lunedì 15 maggio 2017

E SE IL LAVORO NON C'E'? ECONOMIA E LEGALITA' INTERNAZIONALE E COSTITUZIONALE SUL TEMA DELL'IMMIGRAZIONE

Ci sono strane regole...a singhiozzo e strani indizi di...coerenza

ANDATE A MORIRE DA UN’ALTRA PARTE – NIENTE SBARCHI DI MIGRANTI DURANTE IL G-7 DI TAORMINA: CHIUSI TUTTI I PORTI SICILIANI –

1. Vorrei tornare su alcuni punti che abbiamo focalizzato nel post CHANG, TRUMP E IL "NEW NORMAL"...MA L'€UROPA? KAPUTT.
Una questione prioritaria riguarda il modo in cui va intesa la relazione tra immigrazione, - che, quali che ne siano le cause, implica sempre l'immissione di forza lavoro aggiuntiva in un determinata comunità sociale a rilevanza politico-territoriale-, e la gestione dell'economia da parte delle istituzioni responsabili
Non dovrebbe essere difficile capire che predicare "l'accoglienza" per motivi umanitari - suggestivamente ed aggressivamente reclamati in modo del tutto avulso dai presupposti legali di connessione effettiva col coinvolgimento giuridico del nostro Stato- come regola suprema, - in nessun modo affermata come tale da regole del diritto internazionale generale o dei trattati -, è null'altro che un espediente di propaganda comunicativa.

1.1. Questa propaganda, pur rivestita di un umanitarismo di facciata, disinteressato alle (quantomeno) simmetriche ragioni umanitarie della comunità sociale che sopporta il peso di tale pseudo-regola (peraltro affermata da soggetti privati, finanziati in modo non del tutto chiaro da altri soggetti privati, e non da soggetti del diritto internazionale legittimati a dar luogo a mutamenti del diritto internazionale generale), corrisponde oggettivamente alla volontà di affermare che la responsabilità delle politiche economiche di un certo Stato sia attribuita all'ordine internazionale del (libero) mercato (come vedremo più sotto nella chiara teorizzazione di Einaudi), piuttosto che alla volontà democratica espressa dal corpo elettorale che dovrebbe (siamo sempre nel "condizionale") legittimare, in conformità ad essa, l'azione dei preposti alle istituzioni di governo previste dalla, e rispettose della, Costituzione.

2. Questa assoluta ovvietà relativa al sistema della democrazia costituzionale, comune a tutte le Nazioni civili (in realtà patrimonio comune di civiltà giuridica condiviso dal diritto internazionale generale), è oggi offuscata in modo tale che chi si opponga alle forze naturalistiche del movimento di emigranti (addirittura comprovate da analisi storico-antropologiche) si trova ad essere tacciato di razzismo-xenofobia e nazionalismo guerrafondaio! Un concetto abusato a sproposito che, rammentiamo, è un altro equivoco di interpretazione storica, che confonde il nazionalismo sovrano con il militarismo delle Nazioni che si reclamavano "dominatrici" e le loro politiche di riarmo aggressivo a fini imperialisti, cioè negatori della altrui sovranità.
Basti, al riguardo, circa la natura revisionista di questa odierna propaganda, rammentare le parole di Lelio Basso (qui, p.1) che escludono come questo equivoco, attentamente alimentato, possa legittimamente ascriversi "a sinistra":
"l’internazionalismo del proletariato si fonda sull'unità e sulla solidarietà di popoli in cui tutti i cittadini, attraverso l'abolizione dello sfruttamento di una società classista, conquistano LA PROPRIA COSCIENZA NAZIONALE… il nostro internazionalismo non ha nulla di comune CON QUESTO COSMOPOLITISMO DI CUI SI SENTE TANTO PARLARE E CON IL QUALE SI GIUSTIFICANO E SI INVOCANO QUESTE UNIONI EUROPEE E QUESTE CONTINUE RINUNZIE ALLA SOVRANITÀ NAZIONALE

L’internazionalismo proletario NON RINNEGA IL SENTIMENTO NAZIONALE, NON RINNEGA LA STORIA, ma vuol creare le condizioni che permettano alle nazioni diverse di vivere pacificamente insieme. 

Il cosmopolitismo di oggi che le borghesie nostrane e dell'Europa affettano è tutt'altra cosa: è rinnegamento dei valori nazionali per fare meglio accettare la dominazione straniera… Noi sappiamo che in questa lotta il proletariato combatte insieme per due finalità e che in questa lotta esso ACQUISTA CONTEMPORANEAMENTE LA COSCIENZA DI CLASSE E LA COSCIENZA NAZIONALE, ponendo le basi per un vero internazionalismo, per una federazione di popoli liberi che non potrà essere che socialista! (Vivissimi applausi e congratulazioni)” [L. BASSO, discorso del 13 luglio 1949, in Il dibattito sul Consiglio d’Europa alla Camera dei deputati, ora in Mondo operaio, 10 settembre 1949, 3-4-]."
3. E se non sono collocabili a sinistra, hanno infatti ben altra origine. Ed infatti:
“… Se vogliamo prosperità e pace nel mondo, dobbiamo combattere contro i monopoli di ogni sorta; epperciò anche contro quelli che, per nascondere la propria natura nemica all’uomo, si chiamano monopoli di stato…” [L. EINAUDI, La nota americana ed il commercio internazionale in Risorgimento liberale, 20 marzo 1945].
“… Gli effetti dannosi del frazionamento dell’Europa in microscopici mercati sono oggi assai maggiori di quel che non fossero innanzi al 1914. In quegli anni lontani, ho avuto l’onore di combattere insieme con alcuni pochi uomini testardi, primissimi fra tutti Edoardo Giretti, Antonio De Viti De Marco, Attilio Cabiati, Maffeo Pantaleoni, contro il protezionismo doganale…
QUEL CHE VOGLIAMO NOI FEDERALISTI È DUNQUE L’ABOLIZIONE DELLE FRONTIERE ECONOMICHE FRA STATO E STATO … Fa d’uopo essere ben chiari su questo punto… FEDERALISMO È SINONIMO DI RIDUZIONE DELLA SOVRANITÀ ECONOMICA di ognuno degli stati federati …
Io credo che la limitazione sarà di grande vantaggio all’economia dei singoli Stati ex sovrani. … La sua attuazione incontrerà ostacoli ed opposizioni formidabili; ed è tanto più necessario guardarli in faccia. Se noi vogliamo evitare le guerre, od almeno una parte di esse, dobbiamo sapere quali sono le difficoltà che dovranno superare per ottenere il bene massimo della pace [L. EINAUDI, La unificazione del mercato europeo, Europa federata, Edizioni di Comunità, 1947, 55-56]".
L’idea del pacifismo borghese è infatti quella di non eliminare la guerra sulla base di reali motivazioni etiche, ma sulla scorta di di considerazioni pratiche e utilitaristiche e di un'azione che sottragga allo stato-nazione la possibilità di manifestare la propria volontà sovrana. Cioè di tutelare i diritti fondamentali dei propri cittadini e, quindi, la vera pace sociale. 
Legare la pace all’internazionalismo del capitalismo sfrenato, a quanto pare, è stato sempre un vizietto, la facciata buona dei liberoscambisti incalliti (da R. Cobden a E. Giretti, da V. Pareto a B. Wootton), quella “purezza originale” da arricchire gradualmente con gli epiteti più disparati da dare poi in pasto agli idioti di ogni tempo (spinelliani inclusi).
Pace e concordia, come no. Probabilmente il seguente passo di Basso lo abbiamo già citato, ma vale la pena riprenderlo:
“… formalmente la società borghese risolve tutte le sue contraddizioni e per ogni soperchieria brutale che il capitalismo compie, per ogni forma di sfruttamento che il capitalismo impone alle classi oppresse, ESSO DEVE SEMPRE TROVARE UNA GIUSTIFICAZIONE IDEALE. Di fronte ad una contraddizione che si aggrava sul piano sociale, BISOGNA SEMPRE TROVARE UNA APPARENZA DI SOLUZIONE VALIDA SUL PIANO FORMALE: ed è questo il servigio che i ceti medi rendono alle classi capitaliste, è appunto il servigio di tradurre in questo linguaggio ideale e formale le contraddizioni brutali della società…
È veramente una situazione assurda e io la sottolineo in questo dibattito, perché credo che essa ci aiuti a mettere in rilievo quello che, secondo me, è l’elemento che va denunciato nello strumento che è sottoposto alla nostra ratifica. 
Il Consiglio europeo, cioè, è la maschera PROGRESSISTA, IDEALISTA che deve coprire due realtà brutali: LA MANOMISSIONE ECONOMICA CHE L’IMPERIALISMO, IL GRANDE CAPITALE AMERICANO, ESERCITA SULL’EUROPA E LA POLITICA DEL BLOCCO OCCIDENTALE IN FUNZIONE ANTISOVIETICA.
Tradurre questa politica nel linguaggio del federalismo, esprimere cioè questa realtà di sopraffazione e di soperchieria IN TERMINI IDEALI, È UN MEZZO CHE SERVE A FARE ACCETTARE QUESTA POLITICA A MOLTA GENTE IN BUONA FEDE per poi servirsi di tutta questa gente in buona fede come specchio per le allodole onde trascinare certi strati della popolazione dalla stessa parte...
I progetti di Briand del 1930 sono falliti … perché il capitale finanziario allora si muoveva ancora nel quadro dello stato nazionale; eravamo ancora in fase di grave conflitto tra i capitali finanziari dei singoli paesi; il capitale europeo non aveva ancora trovato un capitale più forte, come quello americano, che lo riducesse all’obbedienza. L’Europa non aveva ancora allora trovato la sua vera capitale a Wall Street. Questa la ragione per la quale nel 1930 sono falliti i progetti di Briand. Questa la ragione per cui oggi si realizzano i nuovi progetti.

… Noi non vogliamo assurdi ritorni al passato. Il processo di concentrazione capitalistica è in atto; il processo di predominio del capitale finanziario segue il suo corso; esso ingigantisce le contraddizioni di classe, ingigantisce le contraddizioni del mondo capitalistico. E noi socialisti siamo la coscienza vivente di queste contraddizioni, che nascono da questo mondo e da questa società. Il capitalismo tende a COPRIRE LA SUA BRUTALE POLITICA CON UNA APPARENZA IDEALE, cerca di risolvere su questo piano puramente formale le sue interne contraddizioni. Coloro che, coscientemente o incoscientemente, sono al servizio degli interessi del grande capitale, sono sempre pronti A TRADURRE IN LINGUAGGIO IDEALISTICO LE BRUTALI SOPERCHIERIE E LE IMPRESE DEL CAPITALISMO. È il compito di un Léon Blum e di un André Philip…” [L. BASSO, Intervento sul disegno di legge “Ratifica ed esecuzione dello Statuto del Consiglio d’Europa firmato a Londra il 5 maggio 1949, Camera dei deputati, 25 maggio 1949].

4. In realtà, se riconosciamo l'importanza democratica, (cioè di tutela dell'interesse maggioritario delle classi sociali più deboli, rispetto ai poteri economici che incarnano la posizione di forza) della gerarchia delle fonti, dovremmo rammentare sempre che il diritto internazionale generale "fondamentale" (cioè le consuetudini accettate dalla maggioranza degli Stati e, con l'affermarsi della democrazia, codificate sempre di più nell'ambito delle Nazioni Unite, almeno nella fase iniziale del secondo dopoguerra), prevale su ogni trattato internazionale: più che mai se, com'è suo connotato normale, risulti "speciale" in molte accezioni (cioè applicabile a aspetti settoriali delle relazioni tra Stati, come la convenzione sui rifugiati, o il "diritto del mare", o, ancora, risoluzioni dell'Unione europea attinenti a aspetti peculiari come la vigilanza attiva sulle proprie suoi "frontiere esterne").
La "specialità" (o comunque la settorialità"), infatti, consente un certo grado di deroga alle regole generali del diritto internazionale generale, ma non può mai assurgere a fonte abrogativa dei suoi principi fondamentali: questi ultimi, nel complesso, costituiscono un vincolo interpretativo dei trattati, quali fonti inferiori, al punto che essi valgono in quanto, nella loro applicazione, siano resi compatibili con la norma superiore di diritto internazionale generale, risultando altrimenti nulli per violazione dello ius cogens (basti vedere il concetto di ius cogens e il trattamento riservato dalla Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, agli artt.53 e 64, alle pattuizioni con esso in contrasto).

5. Ora sul legame indissolubile tra tutela dei confini di uno Stato, come forma irrinunciabile della sovranità, più che mai coessenziale anche, e specialmente, agli ordinamenti democratico-costituzionali, e tutela del lavoro come concreta manifestazione di un "valore universale" assurto a principio inderogabile rientrante nello ius cogens (che, dunque, nel suo contenuto incomprimibile neppure i trattati europei potrebbero validamente derogare...per quanto siano ben sospetti di averlo fatto con la loro ossessione per la stabilità dei prezzi e della moneta), abbiamo sufficienti certezze  offerte proprio dalla funzione garantista (della democrazia) propria della gerarchia delle fonti. 
E questa garanzia, come vedremo in base all'illuminante analisi di Chang, corrisponde a ragioni istituzionali solidamente appoggiate sulla scienza economica (più attendibile).

6. Il superiore quadro di definizione della tutela del lavoro secondo il diritto internazionale generale, com'è agevole contatare, si risolve (scandalosamente per gli €uropeisti e i cosmopoliti "no borders"), in un obbligo ben preciso, nei suoi contenuti, che grava sugli Stati e, anzi, ne caratterizza più di ogni altro, la connotazione come "democratici". 
Il fondamento come diritto internazionale generale deriva dal (famoso) art. 23 della dichiarazione universale dei diritti dell'uomo", e, come vedrete, la considerazione del fenomeno dell'immigrazione e della sua facile degenerazione in forme, vecchie e nuove di schiavitù, è oggetto della vera attenzione dedicata al problema: non certo la fissazione di un principio di illimitata "accoglienza" indifferente sia alla riferibilità ad un certo Stato dell'obbligo di assumersi l'onere dello "stato di necessità" creato da altri e ben al di fuori dei suoi confini e dei suoi ragionevoli obblighi di solidarietà internazionale (riporto il commento per intero, integrandolo con alcune enfasi in grassetto). 
Un memento preliminare per agevolare la lettura: l'art.4 della Costituzione, lungi dall'essere l'obsoleto retaggio di una mera aspirazione enfatica, è, oggi più che mai, conforme al diritto internazionale generale inderogabile e si conferma come attualissimo controlimite (v. p.11.4. e qui, p.7, per la sua intera responsabilità applicativa) purtroppo disapplicato, agli arrembanti "obblighi assunti dall'Italia verso l'Unione europea", nel settore finanziario pubblico e delle politiche monetarie:

Articolo 23 - Per un lavoro dignitoso

Commento del prof. Antonio Papisca, Cattedra UNESCO "Diritti umani, democrazia e pace" presso il Centro interdipartimentale sui diritti della persona e dei popoli dell'Università di Padova, sull’Articolo 23 della Dichiarazione universale dei diritti umani

Autore: Antonio Papisca

Articolo 23

1. Ogni individuo ha diritto al lavoro, alla libera scelta dell’impiego, a giuste e soddisfacenti condizioni di lavoro e alla protezione contro la disoccupazione.
2. Ogni individuo, senza discriminazione, ha diritto ad eguale retribuzione per eguale lavoro.
3. Ogni individuo che lavora ha diritto ad una remunerazione equa e soddisfacente che assicuri a lui stesso e alla sua famiglia una esistenza conforme alla dignità umana ed integrata, se necessario, da altri mezzi di protezione sociale.
4. Ogni individuo ha diritto di fondare dei sindacati e di aderirvi per la difesa dei propri interessi.


Il contenuto di questo Articolo è ulteriormente specificato dagli Articoli 6, 7 e 8 del Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali del 1966, dove è innanzitutto stabilito che le misure che gli Stati sono obbligati a prendere “per dare piena attuazione a tale diritto”, dovranno comprendere “programmi di orientamento e di formazione tecnica e professionale, nonché l’elaborazione di politiche e di tecniche atte ad assicurare un costante sviluppo economico, sociale e culturale ed un pieno impiego produttivo” (corsivo aggiunto).
Il messaggio che proviene dal Diritto internazionale è chiaro: il settore del lavoro non può essere lasciato al libero arbitrio del mercato, ma deve costituire oggetto di politiche pubbliche nel quadro di una più ampia programmazione di stato sociale. E’ inoltre stabilito che deve esserci “la possibilità eguale per tutti di essere promossi, nel rispettivo lavoro, alla categoria superiore appropriata, senza altra considerazione che non sia quella dell’anzianità di servizio e delle attitudini personali”. La meritocrazia trova qui i parametri conformi a dignità umana, come tali prioritari rispetto a qualsiasi altra tipologia.

Il diritto umano al lavoro trova anche riscontro nella Convenzione internazionale contro la discriminazione razziale, nella Convenzione internazionale contro ogni forma di discriminazione nei riguardi delle donne, nella Convenzione internazionale sui diritti dei bambini, nella Convenzione internazionale sui diritti dei lavoratori migranti e dei membri delle loro famiglie, nella Carta africana sui diritti dell’uomo e dei popoli e in tanti altri strumenti giuridici, internazionali e regionali-continentali.
Nell’interpretazione del Comitato delle Nazioni Unite per i diritti economici, sociali e culturali il diritto al lavoro è un diritto che inerisce ad ogni persona ed è allo stesso tempo un diritto collettivo. Esso comprendente tutte le forme legittime di lavoro, dipendente o non.
La produzione di norme giuridiche internazionali in materia di lavoro ha il suo principale laboratorio nell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, OIL, con sede a Vienna. 

La sua Conferenza è formata da delegazioni nazionali ‘tripartite’, comprendenti i rappresentanti dei governi, dei sindacati dei lavoratori, delle organizzazioni padronali. Alcuni organi interni di controllo sull’applicazione della normativa sono formati da persone indipendenti dagli stati. Tra le molte Convenzioni OIL si segnala la numero 22 portante sulla politica dell’occupazione, la quale parla del diritto ad una “occupazione piena, produttiva e liberamente scelta”. Purtroppo questa prospettiva rimane molto lontana per milioni di esseri umani.
La disoccupazione e la mancanza di lavoro sicuro spingono i lavoratori a trovare occupazione nel settore informale dell’economia. Il vigente Diritto internazionale è molto deciso nello stigmatizzare sia il lavoro forzato sia il lavoro prestato in settori dell’economia informale. Il primo è definito dall’OIL come “qualsiasi lavoro o servizio esigito dalla persona sotto la minaccia di una qualsiasi penalità e per il quale la persona non si è offerta volontariamente”. 
Gli stati sono obbligati ad abolire, vietare e contrastare qualsiasi forma di lavoro forzato, come anche prescritto dall’articolo 5 della Convenzione sulla schiavitù. Gli stati devono altresì intervenire per ridurre quanto più possibile il numero di lavoratori che operano al di fuori dell’economia formale, obbligando i datori di lavoro a rispettare la legge e dichiarare i nomi dei loro lavoratori in modo da rendere possibile la garanzia dei loro diritti.
Gli stati sono inoltre obbligati a proibire il lavoro dei minori di sedici anni. Tra i loro obblighi, oltre quelli di assicurare non discriminazione, pari opportunità ed eguaglianza, c’è quello di adottare misure che assicurino che le misure di privatizzazione non ledano i diritti dei lavoratori. In particolare, il Comitato delle Nazioni Unite afferma senza mezzi termini che “specifiche misure destinate a incrementare la flexicurity dei mercati del lavoro non devono rendere il lavoro meno stabile o ridurre la protezione sociale dei lavoratori”. 
Già, la flexicurity. Ci si può ubriacare (colpevolmente) di flexicurity così come avvenne con la deregulation. 
Anche in sede di Unione Europea c’è il rischio che si istituzionalizzi il vizio della flexicurity. 
Il Diritto internazionale dei diritti umani esige che, in tema di occupazione, si parta col piede giusto (anzi, obbligato), cioè dal diritto al lavoro come diritto fondamentale che è, allo stesso tempo, diritto alla piena occupazione e diritto allo stato sociale. 
Il diritto al lavoro come tale non ha pertanto nulla a che vedere con l’ideologia neoliberista e relative vischiose varianti.
Il diritto umano al lavoro è strettamente collegato ai cosiddetti diritti sindacali, a fondare e far parte di sindacati. 
Il Diritto internazionale ‘riconosce’ i sindacati, non parla invece di ‘partiti’, se non nel contesto regionale dell’Unione Europea e del Consiglio d’Europa. 
E’ il caso di ricordare che dal 1961 è in vigore la Carta sociale europea, più volte riformata, sulla cui applicazione veglia il Consiglio d’Europa, in particolare attraverso il Comitato europeo dei diritti sociali, organo formato da esperti indipendenti. Ad esso possono presentare reclami proprio le associazioni sindacali e organizzazioni non governative.
La Dichiarazione universale non fa cenno allo sciopero. Ci pensa invece l’Articolo 8 (1 comma, lettera d) del Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali, che impone agli stati l’obbligo di garantire “il diritto di sciopero, purchè esso venga esercitato in conformità alle leggi di ciascun paese”. Il rinvio è dunque alla legge nazionale, la quale deve però essere conforme ai principi generali del Diritto internazionale, e considerare quindi lo sciopero quale articolazione connaturale al diritto fondamentale al lavoro. E’ appena il caso di sottolineare che l’esercizio di questo diritto deve avvenire nel rispetto di tutti gli altri diritti fondamentali, in uno spirito di alta responsabilità sociale.
Se ne dicono tante sui sindacati. Certamente, essi devono essere guidati da persone che abbiano nella mente e nel cuore i diritti dei lavoratori, e che non  vengano a compromesso con istanze vetero-corporative. 
Si possono e si devono criticare quelle dirigenze sindacali che si sono burocratizzate o, più o meno palesemente, partiticizzate. Ma chiediamoci: se non ci fossero stati i sindacati, sarebbe stato possibile avviare la ‘civiltà del lavoro’? E se non ci fossero oggi, sarebbe possibile riprendere quel cammino?
Riflessione finale, forse troppo ovvia. L’Articolo 1 della Costituzione Italiana proclama che “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”. 

E se il lavoro non c’è? Senza fondamento(a) la Repubblica crolla. E se al posto del lavoro si mette il precariato o la flexicurity, quanto ne guadagna la statica della Repubblica?”.

7. Veniamo ora al connesso fondamento costituzionale della tutela dei confini che, ed è questo il punto ulteriore da rammentare, va necessariamente collegato, (come strumento), al perseguimento dei fini fondamentali della sovranità costituzionale italiana, che sono appunti quelli di una democrazia sociale, e non liberale, in quanto fondata sul lavoro
Ci serviamo, per comprendere ciò, di questa rassegna della giurisprudenza della Corte costituzionale ad opera del prof.Guido Corso, che smentisce chiaramente ogni legittimità dell'accusa di xenofobia e razzismo quando sia in gioco la ponderazione di interessi tutelati che pone ineludibilmente in gioco la difesa della democrazia costituzionale: 

8. Chang, abbiamo visto, ci dice varie cose, con la sua consueta chiarezza fenomenologica da economista istituzionale (e dello sviluppo). Sintetizzando i passaggi essenziali, che vi traduco dai commenti di Arturo, riscontriamo il pieno allineamento di un'attendibile visione economica coi presupposti di diritto internazionale (ius cogens) e diritto costituzionale (nei suoi principi inderogabili da qualunque fonte e caratterizzanti i fini della sovranità). 
Chang spiega questo meccanismo autoevidente che discende dal considerare il mercato un "governante" senza confini in contrapposizione alle politiche di tutela dei propri cittadini che legittimano l'esistenza stessa degli Stati democratici: 
"I salari nei paesi più ricchi sono determinati più dal controllo dell'immigrazione che da qualsiasi altro fattore, inclusa la determinazione legislativa del salario minimo.
Come si determina il massimo della immigrazione? 
Non in base al mercato del lavoro ‘free’ (ndr; cioè globalizzato) che, se lasciato al suo sviluppo incontrastato, finirebbe per rimpiazzare l'80-90 per cento dei lavoratori nativi (ndr; oggi è trendy dire "autoctoni"), con i più "economici", e spesso più produttivi, immigranti. L'immigrazione è ampiamente determinata da scelte politiche. Così, se si hanno ancora residui dubbi sul decisivo ruolo che svolge il governo rispetto all'economia di libero mercato, per poi fermarsi a riflettere sul fatto che tutte le nostre retribuzioni, sono, alla radice, politicamente determinate."

8.1. Ovviamente si fa finta di ignorare come l'accoglienza illimitata, e forzosamente agganciata al territorio dello Stato nazionale, al di fuori di ogni presupposto di diritto internazionale e costituzionale che la possa imporre come regola legittima, è una scelta politica di incisione sul livello dell'occupazione e, conseguentemente, del livello delle retribuzioni, che corrisponde  giocoforza all'interesse dell'ordine internazionale oligarchico del mercato (basta avere la cultura storica ed economica minima per rendersi conto delle parole di Einaudi).
Chang, ne dà una spiegazione chiarificatrice ulteriore (che collima con le enunciazioni del diritto internazionale generale e costituzionale, per l'appunto, sopra riportate):
"Naturalmente, nel criticare l'incoerenza degli economisti free-market in tema di controllo dell'immigrazione (ndr; nel senso che l'abolizione dei confini è esattamente una scelta politica degli Stati e anche consapevolmente forte), non sostengo che il controllo dell'immigrazione debba essere abolito. Non ho bisogno di farlo perché (come in molti avranno ormai notato) non sono un free-market economist.
I vari Paesi hanno il diritto di decidere quanti immigranti possano accettare e in quali settori del mercato del lavoro (ndr; aspetto quest'ultimo, che i tedeschi, ad es; tendono in grande considerazione).
Tutte le società hanno limitate capacità di assorbire l'immigrazione, che spesso proviene da retroterra culturali molto differenti, e sarebbe sbagliato che un Paese vada oltre questi limiti.
Un afflusso troppo rapido di immigrati condurrebbe non soltanto ad un'accresciuta competizione tra lavoratori per la conquista di un'occupazione limitata, ma porrebbe sotto stress anche le infrastrutture fisiche e sociali, come quelle relative agli alloggi, all'assistenza sanitaria, e creerebbe tensioni con la popolazione residente.
Altrettanto importante, se non agevolmente quantificabile, è la questione dell'identità nazionale.
Costituisce un mito - a un mito necessario ma nondimeno un mito (ndr; rammentiamo che lo dice un emigrato)- che le nazioni abbiano delle identità nazionali immutabili che non possono, e non dovrebbero essere, cambiate. Comunque, se si fanno affluire troppi immigrati contemporaneamente, la società che li riceve avrà problemi nel creare una nuova identità nazionale, senza la quale sarà difficilissimo mantenere la coesione sociale. E ciò significa che la velocità e l'ampiezza dell'immigrazione hanno bisogno di essere controllate".

La catena di montaggio dell'immigrazione punta dunque a questo risultato di "disgregazione" sociale senza curarsi in alcun modo della progressiva impossibilità di correggerlo, rischiandosi un violento collasso delle strutture fisiche e sociali delle società "riceventi". Può darsi che i privati e solerti sostenitori dell'accoglienza "a prescindere" siano in buona fede, e quindi, per proprio limiti di elementare cultura economica e della legalità costituzionale, all'oscuro di questi riflessi devastanti della loro azione. 
Ma rimane il fatto che la loro azione produce esattamente gli effetti che Einaudi, nel nome del liberismo più drastico (siamo infatti nel 1910, alle soglie di sconquassi mondiali che non vorremmo certo veder ripetuti), auspicava con la "teoria della porta aperta": in base a tale, anche al tempo, super-emotiva propaganda, i "pacifisti e i liberisti" reclamavano come prioritario il diritto della oligarchia cosmopolita capitalista di "produrre la merci a basso costo", contro l'assurda pretesa de "i partiti socialisti ed i sindacati operai dei paesi che chiamansi più evoluti" di voler tutelare il livello d'occupazione e le condizioni di dignità del lavoro di intere nazioni...

19 commenti:

  1. Propio oggi, parlando con un amico, in merito all'affermazione della serracchiano, notavo come la sinistra liberal e cosmopolita buonista abbia, l'inespiabile colpa di aver creato un mostro.
    Mostro che nasce, da un senso di colpa e da un moralismo peloso, indotto sopratutto nella fascia di popolazione più istruita.
    Che molto spesso, meschinamente crede di essere al riparo dalla svalutazione reddituale cagionata da flussi sregolati di migranti.
    E forse proprio l'immigrazione sarà l'anello che si romperà prima, proprio per quell'istinto ,di conservazione, che più o meno ha ogni comunità umana.
    La brama di svalutare il lavoro, attraverso l'ampliamento smisurato dell'offerta, potrebbe rompergli il giocattolo tra le mani.

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  2. Che poi per sapere a quali tipi di giochetti “divide et impera” si presti l’immigrazione, evidentissimi nel caso americano, non è che dovevamo aspettare Alesina.

    Lettera di Engels a Herman Schlüter del 30 marzo 1892 (MECW, vol. 49, pag. 393) sulla situazione americana: “These immigrants, however, are split up into nationalities which understand neither each other nor, for the most part, the language of the country. And over there your bourgeoisie is far more adept than the Austrian government at playing off one nationality against another—Jews, Italians, Bohemians, etc., against Germans and Irishmen, and each against the other so that in New York the workers' living standards vary, or so I understand, to an extent unheard of elsewhere. And on top of that you have the complete indifference of a society, which has grown up without any of the easy-going background of feudalism and upon a purely capitalist basis, towards human beings who have fallen victim to the competitive struggle: “there will be plenty more, and more than we want, of these damned Dutchmen, Irishmen, Italians, Jews and Hungarians” — and in addition, standing in the background, you have John Chinaman who far outdoes them all in his ability to live on next to nothing.

    Lettera di Engels a F. A. Sorge del 2 dicembre 1893 (in MECW, vol. 50, pag. 236), sempre sull’argomento immigrazione in USA, “which splits the workers into two
    groups, native-born and foreign, and the latter again into 1. Irish, 2. Germans, 3. a number of smaller groups, each speaking only its own language— Czechs, Poles, Italians, Scandinavians, etc. And, in addition, the negroes. To form a party of one’s own out of all these calls for exceptionally strong incentives. Every now and again a powerful élan may suddenly make itself felt, but all the bourgeoisie has to do is to stick it out passively, whereupon the dissimilar working-class elements will disintegrate again.

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  3. Tutto ciò avrà un qualche rapporto col fatto che in USA non c’è mai stato un partito socialista degno di questo nome? Stando al vecchio Walter Korpi, marxista della mitica scuola svedese che piace tanto a Cesaratto, parrebbe proprio di sì (The Democratic Class Struggle, Routledge & Kagan Paul, London-Boston-Melbourne-Henley, 1983, pag. 29): “It also remains to be explained why American workers did not come to use their suffrage to block anti-labour legislation and to limit the anti-union use of state power.
    Although the mainstream explanations of 'American exceptionalism' point to issues of relevance in this context, it appears to me that the major factors behind the absence of a socialist labour movement in America must be sought in the difficulties for organization which American workers have been confronted with. The major part of these difficulties are rooted in the fact that the American working class was created through slavery and through successive waves of ethnically very heterogeneous immigrants. The racial and ethnic heterogeneity of the American working class generated spontaneous social organization along ethnic lines and inhibited collective action on the basis of class. American employers also became skilled in exploiting the racial and ethnic cleavages among workers. In addition, immigrants generally tended to define their stay in the new country as a temporary one, and often for a long time retained the hope of returning to 'the old country', something which probably counteracted longterm commitments to collective organization.


    Ovvero, con buona pace di Negri e dei negriani (o forse sarebbe il caso di chiamarli negrieri), un conflitto sociale efficace, cioè il sale, se non la vita stessa, di una democrazia sociale come la nostra, richiede un certo grado di stabilità e omogeneità delle identità politiche e sociali. Piaccia o meno.

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    1. Dai che le influenze d'oltreoceano, nella loro proiezione federalista europea (e non solo, naturalmente), hanno reso gli italiani ben capaci di smontarsela da soli e "abilmente", l'identità politica e sociale: e ben prima dell'arrivo dell'immigrazione sostitutiva di massa.

      Ma credo che tutti i localismi sorti negli Stati democratici europei prima dell'attuale "soluzione finale", rispondano alla stessa regia...

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    2. Sono d'accordo e dirò di più: se la polemica sull'immigrazione diventa un folcloristico culto della "terra e dei morti" (Barrès), anziché essere connessa alla democrazia sostanziale, si rivela un accettabilissimo complemento del liberismo.

      Invito caldamente chi conosce il francese a seguire la polemica fra Zemmour e Sapir.

      Sostanzialmente Zemmour accusa Sapir di aver traviato la Le Pen, via Florian Philippot, distogliendola dall'immigrazione e da "juguler l'Islam", per parlare di euro (quando ormai "l'économisme est passé de mode": è un problema di moda!).

      Così gli risponde Sapir: "Opposer ces courants et faire le choix de la thématique identitaire, cela revient à évacuer ce que le souverainisme contient de réellement critique vis-à-vis du système. Car, le souverainisme identitaire n’est nullement incompatible avec l’ordre des choses tel qu’il existe, avec l’Union européenne, avec le néo-libéralisme. Le souverainisme social et le souverainisme politique, eux, portent une critique radicale de ce même ordre des choses. Dès lors, on voit bien le jeu conservateur se révéler, tant idéologiquement que politiquement. Dans les grandes manœuvres qui s’annoncent pour le dépeçage du FN, certains rêvent de le voir revenir à la position de supplétif de la droite traditionnelle, ce qui est d’ailleurs exactement le rêve de Macron qui lui espère qu’un FN retourné à sa ligne identitaire stérilisera une partie des voix de la droite, lui laissant politiquement le champ libre pour mener à bien sa propre recomposition. C’est à ce rêve qu’Eric Zemmour vient d’apporter sa contribution, qu’il en ait conscience ou non."

      Ovviamente la distinzione fra "sovranismo" politico e sociale da noi non si pone (per le ragioni ben spiegate (n. 3) da Basso), ma il discorso direi che fila come un TGV.

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    3. Il problema definitorio della sovranità che pare legittimo a Sapir, in realtà, è per me motivo di perplessità da lungo tempo: e non basta a spiegarlo il diverso ordinamento costituzionale.
      Ammetterai che proprio questa definizione "politica", separabile da quella sociale, è in sé un problema per il dibattito e la comprensione nei termini del "senso comune". In Francia (anzi, potrebbe pure spiegare una parte essenziale dell'atteggiamento dei melenchoniani verso la Le Pen, a pensarci bene).

      Questo è uno dei motivi per cui nel post sul contenuto della sovranità, prendendo spunto dalla Brexit, ne focalizzai il contenuto tipico in termini contemporanei (partendo da Mortati): a me pare che la Francia trovi ostacolo più in una sua storia politico-culturale che nella vera e propria struttura "tradizionalista" della sua Costituzione.

      Basso, peraltro, rispetto all'Italia, parla sulla base di uno "ius conditum" nella nostra Costituzione che è poi rimasto...a mezz'aria (come dimostra il brano sull'antisovrano citato da Francesco nei commenti al percedente post: su cui torneremo, visto che Padellaro ha preso in giro la Meloni dicendo che "la gente pensa che il sovranismo abbia a che fare col ritorno alla monrachia", tanto per capirsi sul livello mediatico "medio" del discorso sul tema).

      Al tempo stesso, proprio la traccia del diritto internazionale generale indicata in questo post, come ius cogens caratterizzante le relazioni sovrane tra Stati democratici, avrebbe consentito anche ai giuristi francesi una ridefinizione "corrente" della sovranità in senso democratico-sociale.

      Forse, (essendo Sapir un economista) sei in grado di ritrovare analoghe formulazioni nel costituzionalismo francese anche posteriore alla Costituzione del 1958 (magari traducendole "per il pubblico", dato che, in verità, il francese giuridico non è poi così intuitivo :-)...).

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    4. Non conosco abbastanza la dottrina giuridica francese da poter dare una risposta precisa. Diciamo, in generale (cioè senza tirar giù venti volumi dallo scaffale…;-)), che anch'io penso che la spiegazione vada cercata nella storia costituzionale: in Francia non si è mai realizzata una netta distinzione fra potere costituente e potere costituito, quindi la sovranità tende a rimanere in un pregiuridico sociologicamente amorfo, anche e prima di tutto nel suo titolare, cioè il popolo, e la legittimità a poter essere in qualsiasi momento “riattivata” a scapito della legalità.

      Non è un caso che Schmitt, nella sua Dottrina della costituzione (pag. 77) scriva: “La grandezza politica della rivoluzione francese si trova nel fatto che nonostante tutti i principi liberali e tipici dello Stato di diritto l’idea dell’unita politica del popolo francese non cessò neppure un istante di essere il punto di riferimento decisivo.”.

      D’altra parte Crisfulli (in Stato popolo governo che ho citato parecchie volte, pagg. 12-13) osserva: “Dove, infatti, in nessun modo si riuscirebbe, adottando il criterio della legalità come conformità alle norme sulle fonti, a giustificare l’avvento della Quarta Repubblica, realizzatosi ad opera di un « governo provvisorio » di fatto, che era, all’inizio, ancor meno di un « governo locale » (piuttosto, un « comitato di insorti »); attraverso un referendum e un’assemblea costituente che nessuna norma costituzionale anteriore prevedeva. […] Per fondare la continuità dell’ordinamento francese del 1946 rispetto alla Terza Repubblica, rimanendo sul terreno delle dottrine che, secondo l’uno o l’altro orientamento, impostano il problema in termini di limiti alla revisione, bisognerebbe invocare quella legittimità sostanziale tanto spesso richiamata, infatti, nella dottrina francese e alla quale si compiace appellarsi in molte occasioni, con accento inconsapevolmente schmittiano, il generale De Gaulle.

      In un certo senso Schmitt è un autore molto francese, e viceversa: infatti, tornando a noi, pure la teoria della sovranità di Sapir, deve parecchio a Schmitt (da cui pure in parte prende le distanze).

      Per quanto mi riguarda è un gap, incolmabile, che va a tutto merito della nostra cultura giuridica. Bisogna sempre tenerlo presente.

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    5. Ricorrendo a wikipedia
      "La définition retenue aujourd'hui en droit est celle énoncée par Louis Le Fur à la fin du XIXe siècle : « La souveraineté est la qualité de l'État de n'être obligé ou déterminé que par sa propre volonté, dans les limites du principe supérieur du droit, et conformément au but collectif qu'il est appelé à réaliser»

      E' evidente che tutto sta nel "s"e e "come" raccordare quel "but collectif qu'il est appelé à réaliser" con i "limites du principe supérieur du droit".
      Se il fine è la realizzazione dei diritti fondamentali dei cittadini (come dovrebbe essere il "minimum" proprio di ogni democrazia), e se questo insieme di diritti ha contenuto distintivo dell'assetto sociale, i principi superiori sono quelli di livello cosituzionale.

      Certo rimane essenziale che risulti una prassi interpretativa consolidata, o meno, la consapevole enucleazione concettuale, quali diritti sociali, di taluni enunciati della Dichiarazione del 1789, richiamata nel preambolo della Costituzione (sia del 1946 che del 1958)...

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    6. … Le ragioni di debolezza della democrazia francese sono, a nostro avviso, molteplici, di natura sia politica che sociale. Cominciamo dalle prime che sono le più evidenti e quindi anche le più facili da esaminare.

      Politicamente, il regime della Terza Repubblica non è stato mai un regime compiutamente democratico. Nel suo Traité de science politique, Burdeau ha illustrato assai acutamente gli aspetti politico-giuridici di quel regime, che egli chiama di “democrazia governata”, un regime cioè in cui la sovranità spetta solo nominalmente al popolo, che in realtà è governato dall’alto, dai “notabili” che sono gli effettivi detentori del potere. Non per nulla del resto i giuristi francesi hanno sempre preferito alla espressione di “sovranità popolare” quella di “sovranità nazionale”, dove la nazione non è che un’entità mitica, astratta, non identificabile con l’effettiva realtà popolare, fatta di differenze e di antagonismi, ma al contrario esprimentesi in un’ancor più astratta “volontà generale” che è in effetti la volontà dei governanti, e quindi degli interessi da essi rappresentati, gabellata come volontà di tutta la nazione. Il bicameralismo, la divisione dei poteri, l’indipendenza giuridica e politica degli eletti rispetto agli elettori sono gli strumenti costituzionali su cui poggia la finzione di questa “democrazia governata”.

      Si pensi del resto che la costituzione del 1875 fu una costituzione di ispirazione addirittura monarchica, e che la progressiva democratizzazione della repubblica si effettuò attraverso successivi adattamenti che, più che dar vita ad un regime di vera democrazia, cercavano in realtà di costringere la pressione democratica che saliva dal basso entro schemi ben congegnati per difendere l’effettivo esercizio del potere a beneficio degli interessi dominanti. Una democrazia, per essere reale, dovrebbe garantire al popolo non solo la titolarità ma l’effettivo esercizio del potere: i suoi eletti dovrebbero interpretarne e applicarne fedelmente la volontà, di cui il governo dovrebbe essere il leale esecutore attraverso il retto funzionamento della pubblica amministrazione. In realtà questi diversi passaggi hanno sempre funzionato in Francia con molta approssimazione, e, soprattutto, nel senso di sottrarre al popolo il massimo di esercizio e di controllo del potere…
      ” [L. BASSO, La crisi della democrazia francese e le sue cause, in Problemi del socialismo, giugno 1958, n. 6, 407-426]. (segue)

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    7. In Francia il concetto di sovranità nazionale (e non popolare) si deve principalmente alla dottrina costituzionale di Sieyes il quale, perciò, si trovava a dover contrapporre governo rappresentativo e democrazia tout court. Come ci informa M. Gauchet (La Révolution des droits de l’homme, Gallimard, Paris, 1989, 18-19), quando Sieyes conia l’espressione rappresentanza nazionale, riflesso della sovranità nazionale (ovvero “le peuple dans son activite politique n’est que dans la representation nationale; il ne fait corps que la”), ricorre infatti ad una massima del diritto costituzionale monarchico: “la nation ne fait pas corps en France; elle reside toute dans la personne du Roi”. Si passa dal livello della regalità a quello di nazione, ma il risultato non cambia: la “democrazia” rimane un fenomeno strettamente borghese. Bisognerà aspettare il costituzionalismo democratico.

      Come ci spiega Basso, citando G. Burdeau, la democrazia è stata quindi intesa (nei regimi liberali) come “democrazia governata”. Quindi non possiamo affidarci a Sieyes che, tuttavia, è il grande teorico del “potere costituente” e che grande influenza ha avuto, come ci ricorda Arturo, proprio su C. Schmitt.

      Riprendendo in mano il Principe senza scettro, ho scoperto che proprio G. Burdeau è forse il solo costituzionalista francese (ma Arturo mi corriggerà!) che parla di “sovranità popolare” e che Basso non a caso cita a più riprese quando tratta dello “sviluppo storico della democrazia”:

      Che cosa s’intende infatti per sovranità popolare?
      “In ogni tempo furono in presenza due concezioni, ma di cui toccò all’epoca rivoluzionaria - precisamente perché, per la prima volta, si poneva il problema pratico dell’organizzazione di un regime fondato sulla sovranità del popolo - mettere chiaramente in rilievo le opposte conseguenze. Secondo la prima tesi, che sembra bene avere per sé l’autorità di una lunga tradizione nel pensiero democratico, la sovranità risiede in modo indiviso nel gruppo nazionale. Essa è una prerogativa di cui soggetto è la collettività tutta e a cui l’individuo non partecipa che nella misura della sua appartenenza al tutto. Secondo l’altra concezione, al contrario, è in ciascun individuo che ha sede la sovranità, di modo che la potenza sovrana del popolo non può esser altro che un modo di essere delle relazioni che si stabiliscono fra le sovranità individuali…Si è abbastanza inclini oggi a vedere, nell’opposizione di questi due modi di intendere la sovranità, il tipo della questione scolastica oziosa e superata. Questo giudizio ha il vantaggio di autorizzare gli uomini politici a eludere una risposta singolarmente carica di conseguenze.

      Ma, in realtà, è un giudizio infondato giacché non è troppo dire che, dalla scelta fra sovranità del gruppo e sovranità dell’individuo, dipende il senso del regime che sarà stabilito. Alcuni esempi lo proveranno. È dapprima il modo d’espressione della sovranità che varia: la sovranità della nazione si adatta a una rappresentanza globale, si accorda col suffragio censitario; la sovranità dell’individuo postula il suffragio universale, quando non addirittura la democrazia diretta. D’altra parte, mentre l’idea di una sovranità indivisa ripugna alla divisione dell’unità nazionale che implicano i partiti, la sovranità individuale trova la sua espressione naturale nei raggruppamenti di opinioni o di interessi. Inoltre, l’indipendenza dei governanti, che il principio di una sovranità di gruppo intiero permette di salvaguardare perché si tratta, per essi, di statuire in nome del tutto, scompare tosto che si ammette che la loro autorità dipende dalla delega di potere che ogni cittadino individualmente ha loro consentito. È d’altronde proprio nella situazione politica e giuridica dei governanti che l’opposizione fra le due concezioni relative alla sede della sovranità ha le sue ripercussioni essenziali
      . (segue)

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    8. Si capisce allora che, in quanto tocca un punto così capitale dell’organizzazione costituzionale, la distinzione che ci occupa non possa essere qualificata come questione scolastica. In verità, è la concezione della democrazia ch’essa mette in causa poiché, a seconda che l’una o l’altra tesi sia ritenuta come principio direttivo dell’organizzazione dell’esercizio del Potere, si traccerà la cornice favorevole a una democrazia governata o a una democrazia governante” [in nota Burdeau, Traité de science politique, t. V, 1953, 387-8]

      … Vero è che anche Rousseau, pur essendo fautore della sovranità dei singoli, nega agli stessi il diritto di far valere la propria volontà (“volontà particolare”), e impone ad essi di esprimere la volontà unitaria della nazione, la volontà generale, in cui praticamente si annulla la porzione singola di sovranità. In altre parole, nella concezione rousseauiana della volontà generale, che pure fu alla base di tanti sviluppi democratici, il cittadino che partecipa alla sovranità non deve mai esprimere il proprio punto di vista particolare, e la volontà generale non nasce da un confronto di tanti punti di vista particolari: chi così si comportasse sarebbe un cattivo cittadino, dato che il dovere di ognuno è di esprimere la volontà generale, cioè la volontà unitaria del corpo sociale. Ed è appunto perché si presume che la maggior parte dei cittadini si sia comportata così che si interpreta la volontà della maggioranza come volontà generale e sovrana, non perché si riconosca alla maggioranza un diritto di imporre il proprio punto di vista e tanto meno i propri interessi alla minoranza.

      Questa finzione poteva appunto durare fin tanto che durava il suffragio ristretto e censitario. Ossia fin tanto che durava il governo dei notabili, i quali potevano pretendere, in nome di siffatti principi, di rappresentare la volontà e l’interesse generale e di governare quindi in base al dettato del diritto naturale o della ragione. Ma quando il suffragio universale portò nell’esercizio di questo potere sovrano le lacerazioni e i contrasti di classe, il mito s’infranse e il popolo apparve nella sua vera realtà: “piuttosto come una molteplicità di gruppi distinti che come una massa coerente”.

      La sovranità popolare non può d’ora in avanti che essere la sovranità di ciascuno, ciascuno avendo eguali diritti a far pesare la propria volontà, la propria situazione, i propri interessi nella formazione di una volontà collettiva che dev’essere il concreto risultato di una contrapposizione di interessi e di volontà…
      ” [L. BASSO, Il principe senza scettro, Feltrinelli, 1958, 56-58].

      A Padellaro potremmo cominciare a inviare una copia del Principe senza scettro. E’ un po' “obsoleto”, ma vediamo se il nostro continua ancora a prendere in giro

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  4. "Ma credo che tutti i localismi sorti negli Stati democratici europei prima dell'attuale "soluzione finale", rispondano alla stessa regia...".

    Le posso assicurare con assoluta certezza, per esperienza diretta e... cosciente (vivo in Veneto, non so se mi spiego) che sì, è verissimo.

    I gatekeepers e i finti (loro) nemici ce li hanno messi tra le balle da gran tempo, ben prima dei ridicoli Fivestars.

    Siamo alle solite: manipolazione, svariatissime modalità di pressione indiretta e intere immani mandrie di idioti (anche qui, bipartisan: federalisti liberalpiddini e localisti).

    Le oligarchie hanno realizzato la botte di ferro - a loro pro.

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  5. Ma anche in italia teniamo in gran conto l impatto dell immigrazione sul mondo del lavoro.
    Non ha detto de grawe che dobbiamo svalutare internamente di un altro 20% per tornare competitivi internazionalmente?
    Ecco qui come.
    Quando avremo fatto anche questa svalutazione gli sbarchi saranno fermati.

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    1. sapete che mi piacciono certi particolari:
      "De Grauwe studied economics at the Katholieke Universiteit Leuven from 1964 until 1969."
      https://en.wikipedia.org/wiki/Paul_De_Grauwe

      Proviamo un po a indovinare quale economia Katholiken avrà mai studiato il Nostro...la stessa di Prodi, Draghi, Monti, Macron, ecc. ecc.

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    2. Papa Francesco: "Ogni parrocchia ospiti una famiglia di profughi"

      http://www.ilgiornale.it/news/mondo/papa-fracesco-ogni-parrocchia-ospiti-famiglia-profughi-1167440.html

      L'appello del Papa ai romani: "Accogliete tutti gli immigrati"

      http://www.ilgiornale.it/news/lappello-papa-ai-romani-accogliete-tutti-immigrati-1121739.html

      E poi dicono che i papi non si interessano di economia....

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  6. quel giorno ci vorrà una forza parlamentare che chieda le quote (come in usa) per immigrati anche nel pubblico.
    Così se lo prendono in quel posto gli elettori pd (82% statali vota pd).

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  7. A integrazione di quanto riportato da Arturo sul perché negli Stati Uniti non sia mai nato un vero partito socialista, suggerisco questa lettura da Platone: "'... poiché l'animale uomo è di carattere difficile, e mostra di non volersi adattare ... alla necessaria distinzione (tra) schiavo e padrone, quella degli schiavi è una proprietà difficile. Ciò è rivelato nelle frequenti rivolte dei Messeni e negli stati in cui si posseggono molti schiavi di una sola lingua... Guardando a tutto questo ci sarebbe da rimanere veramente incerti sul come comportarsi per tutte le cose siffatte. Ci restano due soli mezzi per risolvere il problema: chi vuol avere schiavi che gli siano soggetti più facilmente non deve tenerne di una sola nazione, anzi devono essere quanto più possibile di lingua diversa, in secondo luogo deve allevarli bene non solo per far piacere a loro, ma avendo in vista anche il proprio interesse ...' (Platone, Leggi, 777 b-c) Quasi superfluo osservare che dal momento in cui non più la persona ma la sua forza lavoro è merce il secondo mezzo diventa inutile.

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  8. Grazie di avermi rammentato l'esistenza dello ius cogens (cioe' della tutela dei valori considerati fondamentali ed a cui non si può in nessun modo derogare da parte dei membri della comunità internazionale, cioe' da parte degli stati): certe nozioni sembrano talmente scontate che ci si dimentica del processo storico che ne ha prodotto la genesi.

    Lo ius cogens e' per sua natura in continuo divenire (fino a non molto tempo fa la schiavitu' era ancora legale in molti stati) ed il 'capitalismo trionfante' (cit. D. Fusaro) in realta' sta via via erodendo la lista dei valori fondamentali (diritti sociali in primis) dell'attuale ius cogens.

    Ora l'unico modo per contrastare il tentativo (gia' ben avviato) in atto e' quello di opporsi all'interno dei singli stati, perche' solo all'interno dei singoli stati c'e' la possibilita' di contrastare la perdita progressiva dei diritti sociali.

    Se non ricordo male sono cinque le sovranita' che qualificano uno stato sovrano e le cito in quello che, secondo me, osservando il nostro risorgimento, e' l'ordine di importanza:

    1) sovranita' culturale (per es. la Costituzione Repubblicana la vedo come la massima espressione della nostra passata sovranita' culturale);
    2) sovranita' territoriale;
    3) sovranita' economica e monetaria;
    4) sovranita' diplomatica;
    5) sovranita' militare.

    Con la perdita della II GM abbiamo perso le sovranita' 4 e 5.
    Con l'adesione ai trattai EU, cioe' con la rinuncia alla nostra sovranita' culturale, abbiamo dapprima perso la sovranita' 3 ed ora stiamo perdendo anche la sovranita' 2.

    Siccome il capitalismo e' il fattor comune della sovranita' culturale di tutti gli stati del globo (ed il capitalismo per la sua stessa natura comprime la quota salari ed i diritti sociali) l'unica speranza di mantenere l'attuale ius cogens e' che si creino un certo numero di stati guida (poli) in cui si affermi nel modello culturale statale il diritto/dovere di intervento dello stato in economia (ai fini della piena occupazione).

    Per esempio la Cina, dove l'elite "comunista" al potere determina la politica economica, non ha ancora rimesso in discussione il suo passato modello (dobbiamo ammettere di successo) mercantilistico e quando dovesse invece decidere di puntare sull'aumento dei consumi interni potrebbe indicare la vera via verso la pace.

    La Russia di Putin sembra invece averlo fatto e contestualmente si sta riarmando a tappe forzate perche' sa che sara' inevitabilmente aggredita per questa scelta (come gia' avvenuto in passato).

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