perché usare lo stalinismo come esempio di sorveglianza totalitaria? Perché una descrizione perfetta della modernità senza una critica strutturale?
EliminaA quanto pare Winston Smith è stato lui stesso vittima della propaganda: i due capolavori mettevano sullo stesso piano nazifascismo e stalinismo. Punto. Motivo per essere promosso dai Servizi al servizio dei porci col cilindro.
Come la Arendt, come Popper e, come tutti coloro che sono stati finanziati pubblicamente o privatemente dallo stesso club, hanno contribuito al frame comunismo == fascismo == totalitarismo, rimuovendo le origini bancario-liberistiche del nazifascismo e degli olocausti.
Coi soldi si fa tutto.
Tranne l'Arte.
Si può solo distruggere, insieme allo spirito dell'Uomo.
Dobbiamo a quanto pare confermare il ringraziamento ai filantropi dell'élite finanziaria angloamericana per averci regalato questa merda manzoniana che viene spacciata per arte.
Musica atonale compresa.
Tutto si tiene, caro Bazaar. L’imperialismo cultural-mediatico è il vero strumento della lotta di classe del ceto dominante e quarant’anni di purghe neuronali hanno portato a termine in modo egregio lo sporco lavoro. Sarebbe ora che se ne prendesse coscienza:
Elimina“… noi non siamo in presenza di un fenomeno involutivo particolare all’Italia e spiegabile con motivi particolari tratti dalla nostra storia, e, meno ancora, dalla nostra educazione politica o dalla nostra psicologia, bensì di una tendenza generale del mondo capitalistico, che, quanto più procede verso forme monopolistiche e di alta concentrazione, tanto più diventa incompatibile con un regime democratico, e sia pure di democrazia borghese. Le forme democratiche possono sussistere, ma sono svuotate di ogni contenuto e di ogni reale efficacia, in quanto il potere politico tende ad identificarsi sempre più col potere economico e ad essere sempre più espressione degli interessi dei pochi gruppi monopolistici.
Questo processo, che si verifica in tutti i paesi capitalistici e naturalmente si inserisce nelle particolari situazioni sociali e storiche … si trova oggi coordinato su scala mondiale … Ne consegue che in ogni singolo paese politica internazionale… politica economico-sociale … e politica interna (tendente ad escludere le classi lavoratrici da ogni reale influenza sul potere e successivamente ad eliminare ogni serio controllo parlamentare e di opinione pubblica, asservendo i sindacati, la stampa, ecc.) sono in realtà tre aspetti di un’unica politica, che non possono essere considerati e combattuti separatamente…
Se così è...il problema italiano… è di lotta contro i gruppi monopolistici e contro gli esecutori della loro politica, e di un mutamento radicale di questa politica, mutamento cui peraltro non possono consentire gli attuali dirigenti del nostro Paese indissolubilmente legati ormai all’imperialismo americano e alle sue brutali esigenze economiche, politiche e militari. I gruppi dirigenti italiani non possono né rovesciare né modificare sostanzialmente la propria politica; al contrario essi hanno l’inderogabile esigenza di spingerla sempre più alle sue logiche conseguenze e di accelerarne i tempi. Questo governo e i gruppi ch’esso rappresenta non possono far altro che insistere nel tentativo di spezzare la forza del proletariato italiano e dei ceti indipendenti: l’asservimento economico del paese ad interessi di monopoli dominati dalla finanza straniera, e la sua preparazione per una eventuale utilizzazione bellica, implicano necessariamente l’annientamento di ogni superstite libertà…
Tutto ciò implica quindi l’abbandono di posizioni semplicemente difensive. Sovente, nel corso della polemica che le sinistre conducono contro il regime democristiano, fa capolino la parola “difesa”: “difesa” della pace, “difesa” della legalità repubblicana, “difesa” delle prerogative del Parlamento, “difesa” della libertà di coscienza, e via discorrendo. Indubbiamente noi stiamo attraversando nell’Europa occidentale e in genere nel mondo capitalistico una fase di violenta offensiva reazionaria, ed è giusto e necessario che contro questa offensiva noi difendiamo le nostre conquiste minacciate (segue).
Nondimeno si ha spesso la impressione che questa impostazione di temi staccati NASCONDA UNA PERICOLOSA TENDENZA A SMARRIRE IL SENSO UNITARIO DELLA LOTTA, e, quello che è ancora più grave, i metodi e le finalità della lotta socialista…Sui metodi e sulle finalità non bisogna dimenticare che i compiti del movimento operaio non possono essere semplicemente di “difesa” di posizioni raggiunte. Compito del movimento operaio non è solo quello di conservare, ma quello di avanzare. Anche se la pressione avversaria è molto forte, noi non possiamo assumerci soltanto il compito di contenerla. Altrimenti potremmo correre il rischio di trovarci a difendere istituti magari in parte superati o antiquati, di trovarci cioè aggrappati a posizioni arretrate rispetto al corso della storia. La difesa delle libertà borghesi è indubbiamente una condizione di lotta per noi, ma non è l’alternativa che noi dobbiamo offrire alla politica dell’imperialismo.
EliminaUna politica seria della classe operaia non può oggi limitarsi a difendere il Parlamento o il diritto di organizzazione sindacale, ma deve esigere il rispetto delle libertà democratiche come del clima in cui debbono svolgersi le lotte politiche, le cui finalità e i cui obiettivi vanno naturalmente al di là della semplice conservazione delle libertà. E in questa difesa del clima democratico, la classe operaia non può ignorare che la storia cammina e le istituzioni si trasformano, e che p. es. il parlamentarismo, espressione tipica della borghesia capitalistica in una determinata fase di sviluppo, è ovunque in completa decadenza nella fase imperialistica, e che non è compito del movimento operaio far girare indietro la ruota della storia per cercar di richiamare in vita l’Europa che precedette la prima guerra mondiale.
Al contrario deve il movimento operaio mostrare come non vi sia più nulla di comune fra una democrazia anche borghese e le sue forme apparenti, e che un’effettiva garanzia democratica può oggi trovarsi in una partecipazione diretta delle grandi masse alla gestione della cosa pubblica attraverso il libero funzionamento dei moderni istituti (partiti, sindacati, consigli di gestione, ecc.) piuttosto che nel tentativo di rivivificare degli istituti che non rispondono più interamente alle esigenze di oggi.
…Limitarsi ad attenderne l’assalto e a parare di volta in volta i singoli colpi, difendendo ogni singola posizione minacciata (oggi il diritto di riunione, domani quello di sciopero, dopodomani la libertà di stampa, oppure l’occupazione operaia in questa o quella fabbrica contro le singole minacce di licenziamento), anziché contrapporre alla politica dell’imperialismo una propria politica capace di assicurare alleanze alla classe operaia sullo specifico terreno della lotta contro le trasformazioni della struttura economico-sociale che la politica dei gruppi monopolistici porta con sé, significa rinunciare ad ogni capacità di iniziativa e di direzione politica, cioè praticamente alla funzione rivoluzionaria del movimento operaio.
Quali siano queste trasformazioni di struttura abbiamo già più volte indicato: esse vanno dal superamento dell’economia di concorrenza alla conseguente distruzione della produzione indipendente, cioè non legata a gruppi, sia essa piccola, media o relativamente grande, dall’abbandono di certi tipi di produzione industriale alla trasformazione delle culture agrarie in relazione alle direttive dell’imperialismo americano e alle sue esigenze di sfruttamento di un solo grande mercato europeo, dalla cartellizzazione e cosiddetta “razionalizzazione” dell’industria alla modificazione delle abituali correnti di traffico, dall’abbandono di difese doganali alla rinuncia a sovranità nazionali, dalla subordinazione dei poteri pubblici alle direttive dei monopoli fino alla creazione di un sistema di sicurezza del grande capitale capace di garantirgli la tranquillità del profitto e di socializzarne le perdite (segue)
Tutto questo processo è evidentemente destinato ad accrescere la disoccupazione operaia, ad aumentare il livello di sfruttamento delle masse … e, in misura forse ancora maggiore, a sgretolare e pauperizzare i ceti medi, a soffocare ogni libertà di pensiero e ad avvilire intellettuali e tecnici al rango di servi dell’imperialismo. Non importa se i nostri avversari si riempiono la bocca di formule altisonanti di democrazia: la loro politica, più ancora di quella di Hitler, è la minaccia più grave che abbia fino ad oggi pesato sulle possibilità di sviluppo democratico dell’uomo moderno.
EliminaÈ chiaro perciò che la politica della classe operaia deve essere una politica capace di interessare non soltanto gli operai stessi, ma altresì tutti quei ceti…che la politica dell’imperialismo distrugge od opprime sia economicamente sia spiritualmente e coi quali noi dobbiamo ricercare i mezzi e le vie per creare un nuovo equilibrio di forze sociali che rovesci quello oggi in via di consolidamento. Dev’essere chiaro per tutti che le forze, che oggi si sono insediate al governo del nostro paese, non hanno alcuna possibilità di tornare indietro dalla strada su cui si sono avviate e che è la strada del domino totalitario dello stato per conto dei grossi interessi capitalistici; e che perciò la sola possibilità offerta a chi non vuole soggiacere a QUESTA NUOVA EDIZIONE DEL REGIME FASCISTA che si profila, è di opporvisi con tutte le proprie energie, non per tornare indietro o per stare fermi, ma per allearsi con tutte le forze decise a creare un nuovo equilibrio che segni un passo avanti sulla strada della democrazia e del progresso.
Si tratta di contrapporre organicamente alle soluzioni dell’imperialismo, non già la difesa statica di un ordinamento precedente e neppure il modello di un socialismo già perfetto, ma una struttura sociale nuova che superi le contraddizioni del presente e risponda agli interessi di queste più vaste alleanze, e in cui quindi anche i ceti borghesi e piccolo-borghesi non legati all’interesse del grande capitale, trovino accolte le loro esigenze di vita, una struttura sociale, per intenderci, di cui alcune direttive fondamentali furono già tracciate nella prima parte della Costituzione e attendono ancor oggi invano di ricevere attuazione.
Si tratta di rafforzare lo schieramento di lotta contro l’imperialismo facendo leva… sugli interni contrasti che le trasformazioni sociali in corso provocano in ognuno dei paesi capitalistici. Si tratta di elaborare soluzioni unitarie che si inquadrino in un nuovo equilibrio di forze sociali da suscitare. Ed è compito preminente della classe operaia oggi trovare le forme e i modi, i mezzi e le vie di queste nuove alleanze e di queste nuove conquiste, DI APRIRE NUOVE STRADE AD UN MOVIMENTO POPOLARE DI LIBERAZIONE CONTRO LA MINACCIA INCOMBENTE DELLE NUOVE DITTATURE E DI ANIMARLE DEL SUO SPIRITO DI LOTTA.
Perchè non può esservi dubbio che è solo nel quadro di vasti movimenti popolari e nello spirito DI UNA NUOVA LOTTA DI LIBERAZIONE che può esser condotta a fondo la lotta contro la marcia dell’imperialismo e contro i suoi alleati, dal clericalismo alle illusioni della Terza Forza e del riformismo. Un duro risveglio dal sogno di queste illusioni attende i ceti medi e questi strati di popolazione lavoratrice che hanno ceduto, e i partiti operai saranno all’altezza del loro compito solo se essi sapranno utilizzare quel prezioso strumento che è la dottrina marxista per prevedere lo sbocco prossimo, delle contraddizioni presenti del mondo capitalistico e ne renderanno coscienti le masse che devono subirne le delusioni e i contraccolpi, offrendo ad esse invece le proprie soluzioni. (segue)
Questa è sempre stata la via maestra del socialismo di fronte all’avanzata del capitalismo: …farsi coscienza critica di queste contraddizioni lacerazioni e crisi, cioè aggiungere all’oppressione reale di cui soffrono operai contadini e ceti medi la coscienza dell’oppressione, per rendere sempre più numeroso e più saldo l’esercito di coloro che vedono a fondo la radice delle proprie miserie e del proprio sfruttamento e non si lasciano ingannare dal FORMALISMO GIURIDICO O DALL’IDEOLOGISMO PICCOLO BORGHESE. Si tratta perciò di creare non soltanto un grande movimento di partigiani della pace, ma accanto ad esso, ed anzi fuso con esso, di partigiani della democrazia nel senso sostanziale della parola e di partigiani di una liberazione sociale dallo sfruttamento esoso di pochi gruppi monopolistici. Si tratta di mobilitare in Italia e in Europa tutti coloro che non vogliono soggiacere al nuovo totalitarismo e di fame gli alleati del movimento operaio.
EliminaMa qui un interrogativo si pone: esistono altre alternative alla politica dell’imperialismo che non siano l’alternativa socialista? E, se non esistono, È POSSIBILE AL MOVIMENTO OPERAIO TROVARE ALLEANZE CON CETI PICCOLO-BORGHESI E FORZE NON SOCIALISTE per una battaglia il cui sbocco non può essere che socialista? Certo per noi marxisti non esistono in definitiva altre alternative alle contraddizioni del mondo capitalistico, che non siano la soluzione socialista, ma questo è il punto d’arrivo di lotte vaste di crisi profonde, nelle quali ogni contraddizione successiva dev’essere chiarita e superata e ogni illusione dissipata, fino a che l’incapacità del mondo borghese a risolvere i problemi ch’esso pone lo abbia definitivamente precipitato nel baratro delle sue insanabili lacerazioni. Il processo di altissima concentrazione capitalistica oggi in atto è uno dei momenti necessari della crisi del capitalismo, ed esso è destinato a colpire economicamente e umiliare spiritualmente molti ceti non proletari: QUALUNQUE SIA IL LORO PENSIERO SUL SOCIALISMO, QUESTI CETI SONO GLI ALLEATI NATURALI DEL MOVIMENTO OPERAIO nella attuale fase di lotta contro l’imperialismo monopolista.
Sarà, se mai, nel corso della lotta compito nostro quello di formare anche per questi ceti non proletari, ma candidati alla proletarizzazione, una coscienza socialista, guidarli dalla visione dei loro problemi di oggi e delle loro aspirazioni immediate, alla concezione più vasta di un ordine nuovo fondato sulla solidarietà sociale e non sul profitto e sulla rapina…” [L. BASSO, Ciclo totalitario III, in Quarto Stato, 1-31 luglio-15 agosto 1949, nn. 13-14-15, 3-6].
"Dobbiamo a quanto pare confermare il ringraziamento ai filantropi dell'élite finanziaria angloamericana per averci regalato questa merda manzoniana che viene spacciata per arte."
EliminaPrima pero' li dobbiamo ringraziare della nascita del nazismo e della II GM.
Qualcuno ha mai veramente letto quella assoluta merda del 'Mein Kampf'?
Leggendolo (ovviamente vincendo il ribrezzo) si capisce il vero motivo perche' fino ad oggi ne e' stata vietata la pubblicazione.
Quel libro fu, con tutta evidenza, il manifesto programmatico scritto per convincere i finanziatori anglosassoni a sostenere il nascente partito nazista.
Il capitolo 14 e' molto chiaro al proposito:
"With this, we National Socialists consciously draw a line through the foreign-policy trend of our pre-War period. We take up at the halting place of six hundred years ago. We terminate the endless German drive to the south and west of Europe, and direct our gaze towards the lands in the east. We finally terminate the colonial and trade policy of the pre-War period, and proceed to the territorial policy of the future.
But if we talk about new soil and territory in Europe today, we can think primarily only of Russia and its vassal border states."
In sintesi, Hitler dice 'se mi date i soldi ci spartiremo la Russia'.
C'e' qualche storico che abbia mai spiegato a fondo la 'phoney war' ed i motivi del volo di Rudolf Hess alla vigilia dell'Operazione Barbarossa?
Leggendo il 'Mein Kampf' tutto si spiega.
*Testo inglese dal Mein Kampf preso da Reynal And Hitchcock English-language edition (New York, 1941) presso https://archive.org/details/meinkampf035176mbp
Il PRIMIPARO Ventotene Europa Festival
RispondiEliminaqualcuno di "quei" 30 liceali provenienti da Roma, Parigi e Berlino v'ha interpellato nella scrizione del "ciclostile"?
Neppure l'aura s'è sentita?
Chissà quale sarà il TRASCRITTO ...
LOL!
EliminaDai che devono "riprendere quello spirito"! E siccome lo hanno già trovato prima ancora di partire, poi avranno buone chances di far parte della nuova trojka federalista e "solidale", avendo convenuto che sia l'unica conclusione operativa efficiente per...avere un lavoro sicuro.
(Intanto se so' piazzati loro...).
Grazie per questo post importantissimo come sempre. <>. Quanto è profetico!!! Fa accapponare la pelle. Basso era un genio ed è un guro per me. Non voglio certamente mancargli di rispetto criticandolo, che sia chiaro. Però mi pare sbagliato (e un autogol) chiamare fascismo una situazione in cui il "capitalismo è praticamente al potere", visto che confonde una particolare forma storica con una tendenza generale ed "eterna" che se ne frega delle forme. Cioè vanno bene tutte. Se si adotta l'uso che critico, Churchill era fascista tanto quanto Mussolini. E la IIGM è stata una guerra tra fascisti contro un alleanza di (altri) fascisti e comunisti, e vinta dai secondi. Proprio questa confusione ha provocato il facile giochetto di scambiare la democrazia cosmetica con l'antifascismo, il quale a sua volta non è solo antifascismo, e nemmeno solo socialismo, ma repubblicanesimo 48ista, cioè l'idea che il capitalismo DEVE essere tenuto sotto controllo tramite un processo democratico che renda il popolo cosciente dei fenomeni strutturali.
RispondiEliminaSì, "Churchill era fascista tanto quanto Mussolini".
EliminaNon solo, era proprio un grande fan di Benito. Benito non a caso finanziato nella sua ascesa dai britannici.
Sul fascismo mi rimetterei agli innumerevoli post antecedenti e al lavoro filologico già fatto...
Non so se qualcuno degli Autori del blog l'abbia già citata (in tal caso me ne scuso). Trattando della XII disposizione finale, la costituzionalista Barbara Pezzini, aderendo all'opinione espressa da De Siervo nel 1975, sostiene che "...la disposizione individua una condizione permanente di rischio di involuzione del sistema democratico costituzionale. Il pericolo si connette non solo al contesto storico entro il quale è nata la Costituzione repubblicana, per il valore esemplare di tragico precedente che il totalitarismo fascista ha nella storia italiana, ma al contesto liberal-democratico in cui essa si colloca: una deriva autoritaria di destra — a differenza di qualsiasi trasformazione rivoluzionaria nella direzione di modelli non democratici a base comunista — non richiederebbe la messa in discussione del sistema di produzione capitalistico e dell’economia di mercato e potrebbe più facilmente innestarsi nella continuità dei rapporti socio-economici, proprio come nella continuità dell’ordinamento statale e dell’assetto produttivo si era instaurata e sviluppata, dopo la prima guerra mondiale, l’esperienza del fascismo italiano." E ancora:"...alla parabola dell’antifascismo nel suo significato minimale di reazione sanzionatoria al fascismo, si tratta di proporne oggi una concezione sostanziale: l’antifascismo, che resta matrice e fondamento della Costituzione, ha bisogno di essere collocato più direttamente nei valori e negli istituti che ne consentono l’inveramento, proprio perché sono ormai scomparsi i suoi garanti (gli attori politici riconoscibili e riconosciuti tali). La perdurante esigenza di garanzia antifascista scaturisce, innanzitutto, dal fatto che una sorta di disattuazione strisciante della XII disp. mina l’unitarietà della Costituzione; in secondo luogo, dal fatto che le esigenze di fondo e le coerenze di sistema restano immutate e persino più intenso e particolarmente attuale si può considerare il pericolo per la democrazia connesso all’ideologia ed alla pratica politica fascista, non solo perché il quadro nazionale resta liberal-democratico, ma tanto più perché il sistema capitalistico è mondialmente egemone." [Barbara Pezzini, Attualità e attuazione della XII disposizione finale: la matrice antifascista della Costituzione repubblicana, in Alle frontiere del diritto costituzionale. Scritti in onore di Valerio Onida, a cura di M. D’Amico e B. Randazzo, Giuffrè, Milano, 2011, pagg. 1384-1385 e 1401-1402].
RispondiEliminaQuando una costituzionalista parla della nostra costituzione come "liberal-democratica", proprio per sottolinearla volta ad una "terza via" tra comunismo e fascismo, archetipi rispettivamente a totalitarismo di "sinistra" e di "destra"... Bè... penso a Popper, alla Arendt, ad Hayek.... alla CIA... insomma, vedi sopra.
Elimina@Michele
EliminaNon avevo letto quanto scritto dalla costituzionalista Barbara Pezzini sulla XII disposizione finale.
Tuttavia, conosco quello che pensa il prof. Gaetano Azzariti allorché tratta di Revisione costituzionale e rapporto tra prima e seconda parte della Costituzione , argomento replicato nel corso di questa lezione (in particolare minuto 35 ss).
Ciò che mi interessa di più, in via generale e prendendo spunto dalla trattazione di Azzariti, è sottolineare come quest'ultimo spieghi in maniera limpida (Basso e Mortati l’avevano ovviamente fatto molto tempo prima, come infinite volte il Presidente ha dimostrato sul blog e nei suoi libri) che la Costituzione non può essere fatta a “fette” e che anche nelle disposizioni transitorie e finali sono incarnati principi fondamentali. La disposizione portata ad esempio è proprio la XII, che viene ricollegata direttamente all’art. 1 Cost..
Con buona pace di chi ritiene che, salvo i primi dodici articoli, tutta la restante parte del dettato costituzionale è modificabile ad libitum (infatti grazie a questa incomprensione ci ritroviamo con il pareggio di bilancio in Costituzione).
Ciò per dire che molti costituzionalisti (per non parlare della Corte Costituzionale, che quanto sopra argomentato dal prof. Azzariti non l’ha ancora capito o non vuole capirlo) farebbero bene a spiegare e ad insistere di più su certi argomenti basilari. Se ciò fosse stato fatto a tempo debito, forse non ci troveremmo in questa palude.
Quando si parla di creare coscienza…
@Bazaar
Elimina@Francesco Maimone
Posso solo ringraziare entrambi per i commenti, ricchi di spunti di riflessione ed approfondimento, come del resto lo sono sempre gli articoli e i commenti di questo blog - davvero unico nel suo genere - e, ovviamente, i libri del Presidente Barra Caracciolo.
Grazie al Vostro prezioso lavoro e a quello degli altri Autori, sto riscoprendo, dopo tanti anni, il significato autentico della Costituzione.
Credetemi, tutto ciò per me non ha prezzo ...
Condivido buona parte delle obiezioni che Francesco Maimone e Bazaar rivolgono a Mimmo Porcaro (al quale mi sono permesso di segnalare il loro contributo, semmai gli sfuggisse).
RispondiEliminaMi auguro che prenda il via una discussione fruttuosa, che non si impaludi dunque in una sterile ginnastica intellettualistica, ma ci aiuti a sformare una PROPOSTA POLITICA.
In questa prospettiva non posso nascondere che l'implicito del contributo di Francesco Maimone e Bazaar mi suscita alcune perplessità, che spero presto di potere argomentare.
Qui solo alcune telegrafiche considerazioni.
(1) Le élite mondialiste, contro certi "populismi", usano lo spauracchio del fascismo. V'è la tendenza a contrastare questa operazione strategica rispondendo che economicisticamente che fasciste sarebbero invece le élite mondialiste. Così facendo si perde per strada la principale caratteristica politica del fascismo, quella di essere un movimento extraparlamentare di masse pauperizzate per annientare gli organismi politici e sociali del nascente contropotere della classe proletaria —essendo la liquidazione degli istituti della democrazia liberale e parlamentare una misura strumentale all'obbiettivo primario. Per dire che se il fascismo è una forma di totalitarismo, non ogni totalitarismo è fascista. Se né il Front né la Lega salviniana sono movimenti fascisti, non è fascista il regime ordoliberista. Per non incorrere in generalizzazioni POLITICAMENTE fuorvianti occorre fare analisi concreta della situazione concreta, ed evitare (mutatis mutandis) di incorre nell'errore che Hegel imputava a Schelling, quello della "notte delle vacche nere" —che è l'errore che compie, tra gli altri amici, Alberto Bagnai.
(2) Occorre una ampia alleanza nazionale-popolare (Gramsci quindi, non Rosa Luxemburg)? Sì che occorre! Per la cronaca questo è un elemento che sta alla base della neonata Confederazione per la Liberazione nazionale. Un'alleanza, come diciamo noi, patriottica-costituzionale, per riconsegnare al Paese piena sovranità politica. Nel nostro gergo: un blocco sociale anti-oligarchico e anti-liberista, e la cui base sia l'applicazione della Carta del 1948. Un blocco che include gioco forza le classi e gli strati sociali che, prima ancora che per i famigerati quanto "valori", hanno INTERESSI comuni e dei NEMICI comuni.
(continua)
(3) Detto ciò, sempre rifuggendo da ogni astrattismo, occorre entrare... "nel merito". Quale FORMA può prendere, nel contesto storico e fattuale dato, questa alleanza? Quali potrebbero e/o dovrebbero essere i contraenti di un patto politico per la liberazione? C'è nell'area del cosiddetto "sovranismo" l'illusione, che il nemico da tempo qualifica per demonizzarla con l'epiteto "rossobrunismo", che in questa alleanza ci sia posto per tutti, che sia sufficiente ricavare il minimo comune denominatore, ovvero indicato il nemico. Errore! Si darebbe vita ad una Armata Brancaleone destinata alla sconfitta, del tutto funzionale ai dominanti.
RispondiEliminaMaimone e Bazaar scrivono:
«Recuperare, in Italia, l’indipendenza nazionale e la sovranità democratica della dignità del lavoro costituisce quindi la essenziale (e necessaria) pre-condizione rispetto ad ogni altra discussione; solo in un secondo momento, quello della normalizzazione che superi lo “stato di eccezione” eterodeterminato e la “rottura costituzionale”, sarà possibile ritrovare lo spazio per la legittima contrapposizione politica e le differenze programmatiche (nei limiti, s’intende, del necessitato programma fissato dalla Costituzione repubblicana)».
Giusto: "pre-condizione rispetto ad ogni altra discussione".
La "pre-condizione" nulla ci dice tuttavia sulla geometria dell'alleanza anti-oligarchica e anti-liberista di cui c'è bisogno. Data la "pre-condizione" il discorso va spostato più avanti, sul terreno POLITICO delle condizionalità. Basta affermare la difesa della Carta del 1948? Non penso che sia sufficiente, altrimenti dopo il successo del 4 dicembre avremmo già, se non l'alleanza, il suo embrione. Ciò che abbiamo avuto dopo il 4 dicembre dev'esserci d'insegnamento. In barba alla conclamata difesa della Costituzione non solo ognuno è andato per la sua strada, sulla decisiva questione della legge elettorale (dai cui dipende —anche— l'architettura istituzionale e non solo il rispetto del principio della rappresentanza) le due principali forze del NO (M5S e Lega Nord —Nord!) hanno proposto meccanismi insidiosi che fanno strame della Carta medesima.
Che poi quest'alleanza possa avere il suo battesimo sul campo elettorale (campo imprescindibile nelle condizioni date) ho qualche dubbio. Le elezioni sono di norma, in una democrazia parlamentare, il terreno ove un soggetto politico dato si qualifica e si delimita da tutti gli altri, l'occasione per presentare ai cittadini la propria visione della società e del mondo. Ove ci sia concordanza ben venga una coalizione elettorale. In caso contrario sarebbe forse meglio attenersi alla massima leniniana riguardo alla tattica dei fronti unitari: "colpire uniti, marciare separati".
Moreno Pasquinelli
Grazie Moreno.
EliminaUna nota nel merito sostanziale dei rispettivi contributi: il senso dell'articolo pare essere altro rispetto a ciò che riassumi, e, proprio per il senso dello scritto stesso, ti inviterei, prima di pubblicare una risposta, a concentrarti sui contenuti reali di ciò che si è provato ad esprimere.
Partendo dal metodo: se la risposta, come dalle premesse che già esprimi in questa sede, non pare essere realmente pertinente coi contenuti che si son pubblicati, ci troviamo con l'evidente problema che si andrebbe a neutralizzare il sale dell'essere sociale: la dialettica.
Perché ci sia una utile e sinergica "sintesi" - in senso hegelo-marxiano - è necessario che l'antitesi in risposta sia ovviamente relazionata alla tesi sopra espressa. Altrimenti si genera ancora più confusione e falsa coscienza.
E qui sta il punto fondamentale del post: la coscienza.
(E per cui sono state linkate nei commenti le fonti documentali che certificano - non solo il monopolio della cultura - ma che anche la stessa stampa socialista nel dopoguerra è stata finanziata dal capitalismo liberale)
Un democratico cosciente - ossia un socialista ovvero un comunista - si muove "senza alternative" nel paradigma marxiano, dato - purtroppo - il non sequitur della strada cognitiva tracciata dal padre delle scienze sociali moderne.
Credo quindi converrai che non pare essere proprio "marxiano" il metodo per cui si ragiona di "prassi politica" in un contesto storico in cui mancano le basi teoriche minime che sottostanno alla lotta politica.
Manca coscienza. In senso assoluto.
La tradizione "scientifico-socialista" - ovvero democratico sostanziale - si muove nel paradigma per cui in primis è necessario lottare per generare antagonismo nella dialettica coscienziale, diffondendo prima coscienza nazionale (cfr. la prefazione di Engels nella traduzione italiana del Manifesto), quindi coscienza democratica e di classe. Tant'è che (prima di Husserl) nel XIX secolo i grandi teorici marxisti evidenziavano che « la teoria è già prassi »
Di che "politica" vogliamo parlare se non c'è un minimo di coscienza neanche nelle microminoranze che tentano un minimo di antagonismo culturale e informativo? in quel gruppo di persone che ha la responsabilità di opporre la vitale resistenza culturale?
EliminaDi che "politica" vogliamo discutere se le ideologie create dai pensatoi atlantici e che da decenni falsificano totalitaristicamente le coscienze, sono in primis contraffazione intellettuale diffusa da chi si richiama alla tradizione socialista che è stata l'asse portante dei CLN e della Carta del '48?
Vogliamo capire che questo non è il Sessantotto ma siamo in una vera manifestazione violenta dell'oppressione di classe?
Ciò che grazie soprattutto alla equilibrata e paziente esposizione di Francesco si vuole comunicare, è che lo sforzo minimo di chi ha passione civile e sociale, è quello di contribuire ALMENO a livello di coscienza, perché la situazione è disperata, ed è disperata per la sanguinosa violenza dell'oppressore, per la posizione oggettivamente vigliacca, collaborazionista ed arrogante del ceto accademico e dell'informazione, e per l'angosciosa INCOSCIENZA di chi potrebbe lottare.
Dove "marciamo", cosa si "colpisce" se manco riusciamo a scrollarci di dosso tutte quelle finte categorie ideologiche che non permettono neanche di capire cosa sia stato storicamente il fascismo? ovverosia non si conoscono nemmeno i capisaldi di ciò che è autenticamente stata l'esperienza antifascista che ha portato a progettare la democrazia codificata in Costituzione?
Tutte le forze politiche - ad esclusione del partito fascista che poteva vantare solo l'infiltrazione einaudiana - sono convenute sulla sovranità popolare tramite la socializzazione del potere economico e politico. Ossia imponendo "rigidamente" il keynesismo.
Se questa era coscienza comune nel '48 ad eccezione delle "quattro noci in un sacco" chiamate "liberali", ad ora è scomparsa.
Di questo c'è da discutere: discutere di Lenin fuori dalla Storia non solo è inutile. È diffondere incoscienza. È per definizione anti-marxiano.
Giusto per suggerirti di dare, prima di rispondere, un'altra lettura al post... :-)
In effetti, se la ricostruzione dei fatti e del pensiero che hanno storicamente segnato la nascita della nostra democrazia costituzionale sono definiti "ginnastica intellettualistica", la "proposta politica" non potrà che essere la reiterazione del proprio pensiero sperando che qualcun altro ci si adegui, senza chiedersi perché in precedenza ciò non si sia verificato: e quindi senza averne prima verificato l'aderenza alla situazione strutturale della società.
EliminaDefinire, ad esempio, ginnastica intellettualistica il pensiero di Basso sopra riportato da Francesco (ed è un esempio signficativo, per la sua agghiacciante attualità), - pensiero che conferma da vicino l'analisi del post- significa precludersi la strada dell'evoluzione cognitiva.
Lo dico con grande umiltà: respingere un modello come quello costituzionale, inteso come un unicum storico e politico (purtroppo), e, in pratica, considerarne l'interpretazione autentica più fervida, cioè quella di Basso, come praticamente irrilevante, ci condanna a ripetere un cammino in cui la "coscienza" diviene solo frutto di una costrizione esercitata da altri.
Il rischio concreto è che, pur di non rinunciare a stilemi e ideologie non verificate nella loro genesi, - assumendo anzi che siano "dati" pregiudiziali all'azione politica, validati...dal contrapporsi all'intellettualismo- ci si condanna ad attendere il "risveglio" che solo un estremo "stato di necessità", dichiarato dal potere oligarchico (che infatti lo sta già facendo), ci costringerà ad avere.
Si vede che "ci vuole più €uropa" non è ancora abbastanza: e che il totalitarismo (che nella fase delle società capitaliste si è finora manifestato solo come liberismo, con la sua tendenza ad impadronirsi dello "Stato", per via nazionale o, oggi, sovranazionale), non ha ancora abbastanza agito nella condizione materiale di tanti.
D'altra parte, la Grecia dimostra questo fenomeno di dissonanza cognitiva paralizzante: non si adegua nè il proprio sistema cognitivo (limitandosi a prendersela con l'austerità e magari cercando la soluzione della doppia moneta!) né il proprio comportamento (cercandosi solo un altro sostituto di..Tsipras cui affidare il proprio voto contro...l'austerità).
Speriamo solo che in Italia non si giunga a questa medesima impasse autodistruttiva.
Comunque, temo che lo vedremo presto...
Gentile Moreno,
EliminaNon ho bene inteso quale “implicito” contenga il contributo mio e di Bazaar, dal momento che esso tenta una descrizione fenomenologica - secondo la più matura visione marxiana al cui confronto lo scrivente è solo un nano - di cosa sia stato il fascismo storico nei suoi caratteri essenziali e di come gli stessi caratteri si ripresentino oggi in forme mutate, dato lo sviluppo del capitalismo. Non c’è nulla di implicito, ma semmai di estremamente esplicito, solo che si voglia afferrare detta descrizione, come mi pare purtroppo ancora oggi non accada.
Perciò, al riguardo:
(1) Credo che gli elementi strutturali del fascismo storico siano stati chiaramente indicati e definiti in termini fenomenologici, perciò credo sia inutile ripeterli. Se è così, è del tutto impossibile confondere tra élite mondialiste e “certi populismi” che si accusano a vicenda giocando sulla mancanza di coscienza del fenomeno.
I ruoli sono segnati e definiti e, anche solo ventilare il contrario, sarebbe come scambiare la causa con l’effetto, la vittima con il carnefice. Esistono gli oppressori e gli oppressi; per quanto mi riguarda, gli oppressori sono incarnati dalle oligarchie eurocratiche il cui manifesto è rappresentato, e nemmeno in modo velato, dai trattati ordoliberisti; le masse pauperizzate sono la vittima (anche se non lo sanno), non il fascismo. Punto.
Perciò - e lo dico senza alcun abito di superbia – credo che sia un grave errore accomunare in un sol “fascio” l’ordoliberismo, Front National e Salvini. Non ho ben compreso le motivazioni di questa affermazione non strutturata, priva di riscontri fenomenologici che non siano slogan importati e, in definitiva, riflesso di un ideologismo. Questo sì, quindi, una generalizzazione politicamente fuorviante.
Il senso del contributo era un richiamo alla coscienza e ad un chiarimento di idee. Non si trattava certo di una polemica fine a sé stessa, poiché qui nessuno ha tempo da perdere. (segue)
(2) Non si tratta poi di un esercizio di esclusione o inclusione (e non mi pare che lo scrivente o Bazaar abbiano, nemmeno implicitamente, dato adito ad un tale sentore) di pensatori socialisti e democratici, Luxemburg piuttosto che Gramsci o Lenin. Non si va a simpatie o antipatie quando si combatte una battaglia impari e complessa come quella che ci troviamo a sostenere. Si tratta, piuttosto, di recuperare il meglio della dottrina marxiana, ma con la consapevolezza che quest’ultima – nei suoi principi fondanti - deve essere adattato alle contingenze storiche. Il marxismo è un insieme organico di principi, di metodi, di analisi, di criteri di interpretazione, di direttive strategiche che permane del tutto valido, nei suoi tratti essenziali, ma che deve essere di volta in volta applicato alla realtà storica in movimento. In ogni caso (ma evidentemente è un mio limite) non ho afferrato in quale passaggio e, soprattutto, in relazione a quale specifico proposito (sostanziale e metodologico) il pensiero di Rosa Luxemburg sarebbe stato escluso da me e Bazaar nell’ambito del contributo.
Elimina(3) Vengo al “merito”, rifuggendo da ogni “astrattismo”, riallacciandomi a quanto detto poc’anzi nonché a ciò che ha correttamente argomentato, per l’ennesima volta, Bazaar, con qualche postilla.
Per Marx la rivoluzione socialista-democratica non è qualche cosa che possa essere preparata in modo arbitrario, prescindendo dall’insieme dello sviluppo, ma è un momento interno a questo sviluppo: tutte le rivoluzioni sono momenti salienti di un processo di trasformazione della società iniziato molto prima e destinato a continuare, si sostanziano cioè nell’opera di forze sociali che hanno agito lentamente in seno alle strutture della società e ai rapporti sociali, prima di deflagrare. Da ciò l’interesse di Marx per la marcia sotterranea dei processi storici, per l’azione di “talpa” della rivoluzione che purtroppo ignorano molti pretesi marxisti.
Per spostare il discorso proprio sul terreno politico, il problema da porsi in primo luogo è quello se sia possibile la creazione di una forza (partito o movimento che dir si voglia) che sia lo strumento di una politica democratico-costituzionale, cioè di una politica socialista organizzata che si ponga come alternativa all’ordine esistente in nome dei principi costituzionali. Ciò è possibile oggi in Italia? La risposta da dare, personalmente, mi sembra purtroppo negativa, soprattutto a breve termine, se rapportata alle prossime elezioni.
Il problema è che la struttura tradizionale dei partiti si è formata soprattutto sulle esigenze elettorali, che i partiti si sono costituiti e organizzati in generale come strumenti elettorali. In un secondo tempo si è introdotto un apparato interno che ha inaridito le fonti della vita democratica, e ha maggiormente contribuito a plasmare il partito come una macchina pronta a scattare a comando in determinate occasioni, appunto quelle elettorali, ma con un più basso livello di coscienza. (segue)
In circostanze completamente diverse, come sappiamo, Lenin tratteggiò la sua dottrina del partito e del “centralismo democratico”, alla quale Rosa Luxemburg mosse delle critiche. Ponendo mente a a quella polemica, non si può negare che il partito come Lenin allora lo concepiva era certamente uno strumento adatto alla situazione storica in cui il partito socialdemocratico russo era chiamato ad operare (fu questa la risposta di Lenin alle critiche della Luxemburg), una società con un’immensa maggioranza di contadini analfabeti e con la stessa classe operaia tenuta ai margini.
EliminaScordiamoci quindi, a meri fini elettorali, un’alleanza con “centralismo democratico” in salsa moderna, con semplice richiamo ai principi costituzionali (a meno che domani non scoppi qualcosa di analogo ad una rivoluzione russa anche in Italia). Nell’ambito di una società complessa come quella a capitalismo maturo, l’idea allo stato è però anacronistica, non ne sussistono le condizioni storiche e, elemento da non sottovalutare, nemmeno il tempo.
Ed infatti, una vera forza socialista e quindi democratica-costituzionale (di cui non saprei individuare le forme organizzative, anche perché proprio Rosa Luxemburg ci insegna che l’organizzazione è figlia della lotta, piuttosto che il contrario), perché possa modificare le strutture, deve mettersi in testa che deve uscire dalla routine quotidiana delle campagne elettorali, e ricominciare a essere militante, con assegnazione di compiti concreti di studio, di ricerca, di propaganda ad ogni appartenente, deve incontrare le persone reali, inserirsi in tutti i campi di attività, di lavoro, far affrontare a quella gente i problemi reali da cui dipende la vita del Paese, far prendere in mano di quella gente la loro vita. E man mano che si crea coscienza, bisognerà trovare altre forme appropriate sempre nuove che siano agili e capaci di tenere il passo con il ritmo della vita contemporanea. Era questo il senso del partito così come inteso da Basso (che formulò anche l’art. 49 Cost.).
Insomma, bisogna creare innanzi tutto coscienza nella lotta, in un continuo movimento dialettico. Senza coscienza non può esserci democrazia, ma perenne eterodirezione (il brano di Basso che ho riportato dovrebbe suggerire qualcosa). Ma quello che ho descritto è un lavoro enorme, che durerà decenni considerate le condizioni neuronali degli italici (d’altronde Marx non pensava che il socialismo si sarebbe affermato in una settimana), a meno che non si volgia ingenuamente ritenere che la maggioranza degli italiani sappia cosa prevede veramente (sottolineo veramente) la Costituzione italiana e si renda conto veramente di quello che sta succedendo. Pensare oggi ad una alleanza anti-oligarchica e anti-liberista è utopistico, la negazione della dottrina socialista e democratica di Marx. (segue)
Se mi sono fatto intendere (in quello che è il vero implicito, se non addirittura ovvio, che si dovrebbe addebitare a me e a Bazaar), il tema del post era però un pò diverso e si articola nei seguenti elementari passaggi: versiamo in una situazione disperata, di coscienza nemmeno l’ombra, la dittatura del proletariato (cioè la massima forma di democrazia ex art. 3, comma II, Cost.) non si sa cosa sia, e cosa facciamo? Tacciamo di fascismo quelle sparute forze politiche che si oppongono al vero fascismo €urista!
EliminaTutto ciò, e lo rivendico con forza, è autolesionistico e controproducente proprio in considerazione del momento eccezionale. Per come la vedo io, gli schieramenti politici, salvo alleanze dell’ultima ora, sono già fatte e non servono - per quanto detto - altre armate Brancaleone. Ciò che concretamente possiamo fare in un momento drammatico ed eccezionale come questo è semmai quello di contribuire - nel nostro piccolo e con i nostri limiti – è cercare di portare coscienza in tutti i modi (ben venga anche la meritoria Confederazione per la Liberazione nazionale), appoggiando quelle forze sovraniste che – seppure non incarnino ancora e pienamente il nostro ideale di società – però proprio alla Costituzione dichiarano di richiamarsi.
Ciò che non ci è concesso è creare ulteriore confusione e mistificazioni del reale
« la dittatura del proletariato [...] cioè la massima forma di democrazia »
EliminaQui magari chiederei supporto filologico ad Arturo.
Ho insistito molto sui contenuti socialisti in senso marxiano della Carta perché consapevole di dialogare con un comunista: in particolare proprio in forza del secondo comma del terzo articolo, in quanto viene unanimamente accolta da tutte le forze politiche la massima rivendicazione socialista di genesi marxiana: ossia la realizzazione di una democrazia politica effettiva basata sulla giustizia distributiva.
Ma la "dittatura del proletariato" la considererei "massima forma" di coscienza democratica di una parte della classe lavoratrice. Questa era hegelianamente teorizzata in forma transitoria come antitesi alla dittatura borghese ovvero, alla "democrazia liberale".
L'Aufhebung sarebbe dovuta appunto essere la "società comunista".
Ma la "dittatura del proletario" - che era poi l'obiettivo del leninismo - implica una costituzione monoclasse: la democrazia sociale del nostro dettato auspica alla giustizia distributiva tramite un percorso coscienziale, politico e strutturale che prevede un assetto "pluriclasse".
Ma mi rimetto ai filologi...
(La dialettica, con i suoi riscontri empirici è - in re ipsa - processo di autocoscienza)
Non c'è dubbio: la dittatura del proletariato ha senso in contrapposizione alla fase del capitalismo di impadronimento (predicato come "naturalistico" e quindi come irreversibile) dello Stato da parte delle esclusive forze del mercato (se queste siano poi assunte in termini internazionalistici, significa sostanzialmente, "anche" desovranizzazione, cioè perdita di indipendenza di uno Stato comunque monoclasse).
EliminaSi può senz'altro affermare che la nostra Costituzione abbia prefigurato un processo di democratizzazione, basato sulla eguaglianza sostanziale e sulla redistribuzione ex ante, che dovrebbe condurre al risultato di dissolvere il concetto stesso di proletariato.
La mobilità sociale implica di per sè quello che Rescigno denominava "programma di avvicendamento delle classi sociali" nella titolarità della proprietà e, dunque, anche nella collocabilità di ciascun cittadino tra le fasce e, più ancor, le "tipologie" di reddito; un programma (tendenzialmente) risolutivo del conflitto di classe che uno Stato keynesianamente ordinato sull'economia di mercato soggetta alla clausola-limite dell'utilità sociale, dovrebbe realizzare.
Grazie per la focalizzazione di questo punto importantissimo che è, molto spesso, eluso da un'idea statica, o nostalgico-retrospettiva, dello stesso pensiero marxiano...
Eccomi :-): occorre distinguere molto attentamente il significato che l’espressione “dittatura del proletariato” aveva per Marx (ed Engels: su questo non c’è differenza fra i due) e il suo impiego nella storia del marxismo. Draper ha dedicato due libri densissimi all’argomento (tra l’altro con risultati apprezzati anche da Basso), e allora vediamo di chiarire il punto: Marx usa l’espressione “dittatura del proletariato” non per indicare l'impiego di metodi "dittatoriali", ma semplicemente la composizione di classe del governo, ossia per sottrarre l’impiego di “dittatura” ai blanquisti, *rovesciandone* il senso (Draper, The Dictatorship of the Proletariat from Marx to Lenin, Monthly Review Press, N.Y., 1987, pagg. 25-6): “The same hypothesis explains why the term makes its appearance inconnection with the Blanquists but not by the Blanquists. Ordinarily Marx’s term for the idea would be, as we have seen, ‘rule of the proletariat,’ ‘political power of the working class,’ etc. But when it is a question of counterposing this class concept to the Blanquist-type dictatorship, it is dressed in the formula class dictatorship. Class dictatorship is then counterposed to Blanquist dictatorship, to make the contrast.”
Elimina“To understand this, the reader must put aside the modem aura that makes ‘dictatorship' a dirty word for us; for this aura did not yet exist.
How do you counteract the primitive notion of dictatorship that was so common precisely among the people who wanted to be good revolutionaries? You tell them: Dictatorship? That means rule. Yes, we want the rule of the proletariat; but that does not mean the rule of a man or a clique or a band or a party; it means the rule of a class. Class rule means class dictatorship.
This is how the term came from Marxs pen in 1850: an instrument in the re-education of the Blanquist and Jacobin-revolutionary cur¬rents around Marx's own circle. The marxological myth which had ‘dictatorship of the proletariat' pegged as a “Blanquist” idea had history turned upside-down. ‘Dictatorship of the proletariat’ came into existence as an attempt to show would-be revolutionaries that there was another way of being revolutionary, Marx’s way.
This understood, we can restate our basic thesis on the meaning of the term to Marx. For Marx and Engels, from beginning to end of their careers and without exception, ‘dictatorship of the proletariat’ meant nothing more and nothing less than ‘rule of the proletariat’— the ‘conquest of political power by the working class’, the establishment of a workers’ state in the immediate postrevolutionary period.”
L’espressione, a partire già da Plekhanov!, subisce in effetti uno slittamento, anzi: un rovesciamento (qui ci sarebbero lunghi perché e per come su cui sorvolo), e quindi un ritorno al suo significato blanquista, che era esattamente quello che Marx intendeva rifiutare (Ibid., pag. 92): “Thus the entire concept of a class dictatorship, whether of one or two classes, has been argued away by dint of a “scientific" definition, and replaced with the concept of an ad-hoc “dictatorship" wielded by the “revolutionary people”—a concept which Lenin’s detailed example has made into a dictatorship wielded by revolutionary activists. This category obviously stands for the revolutionary party.
The entire construct has led to the transmogrification of the class dictatorship into a party dictatorship. Which was exactly what the traditional ‘revolutionary dictatorship’ had always meant to the movement before Marx: Q.E.D.”
C’è un altro mito da sfatare, che è quello che vorrebbe tale dittatura esercitata da un’unica classe (qui, bisogna dire, anche il Manifesto non aiuta). In realtà non è così: Marx ed Engels non hanno mai escluso, anzi: l’hanno fatto solo nel Manifesto, che la rivoluzione possa essere realizzata dai lavoratori in alleanza con altre classi. Ancora Draper (Karl Marx’s Theory of Revolution, vol. II, Monthly Review Press, N.Y., 1978, pag. 39): “The proletarian revolution depends not on the proletariat alone, but on the hegemony of the proletariat among the revolutionary forces.
EliminaA one-sided dogmatization of this Manifesto aphorism was turned by the Lassallean movement into the watchword that, relative to the working class, “all other classes are only one reactionary mass.” Both Marx and Engels ridiculed this apparently “radical” assertion and denounced it as politically reactionary. It meant the defeat of revolution by excluding allies.”
Tali alleati erano la piccola borghesia e i contadini (Ibid., pagg. 199 e 200): “While the Manifesto was laconic and noncommittal on the immediate political program in the leading countries, this subject required concrete attention as soon as the revolution broke out. When Berlin erupted on March 18, Marx, Engels, and a Communist League group were in Paris, and drew up the flysheet of demands in preparation for activity in Germany. These seventeen demands constituted an adaptation of the ten-point program suggested in the Manifesto as the first steps of proletarian rule. Besides the fact that proletarian rule was not yet here, that ten-point list had been abstractly drafted for disparate countries, and before the onset of a directly revolutionary situation. The new list of seventeen “Demands” is specifically directed to Germany, and is tailored to the uncertain circumstances that obtained at the end of March.”
“Finally, the Demands definitely dropped the Manifesto’s view of the petty-bourgeoisie as counterrevolutionary; rather, it includes this class in the united front of potentially revolutionary forces.- “It is to the interest of the German proletariat, the petty-bourgeoisie and the small peasantry to support these demands with all possible energy.” This united front pointedly excludes the bourgeoisie itself. In other words, on this issue it turned out that the view embodied in the Manifesto was a temporary aberration. From this time on, it was the conception developed by Engels that became the joint view of the partnership.”
(La concezione di Engels a cui si riferisce era stata sviluppata nelle bozze preliminari del Manifesto).
Sono due punti di una certa importanza su cui, per obiettive ragioni storiche, c’è molta confusione.
Ovviamente la rivoluzione non avrebbe, in teoria, lo scopo di garantire il dominio di una classe sull’altra, ma di far sparire le classi; questo è ben lungi dall’essersi realizzato in URSS (lascio di nuovo completamente da parte ogni perché e per come), dove le classi sono cambiate ma non sparite e la nuova classe egemone, la burocrazia, ha continuato a sfruttare il resto della società, se pure non in forma capitalistica.
EliminaSemmai potremmo concentrarci sullo scopo istituzionale della dittatura del proletariato: rompere la separazione fra Stato e società civile e far entrare le contraddizioni della seconda, in tutta la loro ricchezza (mi riferisco, per esempio, all’autonomismo, che è cosa ben diversa dal federalismo), nel primo. A me pare evidente che concezioni come la socializzazione del potere e la strumentalità dello Stato all’esercizio della sovranità popolare, di cui abbiamo ripetutamente parlato in riferimento alla nostra Costituzione, non sono immaginabili senza avere alle spalle questo aspetto dell’elaborazione marxiana.
Rimane la questione sollevata da Quarantotto, cioè se è effettivamente possibile che lo Stato continui a farsi carico costruttivamente di queste contraddizioni attraverso gli strumenti keynesiani. In caso contrario, dovremmo cercare di stabilire perché: se si stratta di cause strutturali inerenti al modo di produzione capitalistica, non rimuovibili senza fuoriuscire da quest’ultimo, dovremmo in effetti far rientrare in campo Marx; se si tratta di una impasse politica, difficile finché si vuole ma almeno teoricamente superabile senza abolire la proprietà privata sui mezzi di produzione e il mercato, dovremmo piuttosto, senza abbandonare Keynes, affiancargli Kalecki (posto non lo avessimo fatto comunque…;-)) e anche certi sviluppi dell’ultimo Marx. Neanche abbordo il tema e mi fermo qui. ;-)
Beh dai, l'affiancamento di Kalecky, in questa sede, è fondativo.
EliminaSu molti aspetti, ti rinvio alla sottostante risposta data al secondo "commentone" di Francesco.
Per l'interrogativo finale, come ho già anticipato: non è possibile dirlo. Lo ribadisco anche nella citata risposta a Francesco.
Probabilmente avremmo bisogno di...vite lunghissime (e di un distacco interiore dalle lotte politiche contingenti che è il vero segno della intuizione fenomenologica :-)).
Ho letto e allora ne aggiungo ancora un pezzettino a cui ho accennato più volte: le ricerche dell'ultimo Marx si stavano indirizzando a considerare lo Stato parte della struttura, grazie al ruolo riconosciuto al credito e alle banche centrali. Qui sta un punto abbastanza fondamentale, mi pare.
EliminaFammi citare Heinrich, che conosce Marx bene come pochi (“national bank” vuol dire “banca centrale”): "So Marx is still in the middle of the process of research and theory-building that must come before the presentation. In fact, at the end of the 1870s, Marx was confronted with a new type of crisis: a stagnation lasting for years, which is distinguished sharply from the rapid, conjunctural up and down movement which he had hitherto known. In this context, Marx’s attention is drawn to the now internationally important role of the national banks, which have a considerable influence upon the course of the crisis. The observations reported by Marx make clear that a systematic treatment of crisis theory is not possible on the immediate basis of the law of the tendential fall in the rate of profit (as suggested by Engels’s edition of the third volume of Capital), but rather only after a presentation of interest-bearing capital and credit. However, if the national banks play such an important role, then it is very doubtful whether the credit system can be categorically presented while excluding an analysis of the state.”
Quanto cambi i termini dell’analisi è difficile dirlo con precisione perché la riflessione è incompiuta (se vogliamo consolarci dell’incertezza, in un bel passo da una lettera di quegli anni Marx spiegava così l’impossibilità di completare il Capitale: “It is therefore necessary to watch the present course of things until their maturity before you can ‘consume’ them ‘productively,’ I mean ‘theoretically’.”, MECW, vol. 45, pag. 354), ma non c’è dubbio che la *cambi*. (Che poi il Marx "politico" a volte a me pare più avanzato di quello economico...)
Toccherà tenersi una pluralità di strumenti nella cassetta degli attrezzi, anche se sul piano pratico, almeno per parecchio tempo, non mi pare faccia tutta questa differenza, come hanno detto Barba e Pivetti in un passo che condivido toto corde: “Ora, a prescindere dall’effettivo operare delle forze che determinerebbero la caduta del saggio di profitto (come pure delle controforze, che nei Trenta pietosi avrebbero in ogni caso dominato), le ragioni dell’avversione alle politiche keynesiane potrebbero essere comprese qualora il «ritorno alle politiche del passato» agisse come fattore di depotenziamento del fronte del lavoro nel conflitto di classe. Se, viceversa, ci si convincesse che una forte azione di controllo e regolazione del capitalismo opera nel senso di rafforzare, non di indebolire, il fronte del lavoro, le ragioni di quest’avversione svanirebbero. La critica alle politiche economiche orientate al buon funzionamento del capitalismo, in altri termini, ha un significato politico chiaro soltanto in una fase molto avanzata del conflitto di classe e delle conquiste dei salariati. In una fase come quella attuale, appaiono piuttosto come una forma di pensiero dal contenuto giustificazionista, che finisce di fatto per rafforzare il fianco della conservazione.”
EliminaTemo che Barba e Pivetti pecchino di...ingenuità nell'evidenziare una contraddizione collegandola ad un'attribuzione di coerenza: cioè spiegandola con un processo cognitivo in cui la saldezza del perseguimento degli obiettivi sarebbe stata "solo" deviata da un'erronea constatazione retrospettiva degli effetti dello Stato sociale.
EliminaNon fu l'adozione del modello keynesiano in Costituzione a costringere la sinistra comunista a rifugiarsi nell'ortodossia formale a un marxismo-leninismo statico, che Marx non avrebbe condiviso.
Nè questa stessa adozione fu causa del subitaneo irrompere sulla scena del Quarto Partito.
Quest'ultimo evento, dovuto ad autonome e mai abbandonate aspirazioni revanchiste, in un certo senso agevolò l'attaccamento a quell'idea storicamente rigida.
Era una via agevole, la più facile, proprio per sopravvivere e perpetuarsi, potendo alimentare l'autoconservazione di un'organizzazione che, diversamente, avrebbe dovuto fare i conti col venir meno della sua ragion d'essere o con un profondo auto-ripensamento, ove avesse affiancato la lotta per l'attuazione immediata del modello costituzionale.
A un certo punto, è rimasta solo la spinta all'autoconservazione dell'organizzazione, e gli obiettivi sono stati mantenuti solo come posticcie giustificazioni dell'aver abbracciato, solo a fini autoconservativi, l'ordine internazionale del mercato.
Quanto segnalato da Bazaar è corretto. Io ho utilizzato l'equivalenza per significare la massima forma di democrazia prevista attualmente in Costituzione, che rimane giustamente pluriclasse.
RispondiEliminaIn senso marxiano, dittatura del proletariato è intesa come governo democratico di tutti i lavoratori nell’interesse dei lavoratori per la soppressione delle classi e presuppone un proletariato altamente sviluppato maturo e cosciente, capace di assolvere direttamente alle più importanti funzioni.
Grazie Bazaar
Franci, attento che Bazaar, se gli dici così, ti obietterà (scherzo: lo faccio direttamente io :-)), che sono proprio la soppressione delle classi e il proletariato altamente sviluppato e maturo come titolare del potere istituzional-politico, che fuoriescono dal modello dell'art.3, cpv.
EliminaUna democrazia monoclasse, cioè una pienezza dei diritti politici lasciata solo alla classe proletaria, non può che evolvere in effetti in una dittatura statica e autoconservatrice.
In pratica, si avrebbe un vincolo a politiche che conservino la condizione di proletario (cioè di mero lavoratore a cui è dato un limitatissimo accesso alla proprietà e un programmatico status FINALE della sua condizione socio-economica); se così non fosse, il fondamento di legittimità del potere costituito verrebbe meno non appena la distribuzione della ricchezza ponesse una maggioranza in grado di fuoriuscire da questo status (finale e legittimante).
Ed è un'opzione possibile: basta che la proprietà dei mezzi di produzione, cioè di quelli la cui titolarità muterebbe lo status di proletario, sia esclusa come regola fondante costituzionale.
Ma non è questa la concezione accolta nella nostra Costituzione: e il motivo sta proprio nel...potere Costituente.
Cioè nella storica possibilità, che fu concessa (in quelle peculiari circostanze e in funzione degli antecedenti storico-politici ben compresi dai Costituenti), di abolire lo Stato monoclasse borghese senza per questo cristallizzare il dominio di una o l'altra classe sociale: ma non per astratto idealismo utopico, quanto piuttosto per la consapevole conoscenza del mutamento POSSIBILE delle condizioni della produzione, introducibile per via di norme che configurano diritti sociali "universali" (grazie alle teorie di Keynes, Kaldor, Beveridge, come spiegatoci da Caffè), che si poteva finalmente realizzare.
In sostanza, torniamo alla deduzione di Bazaar per cui, se Marx fosse stato vivo nella prima metà del '900, sarebbe stato, con ogni probabilità, keynesiano; proprio perché nella sua metodologia è già contenuta la predisposizione ad assumere come valide diverse ipotesi di struttura dei rapporti di produzione, come sintesi cosciente del conflitto sociale.
EliminaLa sua diagnosi, infatti, era dialettica "rebus sic stantibus" ("olim stantibus"): cioè basata sulla ricognizione che la proiezione politico-istituzionale della struttura, lo Stato monoclasse borghese, non fosse cedevole e fosse illimitatamente rigido.
Ma si può dire anche che fu lo stesso diffondersi del suo metodo e della sua prassi politica che pose le basi per una insospettabile cedevolezza e propensione compromissoria.
(Se ci pensi, fu proprio per arrestare questa tendenza alla cedevolezza che un ultimo tentativo di estrema restaurazione dei rapporti di forza, in danno del lavoro, fu tentato coi vari fascismi; Einaudi ne è proprio il più diretto "interprete autentico"!).
Certo; una volta appresa la "flessibilità" autoconservativa, i liberisti avevano simultaneamente appreso anche un metodo per riproporsi in nuove forme e per tornare alla carica non appena possibile.
Il loro problema è che non si rendono mai conto che ricreando il proletariato, - cioè riaccentrando la proprietà a danno di tutte le altre classi sociali "intermedie" nel frattempo createsi nella logica del "fare concessioni" (sempre con la riserva mentale di riprendersele-), ritornano costantemente al punto di massima conflittualità storicamente possibile.
In un certo senso, se assumessimo come irreversibile questo momento di restaurazione accelerato, Marx avrebbe di nuovo ragione e Keynes, e i costituenti, sarebbero loro ad essere superati: se non altro per l'ostracismo culturale cui sono oggi soggetti.
Ma credo che la dialettica storica dimostri che la sintesi del "conflitto", ripetendosi esso stesso ma in diverse condizioni strutturali (diverse quantomeno rispetto alla condizione della Russia affrontata da Lenin), può condurre a diverse soluzioni.
La "costrizione" alla rivoluzione e alla instaurazione della dittatura del proletariato è una di queste: ma dovremmo postulare una rottura definitiva e IRRIMEDIABILE dell'ordinamento costituzionale che comunque costituisce una diversa sintesi isolutiva del conflitto.
Allo stato, è più facile il ripristino del modello costituzionale (utile per inutile non vitiatur): ma se le cose procederanno ancora in questa direzione, non si può escludere che lo si debba abbandonare...
Effettivamente il pretesto per la riflessione era di carattere filologico: al di là del senso "storico-metafisico" della necessità storica o meno della "dittatura del proletariato" nelle varie evoluzioni del pensiero marxiano, e distinguendola dall'esperienza storica leninista che fu un tentativo di accelerarne l'avvento tramite i "consigli di fabbrica", di cui gli esiti autoritari e burocratizzanti furono previsti ben prima tanto dalla Luxemburg quanto da Bakunin, ma considerati di fatto inevitabili da Lenin, il punto era considerare "proletariato" solo gli operai "coscienti" oppure *tutti* i lavoratori come intende Francesco.
EliminaIn URSS un operaio metalmeccanico ha sempre guadagnato di più di un medico.
Certo è che se per proletariato si intende lavoratori coscienti al di là del particolare contesto storico (l'Inghilterra dell'800), allora, come dice Francesco democrazia sostanziale e dittatura dei lavoratori coscienti sarebbero la medesima cosa.
Vorrei solo fare ancora una piccola osservazione: Lenin stesso riconobbe ripetutamente l'eccezionalità delle condizioni che avevano consentito la rivoluzione in Russia (per esempio qui) e quindi la non meccanica esportabilità in occidente del modello bolscevico. Gramsci si consumò in carcere cercando di chiarire i termini di questa differenza e di elaborare una strategia adatta all'Europa occidentale e in particolare all'Italia. La proposta operativa a cui pervenne, e a cui si mantenne sempre fedele, nonostante l'isolamento che questo gli costò fra i compagni di prigionia nei difficili anni del social-fascismo, fu...una Costituente. Ricordiamocelo.
Elimina"Piccola" non direi...fenomenologicamente essenziale, piuttosto :-)
EliminaLa forza degli eventi costringe a schierarsi contro l’euro e le sue conseguenze anche dirigenze riluttanti nella difesa dei principi fondamentali della Costituzione ,pena la perdita di gran parte del consenso raggiunto. Mi riferisco alla formazione che ho votato che esprime,anche se con dimensioni più vaste, come la Lega ,l’ insofferenza di tanti elettori verso la sterilizzazione della democrazia ridotta alla celebrazione del rito elettorale nella modalità idraulico -sondaggistica. Come per la Lega ,enorme è l’ attrazione per il conflitto sub sezionale ,che distrae dal conflitto distributivo ,che,se nel caso della Lega è l’ immigrazione, in questo caso è l’ assolutizzazione della “corrruzzzione”che ha presa perché in modo “semplice”(per non dire sempliciotto)spiega la “cattura “dell’ partito ex comunista che da difensore della democrazia lavorista è diventato il maggior promotore del consenso al nuovo gold standard. Purtroppo coloro che vogliono ripristinare una democrazia basata sull’ uguaglianza sostanziale hanno contro l’ attuazione consolidata da decenni, d’ una strategia elaborata da menti raffinate e supportata da grandi mezzi,che prevede anche come distrarre i residui avversari soffiando sul fuoco dei sub conflitti sezionali propagandolo attraverso i media controllati. Possiamo solo con tenacia far presente che l’ unica soluzione alla condizione che affligge la nostra comunità sia il recupero della democrazia fondata sul lavoro e della realizzazione della Costituzione.Per rendere quanto sia grande la necessità di un ritorno ad un effettivo diritto ad una retribuzione atta a dare una vita dignitosa.Grazie alla deflazione salariale molti ,poor worker,si devono cercare un “lavoretto”per arrivare poco oltre alla terza settimana del mese,aggravando la competizione con i disoccupati .Ma non c' è problema: subito si trova qualcosa:basta scaricare una app.per fare rilevazioni di mercato con Bemyeye,pagate 5 euro a prestazione e si gode così anche le delizie della “sharing economy”facendo di nascosto delle foto nei supermercati(quelli dell’ app li chiamano “store”) e compilando report sul comportamento dei commessi agendo da “mistery shopper”: cioè facendo la spia o giù di lì.Ho ,forse un po’ il pallino per questa cosa della “sharing economy”,ma da ciò viene fuori un futuro veramente inquietante di solitudine ,per la frantumazione della comunità in individui in feroce competizione,e difficoltà.
RispondiEliminaMi stavo arrovellando per capire se la soppressione delle classi e il proletariato altamente sviluppato e maturo come titolare del potere istituzional-politico fuoriescano davvero dal modello dell'art. 3, cpv. e se una “democrazia monoclasse” possa evolvere in in una dittatura statica e autoconservatrice. L’obiezione è davvero forte e Lei pone un problema da far tremare le vene e i polsi.
RispondiEliminaIl socialismo si basa sul superamento dell’uguaglianza formale dell’umanesimo borghese (che è individualismo), e si caratterizza per l’uguaglianza sostanziale dell’uomo reale come essere sociale e solidale, l’uomo che deve essere liberato dai propri bisogni che ne impediscono “il pieno sviluppo” (art. 3 Cost.).
In tal senso – e sperando di riuscire a venir incontro alla richiesta filologica di Bazaar – Marx nel Manifesto descrive questa nuova società come quella in cui “… il libero sviluppo di ciascuno è la condizione per il libero sviluppo di tutti …”; nelle pagine dei Grundrisse continua affermando che “la libera individualità, fondata sullo sviluppo universale degli individui e sulla subordinazione della loro proprietà collettiva, sociale, quale loro patrimonio, costituisce il terzo stadio…” (cioè la società post-capitalistica) ed ancora nel Capitale descrive questa “più evoluta forma sociale” come quella “…il cui principio fondamentale sia lo sviluppo pieno e libero di ogni individuo…”[K. MARX, Il Capitale, Newton Editori, 2016, 429-430].
In definitiva, per Marx il socialismo si realizza quando “… l’uomo socializzato, cioè i produttori associati, regolano razionalmente questo loro ricambio organico con la natura ... eseguono il loro compito ... nelle condizioni più adeguate alla loro natura umana e più degne di essa. ... Al di là di esso comincia lo sviluppo delle capacità umane, che è fine a se stesso …” [K. MARX, Il Capitale, cit., 1468]. (Segue)
Gli aspetti sui quali Marx insiste maggiormente sono, quindi, il pieno e libero sviluppo di ciascuno (“il pieno sviluppo della personalità umana”), ottenuto mediante la proprietà comune di beni e la cosciente e solidale programmazione del proprio futuro. Solo una società del genere consente per Marx il pieno dispiegamento della natura umana, e ciò che caratterizza per Marx la personalità natura umana è il lavoro come processo di creazione. A me pare che il collegamento con l’art. 3, comma II, Cost., sia abbastanza evidente, soprattutto se si considera chi è stato il Padre Costituente che ha voluto fortemente che quella norma fosse inserita in Costituzione:
RispondiElimina“… la società socialista è una società che permette a ciascuno di essere veramente se stesso, con le sue caratteristiche personali, una società che sviluppa anzi le disuguaglianze fra uomo e uomo, non nel senso di aumentare le distanze quantitative, ma nel senso di mettere ciascuno in condizione di sviluppare le possibilità infinitamente ricche che sono racchiuse in ogni uomo, una società che non si contrappone più ai suoi membri e che non pone l’accento sul collettivo a detrimento dell’individuale, ma che considera ogni uomo come un collaboratore dell’opera comune e ne stimola pertanto la capacità personale e lo spirito di iniziativa, una società insomma che si sente più ricca anche spiritualmente quanto più ricca è la personalità di ciascuno. È chiaro che questo è possibile solo perché la società socialista ha distrutto l’oppressione di classe e ha creato un vincolo solidale fra i suoi membri, perché ha riconosciuto il carattere sociale, cioè adeguando le forme della società alle forze che in essa si esprimono, perché di conseguenza essa non ha più bisogno di una apparenza giuridico-formale nella quale dissolvere le contraddizioni del mondo reale che essa ha invece risolto e soppresso fin dalle loro fondamenta, l’esistenza di classi antagonistiche…” [L. BASSO, L’uomo nuovo nella società socialista, in Quarto Stato, 1-15 novembre 1949, n. 20/21, 3-32]. (segue)
Però Basso parla di "oppressione di classe" e di "classi antagoniste", non di abolizione del concetto di classe, che ha un'accezione descrittiva e economico-statistica non necessariamente conflittuale, specie nel contesto della democrazia sostanziale.
EliminaNel tuo primo intervento, poi, l'evidenza è che Marx assumesse un pieno e libero sviluppo della persona come stadio di approdo.
Chi potrebbe negare tale obiettivo, che in senso logico ha una dimensione filosofico-esistenziale che presuppone la liberazione dal bisogno?
Il punto è: che fine fanno le classi una volta che sia superato il loro conflitto? Esistono ancora o lo Stato che "rimuove gli ostacoli" ne deve compiere una rimozione autoritativa? Questa è la scelta del leninismo, obbligata in quelle circostanze.
E forse una necessità permanente, allo stato dell'evoluzione restaurativa che stiamo registrando attualmente.
Parlo di rimozione autoritativa perché, come non mancherebbe di notare Marx, dipenderebbe da una fictio juris (sovrastrutturale) la formale irrilevanza politica della diversa, se pur equa, distribuzione di ricchezza e del reddito; e questo anche ipotizzando un'intera società di individui pienamente sviluppati (o sviluppabili) nella loro potenzialità e ricchezza umana di "inclinazioni" e capacità.
In sintesi, è evidente che, mentre il sistema leninista "deve" ipostatizzare la condizione di proletario (salvo che lo stato di eccezione si manifesta nel fatto che i vertici della nomenklatura avevano la disponibilità-possesso delle...dacie, e il comune proletario invece no), non redistribuendo la proprietà ma rendendola solo e permanentemente collettiva.
Questi problemi sono affrontati dalla nostra Costituzione: si sceglie la tutela del lavoro, come primo interesse comunitario, ma la proprietà privata è ammessa, sia pur funzionalizzata, mentre "tipi specifici" di proprietà privata sono considerati ad acquisizione diffusa espressamente favorita dallo Stato.
Questo è il superamento dell'antagonismo delle classi: ma non coincide con alcuna prevalenza del proletariato, definito correttamente nella sua originaria condizione, PERCHE' non viene cristallizzata la sua condizione come presupposto e fine dell'assetto politico, quanto resa transitoria: cioè sempre oggetto di scelta, nella effettiva disponibilità di alternative, e comunque sempre evolvibile nella condizione del lavoratore NON PROLETARIO, in quanto comunque posto in condizione di essere risparmiatore e proprietario, quantomeno dell'abitazione (ma se lo sceglie, anche dell'azienda artigiana e del fondo agricolo).
Marx aveva previsto questo possibile esito evolutivo?
Galbraith sostiene di no. E personalmente concordo.
I nostri costituenti prescindono da questo problema, perché ritengono sufficiente alla soluzione del conflitto E alla liberazione dal bisogno, la eguaglianza sostanziale e la redistribuzione ex ante garantite, nella loro effettività, dall'azione dello Stato.
Questo mi pare il costrutto ricavabile dal testo delle previsioni costituzionali e anche dalle tendenze applicative (certo, incompiute) manifestatesi fino all'irrompere dell'incubo del contabile in forma di vincolo esterno...
Chiarisco meglio il mio pensiero per evitare fraintendimenti:
Elimina“… Non dimentichiamo che per Marx e per Engels la dittatura del proletariato era la forma di governo più democratica che fosse mai esistita, e certamente oggi, dopo le tragiche esperienze sovietiche, la stessa espressione non ha più quel significato. Rimanendo fermi al concetto democratico di Marx dobbiamo saper usare il linguaggio che risponde alle idee politiche del nostro tempo. E dobbiamo aver il coraggio di dire che la rivoluzione socialista per la quale ci battiamo rivestirà forme diverse da quelle che ha assunto nella drammatica vicenda della rivoluzione bolscevica. Così dicendo siamo veramente fedeli allo spirito di Marx e a quello di Lenin. Che è più importante che rimaner fedeli soltanto alla parola, come certamente sa ogni autentico rivoluzionario. Perché non c’è nulla di meno rivoluzionario della ripetizione letterale dei testi canonici…” [L. BASSO, La dittatura del proletariato, il Messaggero, 11 maggio 1976].
Basso certamente non parla di soppressione di classi in relazione alla Costituzione vigente né si potrebbe in alcun modo sostenere che la Costituzione preveda la soppressione delle classi, sarebbe ovviamente (oltre che per motivi testuali e storici) un errore madornale. Da questo punto di vista, quindi, non può altresì affermarsi che la Costituzione rappresenti l’incarnazione del socialismo come inteso da Marx e che tuttavia lo stesso ha teorizzato, e il cui avvento (qualora non lo si consideri irrealistico, ma io credo non lo sia a causa delle enormi contraddizioni del capitalismo di cui anche oggi vediamo gli effetti) avverrà certamente in un futuro più o meno lontano, ammesso che il socialismo abbia un punto di approdo definitivo alla stregua di una “fine della storia”.
In quelle condizioni storiche del ’48 il processo dialettico doveva partorire quella Costituzione, che era ed è – beninteso - già una idea di società evolutissima ed inaudita (tanto evoluta che ancora oggi non la si è capita), ma che a mio avviso è solo la fase iniziale della transizione al socialismo come inteso da Marx. E’ evidente che in quelle condizioni storiche un Basso pienamente cosciente doveva prendere atto di una società divisa in classi e della stessa natura di classe dello Stato, tant’è che in relazione all’art. 3 Cost. egli dice:
“… Quest’articolo della Costituzione è stato dettato dall’ovvia considerazione che in una società divisa in classi esistono enormi disuguaglianze sociali dal punto di vista della ricchezza, della cultura, della disponibilità di tempo, ecc. per cui non può esistere un’eguale possibilità di partecipazione cosciente alla cosa pubblica: da un lato manca spesso la cultura necessaria (ancora oggi, specialmente nelle campagne, vi sono notevoli percentuali di analfabetismo in Italia, nella penisola iberica, ecc.) e manca il tempo di studiare i problemi o di cimentarsi nei dibattiti, dall’altro invece vi sono larghe disponibilità di mezzi che permettono ai privati di possedere giornali o addirittura stazioni radio e televisive, di stipendiare giornalisti o altri uomini che “fanno opinione”, insomma di influenzare largamente gli strati meno preparati della popolazione. (segue)
Sembra evidente che l’eliminazione di una simile situazione DEBBA CONSIDERARSI UNA PRE-CONDIZIONE PER L’AVVENTO DI UN REGIME DEMOCRATICO, e in tale spirito l’articolo in questione fu introdotto nella Costituzione italiana. Il suo scopo era quello di mettere in luce il contrasto fra l’affermazione del primo articolo della costituzione che dice: “L’Italia è una repubblica democratica. La sovranità appartiene al popolo che l’esercita [...]” e la realtà italiana nella quale una larga parte del popolo non è in condizione di esercitare la sovranità, e quindi il contrasto tra la democrazia formale e quella reale. La sua attuazione avrebbe potuto rappresentare un ponte di passaggio dall’una all’altra, dalla democrazia semplicemente politica alla democrazia sociale, ma questo avrebbe significato sopprimere le disuguaglianze di classe, e quindi negare la validità della semplice democrazia formale.
EliminaNaturalmente è evidente che l’articolo non ha trovato applicazione nel corso di questi trent’anni, ma è anche evidente che non si potrà parlare di democrazia reale in Italia e neppure di sovranità popolare finché quest’attuazione non avrà avuto luogo.
Occorre pertanto che il movimento operaio abbia chiara coscienza dei limiti della democrazia borghese e non accetti di affidare la realizzazione futura del socialismo alle regole della democrazia borghese attuale. Non si può dimenticare quel che i marxisti hanno sempre saputo e cioè che la democrazia rappresentativa, pur costituendo certamente una conquista in confronto ai vecchi regimi assolutistici o oligarchici, adempie anche alla funzione mistificatrice di sostituire la semplice eguaglianza formale all’eguaglianza di fatto, o, in altre parole, di offrire a livello rappresentativo una parvenza di eguaglianza che mascheri la disuguaglianza sostanziale…” [L. BASSO, Democrazia e socialismo in europa occidentale].
Il socialismo come inteso da Marx (quello con la soppressione delle classi, la socializzazione dei mezzi di produzione e della soppressione della proprietà) è un percorso rigorosamente dialettico ed a tappe che è destinato ad affermarsi proprio per le profonde contraddizioni del capitalismo; probabilmente noi non lo vivremo o forse, non lo so, non si realizzerà mai perché l’uomo non arriverà mai ad un livello così alto di coscienza; la Costituzione pregressista io la intendo come un fondamentale ed imprescindibile punto di inizio, direi una tappa imprescindibile nell’evoluzione dell’uomo (direi, scusa se è poco!).
In questo senso ho parlato di dittatura del proletariato in relazione all’art. 3, comma II, Cost. (come prima ed evoluta tappa). Non può esserci transizione al socialismo teorizzato da Marx senza presa del potere dei lavoratori coscienti, cioè della maggioranza della società, e partecipazione attiva degli stessi alla vita democratica, che rappresenta appunto una “pre-condizione”:
“… Solo una prassi democratica oggi, e non gli impegni verbali, è garanzia di una società democratica domani. Solo nella misura in cui la via al socialismo mostra fin d’ora una forte carica libertaria … un vivo sentimento sociale e una tendenza a favorire il libero sviluppo di tutti e di ciascuno e a sviluppare il sentimento di responsabilità, si può avere una garanzia per la democraticità della società socialista…” [L. BASSO, Democrazia e socialismo in europa occidentale, cit.].
In questa fase esiste la società “democratica pluriclasse”, la proprietà privata e lo Stato redistributivo (esisterebbe, perché nemmeno questa tappa si è purtroppo realizzata pienamente. Anzi, l’eurocrazia del mercato mercificante, come ahimè sappiamo, lavora perché questa tappa non possa mai inverarsi). (segue)
Un altro discorso è quello di cosa succederà (eventualmente) dopo la soppressione delle classi che Marx teorizza e che Basso accetta (pur non ricevendo quella visione, per quello che ho detto, addentellati nell’attuale Costituzione). Di certo entrambi avevano una concezione altissima dell’umano e una grande fiducia nel prossimo. Questo è un problema che dovremo affrontare nell’ambito della teoria dello Stato in Marx, ma che forse esula da questo affascinante confronto.
EliminaCerto, suona preoccupante il concetto di “soppressione di classi” e di “abolizione della proprietà privata”, ma nella rigorosa teorizzazione marxiana e nella morale socialista ha un senso che condivido e che potrà formare oggetto di ulteriori approfondimenti 😊
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EliminaScusa riformulo per via dei troppi errori di battitura "fuorvianti":
EliminaTi invito a rileggere con attenzione i soprastanti commenti di Arturo: la questione della metonimia o, comunque, traslazione con ribaltamento di senso, di alcuni concetti, è essenziale. Come pure quella della incompiuta, ma fortemente evolutiva, riflessione di Marx sul ruolo delle banche centrali e, di conseguenza, dello Stato come elemento strutturale.
In sintesi (le connessioni derivabili sono molteplici, al punto che il processo deduttivo è opinabile per successiva attenuazione della certezza delle deduzioni in progressione operabili): la soppressione delle classi cui Basso si riferisce - senza dubbio alcuno, data l'inequivoca terminologia e l'intenzione sistematicamente emergente dai suoi scritti- si riferisce alla loro suddivisione in DUE classi di cui una va disattivata, tramite lo Stato, nella sua attitudine conflittuale e predatoria (e il raggiungimento di questo obiettivo muta i contenuti e i requisiti essenziali dello stesso "strumento" della Rivoluzione).
Questo superamento (istituzionalizzato) è premessa che risulta "necessaria e sufficiente", ea tale ruolo, Basso, ritiene che risponda in pieno la Costituzione, ove attuata nella sua pienezza.
Non postula cioè uno stadio ulteriore di inconfigurabilità di classi sociali in senso funzionale e descrittivo, di una natura post-borghese (in senso stretto, di capitalismo egemone) di diversificate componenti della società: in democrazia, risolto il problema del conflitto, è il pieno e libero sviluppo della persona umana del lavoratore a definire questo nuovo senso delle classi (se vogliamo potremmo definirle in altro modo, per evitare equivoci).
Questa diversa concepibilità delle classi è comunque insita nell'attuazione della Costituzione che, comunque, supera il conflitto e compie una sintesi socialista autosufficiente: ma non prodromica di un quid pluris "perfettamente" socialista e di cui la Costituzione sarebbe mera tappa intermedia.
Basso, ma pure Marx (v sempre Arturo sui XVII punti ad ohc per la Germania in tentata rivoluzione), si rendono conto di questa distinzione dinamica del concetto di classe, molto sostanziale in quanto divengono concetti non più comparabili, e certamente perché diversamente collocati nel tempo, cioè riferibili a successivi assetti sociali dialetticamente opposti (sintesi della risoluzione del conflitto).
Quindi è da dubitare che il socialismo inteso da Basso implichi la necessità di arrivare a una tappa finale, diversa ed ulteriore dalla realizzazione del modello costituzionale, con la soppressione della proprietà e la statalizzazione di quella dei mezzi di produzione.
Non rammento, e probabilmente non troverai, un passaggio esplicito in questo senso, di Basso, posteriore all'adozione della Costituzione e, ancor più, slegato dalla rivendicazione della sua realizzazione (dato che neppure "l'ultimo Marx" era rigidamente attestato su questa posizione, volendo, appunto, riflettere sul ruolo dello Stato come possibile elemento della struttura da ri-considerare nella sua analisi).
Diverso discorso (e qui credo che si riveli che, date certe precisazioni, nella sostanza concordiamo) è se lo stesso Basso, nel corso degli anni successivi all'adozione della Costituzione, si fosse reso conto della sua inattuazione e dei motivi politico-strutturali di ciò: l'eguaglianza sostanziale non si realizzava nella misura concentrata necessaria al superamento del conflitto di classe ("originario") e si tendeva a stemperare il modello costituzionale nella "democrazia rappresentativa" di stampo liberale.
EliminaE' chiaro che a questa impasse (non dovuta alla insufficienza della Costituzione, ma alla sua inattuazione) dovesse corrispondere la mobilitazione del "proletariato": esso, come classe, permaneva e lui stesso additava la logica, praeter (o "contra") costituzione del "concessionismo" laburista (per di più parziale).
La natura tattica di questo concessionismo era infatti, ancora una volta, il segno univoco della resistenza liberista e della sua attitudine a pianificare e, in seguito, realizzare la "restaurazione" (cioè la aperta negazione del modello costituzionale).
Ed infatti, nel corso degli anni, Basso denuncia sempre più proprio questo fenomeno...
Lei ha ragione, non c’è un espresso discorso in cui Basso sostenga che questa Costituzione sia una tappa. Sostenere ciò sarebbe scorretto; ciò significa che non sono riuscito a spiegarmi per come avrei voluto. La mia riflessione prende le mosse dal presupposto che sia tenuta ben distinto il piano positivo concreto ed il dato astratto e teoretico (chiamiamolo dottrinario).
EliminaNella seduta in Assemblea Costituente del 6 marzo 1947 Basso afferma:
“… la costituzione è il frutto di precedenti trasformazioni, è il riflesso delle trasformazioni che sono in atto; ed è la porta aperta verso trasformazioni che verranno. In questo senso noi voteremo in questa costituzione degli articoli che certamente non corrispondono alle vecchie tradizioni del partito ed altri che contraddicono a quelle che sono le nostre aspirazioni lontane; ma voteremo degli articoli che siano l’espressione della complessa realtà oggi in atto e li voteremo con perfetta lealtà. Voteremo gli articoli in cui si accetta la proprietà privata, in cui si dice che è assicurata l’iniziativa privata, perché sappiamo che nella società di oggi questi articoli esprimono la concreta realtà…”.
Altrove Basso afferma:
“… La conquista della democrazia è quindi lo scopo del socialismo marxista… la quale deve precisamente distruggere il potere politico esistente, che è il potere di una piccola minoranza, il potere organizzato della classe dominante, numericamente ristretta, e deve permettere l’avvento al potere del proletariato, cioè dell’immensa maggioranza della popolazione. Né Marx rinnega questo contenuto democratico quanto usa l’espressione “dittatura del proletariato”. Dittatura significa semplicemente per Marx governo di una classe, e dittatura del proletariato è la stessa cosa che esercizio del potere politico da parte del proletariato, cioè dell’immensa maggioranza, in luogo dell’esistente dittatura della borghesia …
Prima di poter giungere a quella che è la meta finale del socialismo marxista, cioè la creazione di una società senza divisioni e antagonismi di classe, è necessario attraversare un periodo in cui i lavoratori esercitano il potere politico e se ne servono per socializzare i mezzi di produzione e di scambio e quindi spossessare i capitalisti e i proprietari. Questo è il periodo che Marx chiama della dittatura del proletariato, perché è il periodo in cui i lavoratori esercitano il potere in quanto classe contrapposta alla borghesia allo scopo di distruggerne i privilegi: distrutti questi, realizzata la società senza antagonismi di classe, non vi sarà più bisogno di un potere politico che difenda gli interessi di una classe, ma semplicemente di un ordinamento che amministri la società nell’interesse comune.
Scomparirà così anche la dittatura del proletariato che, purtuttavia, finché durerà, sarà sempre, nel pensiero di Marx, il regime più democratico che sia mai esistito, perché sarà effettivamente il governo di tutti i lavoratori, cioè della maggioranza della popolazione …” [L. BASSO, Marxismo e democrazia, in Problemi del socialismo, gennaio 1958, n. 1, 7-25]. In altre occasioni Basso ritorna sull’argomento e parla di “transizione al socialismo”.
Rebus sic stantibus, e secondo la trasformazione storica a quel momento, il “governo di tutti i lavoratori” sarà il regime più democratico che sia mai esistito (quello che dal ’48 non è stato ancora applicato con pienezza), ma non sarà ancora il socialismo per la cui affermazione (nella stretta visione marxiana) potrebbe anche necessitare di un’intera epoca. (segue)
Quindi, dal punto di vista giuridico, ovvero del diritto positivo del nostro sistema costituzionale come “conchiuso” ed aspirante all’eternità, io non posso che essere d’accordo che “questo superamento istituzionalizzato (delle classi) è premessa che risulta "necessaria e sufficiente" e che a tale ruolo risponde in pieno la Costituzione democratica (attraverso lo Stato) di cui Basso è strenuo difensore. Vorremmo infatti che si realizzasse. Nel nostro sistema costituzionale è così e non sono ammessi voli pindarici affermando cose diverse, né Basso si sarebbe mai sognato di ventilare, come dire, presunte provvisorietà.
EliminaDal punto di vista della dottrina socialista come visione “teoretica” (dalla quale, a questo punto, forse penso possa anche prescindersi) io invece sostengo che “l’autosufficienza” (e direi anche definitività ad un dato momento storico) in Costituzione della sintesi socialista, e che Basso ha abbracciato con convinzione, riguarda l’hinc et nunc come massima realizzazione della democrazia nel suo attuale approdo dialettico. Ma quella “autosufficienza” della Costituzione per gli aspetti considerati potrebbe non può valere - sempre a mio sommesso avviso - in assoluto, perché se così fosse si porrebbe termine agli infiniti Aufhebung; d’altronde “l’umanità non si propone se non quei problemi che può risolvere, perché a considerare le cose dappresso, si trova sempre che il problema sorge solo quando le condizioni materiali della sua soluzione esistono già o almeno sono in formazione”.
Nemmeno a dirlo, questo è il mio pensiero, con molta probabilità spiegato ancora una volta in maniera indegna e con prosa da non imitare :-)
1. Poiché vedo che concordiamo ma che forse sfuggono i passaggi salienti della (mera) mia precisazione (per i miei limiti espositivi, e quelli, oggettivi, del confronto in lunghi commenti), ribadisco il passaggio che mi pare compatibile ANCHE con QUESTE ULTIME ed ulteriori citazioni di Basso:
Elimina"In sintesi (le connessioni derivabili sono molteplici, al punto che il processo deduttivo è opinabile per successiva attenuazione della certezza delle deduzioni in progressione operabili): la soppressione delle classi cui Basso si riferisce - senza dubbio alcuno, data l'inequivoca terminologia e l'intenzione sistematicamente emergente dai suoi scritti- si riferisce alla loro suddivisione in DUE classi di cui una va disattivata, tramite lo Stato, nella sua attitudine conflittuale e predatoria (e il raggiungimento di questo obiettivo muta i contenuti e i requisiti essenziali dello stesso "strumento" della Rivoluzione).
Questo superamento (istituzionalizzato) è premessa che risulta "necessaria e sufficiente", e a tale ruolo, Basso, ritiene che risponda in pieno la Costituzione, ove attuata nella sua pienezza".
Sulla, logicamente inevitabile, contestualizzazione e relativizzazione storica di OGNI proposizione politica:
"Questo è il superamento dell'antagonismo delle classi: ma non coincide con alcuna prevalenza del proletariato, ove definito correttamente nella sua originaria condizione, PERCHE' non viene cristallizzata la sua condizione come presupposto e fine dell'assetto politico, quanto piuttosto resa transitoria: cioè sempre oggetto di scelta, nella effettiva disponibilità di alternative, e comunque sempre evolvibile nella condizione del lavoratore NON PROLETARIO, in quanto comunque posto in condizione di essere risparmiatore e proprietario, quantomeno dell'abitazione (ma se lo sceglie, anche dell'azienda artigiana e del fondo agricolo).
Marx aveva previsto questo possibile esito evolutivo?
Galbraith sostiene di no. E personalmente concordo.
I nostri costituenti prescindono da questo problema, perché ritengono sufficiente alla soluzione del conflitto E alla liberazione dal bisogno, la eguaglianza sostanziale e la redistribuzione ex ante garantite, nella loro effettività, dall'azione dello Stato."
La cosa terribile sarebbe accorgersi, e prendere atto, di una perdita irreversibile, e assolutamente incorreggibile in via dialettica, dell'attuabilità del modello costituzionale...
Spero di cuore che questa perdita irreversibile dell'attualita' del modello costituzionale non si verifichi.
EliminaSarebbe la barbarie oltre ogni immaginazione ed i cui prodromi oggi si manifestano per chi sa riconoscerli.
Sara' durissima
L
Se tale è l’idea della società nella dottrina marxiana, la soppressione delle classi è funzionale allo sviluppo della persona e non può trasformarsi in una seconda oppressione, cioè da una società borghese ad un’altra. Il pieno sviluppo della persona umana (pienamente cosciente), senza oppressione di chicchessia, è il fine a sé stesso. A mio modestissimo avviso, la democrazia derivante dalla soppressione delle classi non può quindi tramutarsi in un’involuzione:
RispondiElimina“… Giustamente gli scrittori marxisti hanno sempre insistito con molta fermezza su questo aspetto dei rapporti fra individuo e collettività nella società socialista contro tutte le accuse di livellamento… e hanno sempre posto l’accento sul fatto che la società socialista è al contrario la sola che possa consentire il massimo sviluppo della personalità umana.
“Rendendosi la società padrona di tutti i mezzi di produzione per impiegarli sistematicamente secondo un piano sociale prestabilito, distrugge l’odierno asservimento degli uomini ai propri mezzi di produzione. S’intende che la società non può emanciparsi senza che ogni individuo non sia emancipato. L’antico modo di produzione deve quindi essere capovolto dalle fondamenta e specialmente l’antica divisione del lavoro deve scomparire. Al suo posto deve subentrare un’organizzazione della produzione in cui da un lato nessun individuo possa riversare su di un altro la sua partecipazione al lavoro produttivo - questa condizione naturale dell’esistenza umana - e dall’altra il lavoro produttivo, invece di essere un mezzo di schiavitù diventi un mezzo per l’emancipazione dell’uomo, in quanto esso offre a ciascun individuo l’opportunità di sviluppare ed esercitare in ogni senso tutte le proprie attitudini fisiche ed intellettuali, un’organizzazione in cui il lavoro dall’essere un peso diventi un piacere”. (ENGELS: Antidühring, Roma, 1911, pp. 250-1) ” [L. BASSO, L’uomo nuovo nella società socialista, cit., Nota 4].
Posto ciò, sono assolutamente d’accordo che “se Marx fosse stato vivo nella prima metà del '900, sarebbe stato, con ogni probabilità, keynesiano; proprio perché nella sua metodologia è già contenuta la predisposizione ad assumere come valide diverse ipotesi di struttura dei rapporti di produzione, come sintesi cosciente del conflitto sociale”.
A questo punto della dialettica storica, sono altresì d’accordo che oggi è più realistico che possa essere ripristinato il modello costituzionale