1. I segnali che lancia il sistema mediatico-culturale di controllo possono apparire contrastanti.
Se l'obiettivo finale, o meglio lo step prossimo venturo, sarebbe quello di diffondere e rendere operativo il paradigma della self-sovereign identity, rendendo progressivamente e irreversibilmente "inutili" gli Stati, occorre comprendere, tuttavia, che, per poter avviare questa mega start-up politico-tecnologica hanno bisogno dell'attuale cooperazione degli stessi Stati, affinchè, mediante la forza normativa formale, ed ancora decisiva, di cui dispongono, apprestino il quadro regolatorio fondamentale in cui il paradigma sia inizialmente validato e reso cogente.
Insomma, l'innesco ha bisogno della sovranità statale, a condizione che essa già risulti pre-orientata e fondamentalmente condizionata, dal diritto internazionale privatizzato.
2. Di questo fenomeno, di cooperazione attiva degli Stati nella loro stessa de-sovranizzazione, ne abbiamo vasti esempi già operativi: il primo, il più eclatante, è la stessa moneta unica, con il processo a cascata della soft law realizzativa dell'Unione bancaria; ma certamente non è da meno il sistema dell'accoglienza no-limits, fondato sul recepimento statale di fonti €uropee forzate fino all'alterazione sistematica delle stesse previsioni dei trattati, che pure, già di per sè, assolvono allo scopo di prefigurare il mercato del lavoro deflazionista-salariale globale (in particolare, e correlato allo "ius soli", p.12), condito di africanizzazione e islamizzazione per consolidare meglio l'accettazione della destrutturazione istituzionale, sociale e identitaria che il sistema comporta.
2.1. E al riguardo, rinviando ai post già linkati (e ai links in essi segnalati), ci pare eloquente richiamare questo sunto del pensiero di Kalergy (qui, p.3): “Kalergi proclama l’abolizione del diritto di autodeterminazione dei
popoli e, successivamente, l’eliminazione delle nazioni per mezzo dei
movimenti etnici separatisti o l’immigrazione allogena di massa...
...Eliminando
per prima la democrazia, ossia il governo del popolo, e poi il popolo
medesimo attraverso la mescolanza razziale, la razza bianca deve essere
sostituita da una razza meticcia facilmente dominabile. Abolendo il
principio dell’uguaglianza di tutti davanti alla legge e evitando
qualunque critica alle minoranze con leggi straordinarie che le
proteggano, si riuscirà a reprimere la massa."
2.2. Anche se poi questo passo può essere inteso, senza equivoci e vistose defaillances giuridiche e culturali, soltanto richiamando il vero contenuto del principio di autodeterminazione:
“… Il principio di autodeterminazione NON IMPLICA IL DIRITTO DI SECESSIONE DA PARTE DI MINORANZE DESIDEROSE… di ergesi a STATO INDIPENDENTE [in nota: Anzi, il diritto di secessione delle minoranze fu espressamente escluso, secondo quanto risulta dai lavori preparatori della Carta delle Nazioni Unite, dalla nozione di autodeterminazione: United Nations Conference (on International Organization, Documents, VI), cit., 298. E la prassi internazionale in alcuni casi di tentata secessione (per es. Katanga, Biafra) è stata del tutto conforme a tale scelta].
I diritti delle minoranze possono essere garantiti in uno Stato retto da un regime democratico rispettoso dei diritti dell'uomo in generale e dei diritti specifici delle minoranze in particolare e disposto, a tal fine, a concedere ampie autonomie di governo a determinati gruppi etnici stanziati su una parte del territorio nazionale [in nota: il rispetto dell'autodeterminazione può essere garantito anche con la concessione di ampie autonomie: (per questa soluzione si veda Tran van Minh, op. cit., 107 a proposito della questione kurda e di quella del Sud Sudan) o semplicemente attraverso il rispetto dei diritti delle minoranze così come specificati in numerosi accordi internazionali (si veda in proposito Capotorti, Etude des droits des personnes appartenant aux minorités ethniques, religieuses et linguistiques, Nations Unies, New York, 1979). Le minoranze, infatti, nella misura in cui sia loro garantita un'identità storico-culturale, non sono altro che articolazioni del popolo complessivamente considerato al quale, nella sua totalità, spetta il diritto all'autodeterminazione.
“… Il principio di autodeterminazione NON IMPLICA IL DIRITTO DI SECESSIONE DA PARTE DI MINORANZE DESIDEROSE… di ergesi a STATO INDIPENDENTE [in nota: Anzi, il diritto di secessione delle minoranze fu espressamente escluso, secondo quanto risulta dai lavori preparatori della Carta delle Nazioni Unite, dalla nozione di autodeterminazione: United Nations Conference (on International Organization, Documents, VI), cit., 298. E la prassi internazionale in alcuni casi di tentata secessione (per es. Katanga, Biafra) è stata del tutto conforme a tale scelta].
I diritti delle minoranze possono essere garantiti in uno Stato retto da un regime democratico rispettoso dei diritti dell'uomo in generale e dei diritti specifici delle minoranze in particolare e disposto, a tal fine, a concedere ampie autonomie di governo a determinati gruppi etnici stanziati su una parte del territorio nazionale [in nota: il rispetto dell'autodeterminazione può essere garantito anche con la concessione di ampie autonomie: (per questa soluzione si veda Tran van Minh, op. cit., 107 a proposito della questione kurda e di quella del Sud Sudan) o semplicemente attraverso il rispetto dei diritti delle minoranze così come specificati in numerosi accordi internazionali (si veda in proposito Capotorti, Etude des droits des personnes appartenant aux minorités ethniques, religieuses et linguistiques, Nations Unies, New York, 1979). Le minoranze, infatti, nella misura in cui sia loro garantita un'identità storico-culturale, non sono altro che articolazioni del popolo complessivamente considerato al quale, nella sua totalità, spetta il diritto all'autodeterminazione.
[F. LATTANZI, Digesto, IV
edizione,Torino, 1987, Autodeterminazione dei popoli, 4 ss]. Si
potrebbe continuare con analoga dottrina...
2.3. A questo passaggio esplicativo, aggiungerei questo passo citato da Arturo, sul quale dovrebbe essere agevole fare la connessione col quadro che stiamo descrivendo in relazione al paradigma costituzionale...keynesiano (per chi abbia abbastanza pazienza e interesse a studiare):
"Lato economico: europeismo “antirestrizionista”= neoliberismo (Caffè, 1945).
Lato politico: scaricare la colpa del conflitto sulla comunità sotto attacco, perché resiste o potrebbe resistere, è un espediente vecchio quanto l’imperialismo: diciamo dal dialogo dei Meli e degli Ateniesi in poi.
In ogni caso, commentando lo scritto di Keynes riportato nel post, Skidelsky osserva (Keynes. The Return of the Master, Penguin, Londra, 2010, s.p.) che “the idea that ‘globalization’ can lead to war, national self-sufficiency to peace, was of course a complete reversal of the traditional teaching.”; tuttavia, aggiungendo la citazione di questo passo, conclude che “Keynes endorsed a qualified internationalism”. Dico, qualcuno avesse avuto il sospetto che si debba “scegliere” fra artt. 4 e 11…"
Lato politico: scaricare la colpa del conflitto sulla comunità sotto attacco, perché resiste o potrebbe resistere, è un espediente vecchio quanto l’imperialismo: diciamo dal dialogo dei Meli e degli Ateniesi in poi.
In ogni caso, commentando lo scritto di Keynes riportato nel post, Skidelsky osserva (Keynes. The Return of the Master, Penguin, Londra, 2010, s.p.) che “the idea that ‘globalization’ can lead to war, national self-sufficiency to peace, was of course a complete reversal of the traditional teaching.”; tuttavia, aggiungendo la citazione di questo passo, conclude che “Keynes endorsed a qualified internationalism”. Dico, qualcuno avesse avuto il sospetto che si debba “scegliere” fra artt. 4 e 11…"
3. Svolte queste premesse chiarificatrici, che ci sono parse importanti per interpretare correttamente il linguaggio giuridico e la sostanza economica dei fenomeni che analizziamo, mi soffermerei su un articolo in cui mi sono imbattuto leggendo la prima pagina de "Il Messaggero" odierno e che conferma come l'innesco della desovranizzazione statale necessiti di un'attiva cooperazione preparatoria degli Stati stessi.
Si tratta di un'intervista a Franco Bernabè (esperienze professionali global-mercatiste e memberships cultural-associative "internazional-mondialiste" di assoluto rilievo), in questo caso nelle vesti di "presidente di Unesco Italia", il cui titolo è
"A Roma il meglio c'è, lo Stato torni forte".
4. Si potrebbe sobbalzare, quindi, nel sentire un membro dello steering committee del Gruppo Bilderberg, formatosi come ricercatore di economia presso la Fondazione Einaudi, membro dell'European Roundtable of Industrialists e dell'International Council di JP Morgan, già transitato per l'OCSE, che invoca il ritorno di uno Stato "forte".
E che comunque fa una ricostruzione storico-istituzionale ed economica quasi-interventista e condivisibile:
"C'è anzitutto una questione di fondo. Quella del grande mutamento di ruolo che Roma ha avuto negli ultimi venti anni.
La riforma del titolo V della Costituzione ha ridotto le funzioni dello Stato centrale. E ha sacrificato una burocrazia ministeriale che, pur con molti difetti, aveva notevoli competenze e professionalità. L'apparato dello Stato si è impoverito drammaticamente.
Sono venti anni che nella pubblica amministrazione non si assume.
Per una città in cui l'apparato statale ha avuto una funzione cruciale, questo ha rappresentato una forte regressione. Con un impoverimento anche economico del ceto impiegatizio che costituisce l'ossatura sociale di Roma. E questo impoverimento sta producendo una sfiducia profonda nella politica tradizionale".
4.1. Alla successiva domanda, frutto del consueto automatismo categorial-concettuale incorporato nell'approccio giornalistico ("la sburocratizzazione non può essere un fatto positivo?"), risponde in modo "spiazzante":
"Il fatto, molto negativo, è che abbiamo assistito allo smantellamento delle partecipazioni statali. Avevano dei difetti. Ma forse non tanti di più rispetto alle imprese private. Le partecipazioni statali potevano contare su personale tecnico di altissimo livello."
5. Sul fatto che l'impresa pubblica contenesse competenze e livelli di efficienza industriale e, in realtà difetti non maggiori bensì minori delle imprese private, - se non altro per la ricaduta dei settori di ricerca e innovazione sull'intera economia italiana- in realtà basterebbe rammentare quanto ci ha detto il prof. De Cecco (p.5) (scomparso nel 2016, dopo aver insegnato a lungo alla Normale di Pisa e alla Luiss), che risulta frutto di studi scientifici meno dubitativi delle parole di Bernabé (studi che coinvolgono proprio gli aspetti monetari e la connessa eliminazione del ruolo economico-sociale dello Stato):
"Perché le privatizzazioni degli anni Novanta sono state un fallimento?
Sono state le più grandi dopo quelle inglesi e hanno cambiato la faccia dell’industria italiana senza fare un graffio al deficit pubblico.
Sono state le più grandi dopo quelle inglesi e hanno cambiato la faccia dell’industria italiana senza fare un graffio al deficit pubblico.
Se si voleva distruggere l’industria italiana ci sono riusciti.
Ma
non credo che Prodi volesse distruggere quello che aveva contribuito a
creare. Questo risultato non è stato voluto, ma è sicuro che sia
stato assolutamente deleterio.
Gli studi della Banca d’Italia
dimostrano che al tempo l’industria di Stato faceva ricerca per tutto
il sistema economico italiano. Dopo le privatizzazioni, chi ha
preso il posto dell’Iri, ad esempio, non l’ha voluta fare.
Siamo
rimasti senza un altro pilastro importante della politica
industriale, mentre si continuano a fare solenni discorsi
sull’istruzione, sulla ricerca o la cultura. In questi anni è stato
distrutto tutto. Su questo non ci piove.
Le prime privatizzazioni sono state fatte per imposizione della City di Londra. Siamo stati ricattati. Credo che era molto difficile per le autorità politiche riuscire a sottrarsi, dati i precari assetti politici che anche allora ci affligevano".
Le prime privatizzazioni sono state fatte per imposizione della City di Londra. Siamo stati ricattati. Credo che era molto difficile per le autorità politiche riuscire a sottrarsi, dati i precari assetti politici che anche allora ci affligevano".
6. Ma il (parziale) revirement di Bernabè è occasionato da un'analisi portata proprio sulla realtà economica di Roma.
Non "città aperta" ma "città globale", o meglio obbligata ad essere tale nella realtà delle economie aperte.
E dunque, rammentando come e perché, all'interno del paradigma finale di cui abbiamo parlato all'inizio, si possa collocare l'idea di un rafforzamento dello Stato, che possa servire da innesco di un mondo (senza frontiere politiche) dominato appunto dalle città globali, ci sovviene il pensiero della Sassen che recentemente abbiamo contestualizzato, che paiono perfettamente coerenti a spiegare il ritorno allo Stato forte, rispetto a cui infatti Bernabé precisa, di fronte alla domanda: "Ma allora bisognerebbe tornare indietro?" "Non dico questo. Perché nel frattempo le cose si sono evolute e Roma ha cambiato pelle". Già, chissà perché.
7. Ecco dunque la parte interessante del pensiero della Sassen (ulteriormente condensato) che probabilmente può spiegarci l'apparente (semi)contraddizione (qui, p.1.d):
"La Sassen, famosa teorizzatrice della "città globale", in un'illuminante intervista,
ci dice alcune cose interessanti sui punti a) e b) sopra riassunti, che
ci consentono di capire meglio quello c). Proviamo a esaminarle e a
commentarle:
Ma anche ad un elemento fiscale (chiamiamolo così...) che, in realtà, ha sostanzialmente travolto tutto il territorio italiano: chiamiamolo €uropa, così ci capiamo meglio, anche se non viene mai menzionato.
1) "...non esiste nessuna persona giuridica che rappresenti le marche globali; quello che esiste invece è uno spazio istituzionale, legale, formalizzato, che è stato prodotto passo dopo passo affinché le aziende globali potessero operarvi.
E questi nuovi regimi giuridici, indispensabili alla geografia globale dei processi economici, sono stati creati e legittimati dallo Stato, attra verso processi di denazionalizzazione. Gli spazi globalizzati non nascono dal nulla, ma sono stati creati attraverso un importantissimo lavoro altamente specializzato compiuto dallo stato. Questo significa che all’interno dello stato nazionale ci sono alcuni settori che risultano essenziali per edificare uno spazio internazionalizzato. In questo senso sostengo che il globale si afferma anche all’interno e per mezzo del nazionale, attraverso un processo di denazionalizzazione portato avanti da alcune componenti dello stato nazionale...
...
"Perché se riconosciamo i processi di denazionalizzazione, se in altri termini comprendiamo che la globalizzazione è un processo parzialmente endogeno al nazionale piuttosto che a esso esterno, possiamo capire che è proprio all’interno
del nazionale che si stanno aprendo nuovi spazi politici potenzialmente
globali per tutta una serie di attori confinati nel nazionale.
Attori che possono prendere parte alla politica globale non solo
attraverso strumenti globali, di cui possono anche non disporre, ma
attraverso gli strumenti formali dello stato nazionale...".
Questo
passaggio può apparire un po' criptico e, addirittura, (nella
tentazione di andare oltre), può indurre a soprassedere. Mal ve ne
incoglierebbe! Quello che la Sassen ci sta dicendo nel suo metalinguaggio (che l'ha ormai resa celebre) è, tradotto in corretti e concreti termini giuridico-economici:
8. Poi sono certamente possibili diverse e concorrenti spiegazioni perché, oggi, si faccia un richiamo ad uno "Stato forte", ben al di là della questione di Roma e del suo declino negli ultimi venti anni. Magari più strettamente politiche e legate all'attualità, per così dire, "elettorale"."I politici che assumono il ruolo di promuovere, concludere e, successivamente, attuare i trattati internazionali che tutelano gli interessi delle "marche globali"(="multinazionali") acquistano un maggiore e crescente spazio istituzionale, funzionalmente giustificato dallo sviluppo dell'azione agevolatrice già svolta".
Ma anche ad un elemento fiscale (chiamiamolo così...) che, in realtà, ha sostanzialmente travolto tutto il territorio italiano: chiamiamolo €uropa, così ci capiamo meglio, anche se non viene mai menzionato.
Per capire come nel divenire le contraddizioni non sono contraddizioni logiche ma sono "logica delle contraddizioni" come la filosofia della Storia hegeliana ci ha insegnato, parafrasiamo:
RispondiElimina« Nello Stato liberoscambista il dominio della religione del Mercato è la religione del dominio del Mercato. »
« La separazione dello "spirito del dogma liberista" dalla "lettera del dogma liberista" è un atto irreligioso. Lo Stato che fa parlare il dogma liberista con la lettera della politica, cioè con altra lettera che la lettera dello Mano Invisibile, compie un sacrilegio, se non di fronte agli occhi degli uomini, per lo meno di fronte ai suoi stessi occhi religiosi. A quello Stato che riconosce il liberismo come sua norma suprema, i Trattati come sua Carta, si devono contrapporre le parole della Sacra Normativa €uropea, perché la Normativa €uropea è sacra fin nella parola. Questo Stato, come pure l'immondizia umana sulla quale esso si basa, dal punto di vista della coscienza liberista cade in una contraddizione insormontabile se lo si rimanda a quei precetti del dogma liberista che esso "non solo non segue, ma neppure può seguire, se non vuole, in quanto Stato dissolversi completamente". E perché non vuole dissolversi completamente? Esso stesso non può rispondere a questa domanda, né a sé né ad altri. Dinnanzi alla sua propria coscienza, lo Stato liberista ufficiale è un dovere, la cui realizzazione è irraggiungibile, e soltanto mentendo a se stesso, esso può constatare la realtà della propria esistenza, e rimane perciò sempre per se stesso un oggetto di dubbio, un oggetto ambiguo, problematico. La critica dunque si trova nel pieno diritto di costringere lo Stato che si richiama ai Trattati, alla follia della coscienza, in cui esso stesso non sa più se è una fantasia o una realtà, in cui l'infamia dei suoi scopi politici, ai quali la il dogma liberista serve da mascheratura, entra in conflitto insolubile con l'onestà della sua coscienza liberale, cui la globalizzazione appare come lo scopo del mondo. Questo Stato può riscattarsi dal suo tormento interiore soltanto divenendo lo sbirro del Mercato. Di fronte ad esso, che dichiara proprio corpo servente il potere politico, lo Stato è impotente, impotente il potere politico che asserisce di essere l'autorità dello spirito del dogma liberista. »
Marx, "La questione ebraica", 1844, sostituendo "cristianesimo" con "liberismo", "Vangelo" con "dogma liberista", "Bibbia" con "Trattati", "Spirito Santo" con "Mano Invisibile", "religione" con "globalizzazione", "mondano" con "politico", " ecc...
"Questo Stato può riscattarsi dal suo tormento interiore soltanto divenendo lo sbirro del Mercato. Di fronte ad esso, che dichiara proprio corpo servente il potere politico, lo Stato è impotente, impotente il potere politico che asserisce di essere l'autorità dello spirito del dogma liberista."
EliminaGrazie della bellissima parafrasi.
Che lo stato sia diventato lo sbirro del mercato (e che il potere politico - così come lo Stato - sia impotente di fronte al mercato) è di tutta evidenza da Monti in poi.
Per esempio, le lacrimevoli uscite teatrali dell'ex ministro-sbirro Fornero sono una chiarissima rappresentazione del conflitto insolubile tra l'infamia inconfessabile degli scopi politici e l'onestà della coscienza liberale.
Ma vado passo oltre: anche il papa-Re (vedi i suoi impropri interventi politici in campo pseudo-scientifico) appare ormai come un impotente sbirro del mercato ed il suo non più latente dogma liberista è entrato in un visibilissimo conflitto insolubile con il messaggio del Vangelo.
Nell'originale "Mercato" - come da ermeneutica della religione liberale - è "Chiesa cattolica".
EliminaLa questione ebraica ricordata proprio ieri da Francesco va letta.
Un Marx venticinquenne - nella fase dei lineamenti di filosofia del diritto, ossia decenni prima del Marx dell'analisi economica del diritto vera e propria del Capitale - chiarisce perfettamente ciò che Basso spiegherà a Calamandrei 103 anni dopo in Costituente.
Non ho mai letto tante intuizioni fondamentali espresse sinteticamente e organicamente come in questo scritto.
Intuizioni quasi tutte volte a ribaltare l'interpretazione del reale... una rivoluzione fenomenologica permanente.
(In riferimento al post di ieri, lasciando inalterata la precedente ipotesi identitaria tra monoteismo e Chiesa del Mercato, è interessante leggere le sue intuizioni sul rapporto tra monoteismi, mercato ed invidualismo metodologico provando a relazionarlo con quello che nel Capitale sarà "il reame della religione" in relazione al feticismo...)
Poi sono certamente possibili diverse e concorrenti spiegazioni perché, oggi, si faccia un richiamo ad uno "Stato forte"
RispondiEliminaPensavo anche a questo…. ma forse sbaglio:
Arturo14 settembre 2017 21:20
Su questo argomento mi pare molto utile ricordare il dibattito fra i liberali tedeschi dell’Ottocento e il papà di tutti gli statalismiautoritarismi: Hegel.
“Se l’autore della Filosofia del diritto, pur insistendo sul momento statale o pubblico della soluzione della questione sociale, dinanzi all'implacabilità della crisi di sovrapproduzione e all'inanità dei suoi “rimedi”, consiglia almeno di lasciar libero l’accattonaggio (§ 245 A), ben diverso è l’atteggiamento dei suoi critici liberali. Per prevenire “già nella sua fonte” ogni attacco al diritto di proprietà, bisognava rinchiudere gli accattoni, e tutti coloro che fossero sprovvisti di mezzi di sussistenza, in “case di lavoro obbligatorio”, e rinchiuderli a tempo indeterminato, sottoponendoli ad una disciplina dura, anzi spietata.
Da notare che questa misura di internamento poteva esser presa dalla magistratura, oppure poteva tranquillamente trattarsi di una “misura autonoma da parte delle autorità di polizia”. Non solo l’atteggiamento di Hegel è meno “autoritario” e più rispettoso della libertà individuale che non quello dei suoi critici liberali, ma è da aggiungere che la repressione da questi ultimi invocata a danno di accattoni e disoccupati non viene sentita in contraddizione con la sottolineatura da loro operata dei limiti dell’azione dello Stato: proprio perché lo Stato non ha alcun compito attivo di intervento nella soluzione di una presunta questione sociale, proprio perché ogni individuo è da considerare responsabile esclusivo della propria sorte, è logico che lo Stato respinga “già nella sua fonte” la violenza che contro il diritto di proprietà può essere esercitata da individui oziosi e dissoluti, costituzionalmente incapaci di un lavoro e di una vita ordinata[nota 12]. La repressione poliziesca è la conseguenza dello “Stato minimo” e della celebrazione della centralità del ruolo dell’individuo.”. (D. Losurdo, Hegel e la libertà dei moderni, La scuola di Pitagora editrice, Napoli, 2012, pagg. 186-7).
(In nota 12 sono riportati i riferimenti al liberale Staats-Lexikon, diretto da C. v. Rotteck e C. Welcker).
Sarà un caso se negli USA la polizia sembra un esercito di occupazione?
Quarantotto14 settembre 2017 21:50
E' argomento a supporto strettamente adiacente (storico-induttivo: Rawls ci arriva in via deduttiva...).
Peraltro, il brano conferma principalmente che quando si parla di "libertà", la titolarità dei relativi diritti è concepita dai "liberali" come una capacità giuridica restringibile alla registrazione dello status quo oligarchico.
Nessuna contraddizione rispetto agli (altisonanti) enunciati "liberali", dunque: solo il "naturale" riflesso della tutela ristretta ai titolari unici possibili delle libertà.
Gli altri, esattamente come i "non proprietari" richiamati da Engels, non hanno capacità giuridica; anzi, non hanno uno status umano comparabile sul piano della legittimità (naturale).
http://orizzonte48.blogspot.com/2017/09/vademecum-per-la-difesa-della-sovranita.html?showComment=1505416824529#c6146266010383651828
Esattissimo richiamo. Anzi, appropriatissimo
Elimina“… la borghesia si conquistò infine l'assoluto dominio politico dopo la nascita della grande industria e del mercato mondiale nel moderno Stato rappresentativo. Il potere statale moderno è solo un comitato che amministra gli affari comuni dell'intera classe borghese…” [K. MARX – F. ENGELS, Manifesto del Partito Comunista]. Leggasi “tutta la classe borghese”, ovviamente, quella ormai transnazionale globalizzata.
RispondiElimina“… quel mercato mondiale, la cui formazione rappresentava per Marx il compito storico della borghesia, rappresenta oggi una realtà molto avanzata, e le leggi del mercato mondiale si impongono perciò alle singole economie nazionali. Ciò naturalmente non vale in misura eguale per tutti i paesi, perché come il mercato nazionale era dominato dai più forti monopoli, così oggi il mercato mondiale è dominato dalle più forti multinazionali. Tuttavia, come i monopoli, anche i più forti, avevano bisogno di un mercato regolato dall’intervento statale, così le multinazionali hanno bisogno, per poter meglio assicurare il loro dominio, di appoggiarsi a strumenti organizzativi del mercato mondiale che esse siano in grado di manovrare. Certo, sul mercato mondiale non esiste un organo che possa esercitare le funzioni dello Stato a livello mondiale: tuttavia una rete organizzativa si va tessendo attorno ad organi internazionali come il Fmi, la Banca mondiale, ecc. e anche ad organi chiamati a coordinare su scala internazionale l’iniziativa privata, come p. es. il Committee for Atlantic Economie Cooperation, la Trilaterale, ecc...
Quale è, in questo nuovo quadro, il ruolo dello Stato? … l’aspetto più innovativo della fase attuale rispetto a quella precedente è che, nei paesi in cui le multinazionali occupano una posizione di predominio nell’economia, esse HANNO BISOGNO DI ORIENTARE LA POLITICA DELLO STATO e quindi di orientare i governi. Si realizza perciò una COLLABORAZIONE non già fra lo Stato e la borghesia nazionale, ma fra lo stato e le multinazionali che operano sul suo territorio… E CIOÈ LO STATO DIVENTA L’AGENTE DI UN POTERE ESTERNO
…i paesi …che sono entrati nei meccanismi del mercato mondiale, SONO…COSTRETTI A SUBIRE VOLONTÀ ESTERNE: lo stretto controllo che le multinazionali esercitano sul mercato e su tutti i suoi meccanismi, fa sì che esse costituiscano anche i centri decisionali da cui dipende lo sviluppo (o il sottosviluppo) economico dei diversi paesi…se è vero che la classe dominante ha sempre imposto la propria ideologia ai suoi soggetti, è questa la prima volta che il fenomeno si svolge in modo programmato a livello planetario. In conclusione, ci sembra di poter affermare che la logica interna del processo di sviluppo capitalistico nella fase attuale tende…verso una crescente integrazione del mercato mondiale e verso una razionalizzazione interna finalizzata al profitto privato” [L. BASSO, Introduzione al problema, in Multinazionali Imperialismo e classe operaia, Problemi del socialismo, aprile-sett.1977, n. 67, 5-13].
Basso utilizza proprio il termine “collaborazione”. E non è un dettaglio. (segue)
Perciò P. Barcellona potrà precisare a sua volta che:
RispondiElimina“… In questo contesto globale non c’è più spazio per una politica sociale né per una tutela dei lavoratori e dei disoccupati, coloro che si definiscono «riformisti» sono in realtà gli ESECUTORI DEGLI IMPERATIVI CHE DERIVANO DALLA GLOBALIZZAZIONE e sono spesso, al di là delle intenzioni, meri funzionari delle esigenze del nuovo capitalismo finanziario che ha ormai soppiantato il vecchio capitalismo industriale… La parola riformismo è, così, diventata una parola assolutamente vuota…Se, talvolta, la parola riformista viene collegata con la parola progressista, la confusione cresce perché, come profeticamente affermava Pier Paolo Pasolini, alla mera crescita economica della ricchezza nazionale non corrisponde nessun vero progresso umano, in una società in cui aumentano le povertà e i disagi di ogni natura…” [P. BARCELLONA, Parolepotere, Roma, Castelvecchi, 85-95].
Quello che dovrebbe tornare “forte” dovrebbe essere lo Stato-apparato, cioè lo strumento ormai in mano alle élites globali utilizzato a fini di profitto privato. Lo Stato-comunità, cioè il Popolo detentore della sovranità, è invece il pollo da spennare. Ma Bernabè mi pare che parli del primo. Quindi, direi che anche per questo tutto quadra.
Mi pare che il commento di Barcellona, così come la tua esatta conclusione, siano l'altra faccia della medaglia dell'interventismo dello Stato minimo (cioè poliziesco e sostanzialmente pinochettiano) che delinea il brano di Losurdo citato da Arturo (e riproposto da Luca)
Elimina(Scusate se latito un po' ma ho avuto - e ancora ho - grossi problemi di connessione).
RispondiEliminaE' una questione di grande importanza, su cui ho già detto più o meno come la penso: certo, il neoliberismo col libertarismo ci flirta, per dare il frisson bohémien, ma dello Stato, cioè di un insieme di istituzioni che svolga certe funzioni coercitive (e quindi di "garanzia"), non ha nessuna intenzione di fare a meno e onestamente, almeno per il momento, non vedo come potrebbe.
Stando più sul giuridico, stavolta ci metto Irti (Norma e luoghi, Laterza, Roma-Bari, 2001, pagg. 57-8), in una risposta al solito Massimo “katéchon” Cacciari: “Quelle globali libertà e questi privati contratti sono contratti e libertà perché nascono e si svolgono in una definizione normativa. Non costituiscono un vuoto di diritto, ma sono figure giuridiche. La libertà a-nomica è pura indifferenza di scelte; il contratto a-nomico è un semplice accaduto, che può ricevere il predicato di ‘contratto’ solo nella presupposizione della norma. Parlando di ‘libertà’ e di ‘contratti’, abbiamo già su di noi gli occhiali del giurista e guardiamo le cose dall’angolo del diritto. Ma il ‘giuridico’ - può ben replicarsi - non s’identifica con il ‘legislativo’; e dire che la forma statale è minacciata dalla globalità degli scambi non significa negare a questi ultimi un’altra e diversa giuridicità. La risposta più semplice e persuasiva sta nel monopolio statale della forza coercitiva. Il diritto sempre mette capo alle domande: quis judicabit? quis coercebit?”
Ma sentiamo pure il solito Hayek (The Constitution of Liberty, The University of Chicago Press, Chicago, 2011, pag. 120), in riferimento al pensiero degli economisti e filosofi classici inglesi a cui si richiama:
“In fact, their argument was never antistate as such, or anarchistic, which is the logical outcome of the rationalistic laissez faire doctrine; it was an argument that accounted both for the proper functions of the state and for the limits of state action.”
Mi pare molto chiaro.
Coincidenza: lo stesso motivo per cui non ha alcun senso parlare di anomia è il medesimo motivo per cui non ha senso parlare di amoralità...
EliminaLa dialettica tra classi orienta sempre le sovrastrutture sociali e giuridiche: non esiste un'asettica (efficiente) neutralità.
Nell'assoluto dominio tirannico di una classe sulle altre l'immorale, la negazione del diritto e finanche l'illegale, possono essere il "giusto".
Il monoteistico IO sono la Legge.
È curioso come la barbarie liberale possa essere diventata bandiera di civiltà.
Visto che è fra i “maggior sui” elencati da Hayek, voglio anche riportare una pagina di Neumann su Locke (Lo Stato democratico e lo Stato autoritario, Il Mulino, Bologna, 1973 [1957], pagg. 298-9), che ho trovato espemplare per ri-lettura “fenomenologica” di un classico: “Ora non vi è dubbio alcuno che la teoria di Locke fu la ideologia dominante dell’Inghilterra all’incirca fino all’avvento del British Labour Party. Eppure durante un periodo di due secoli questo «stato-guardiano notturno», per adoperare l’espressione ben nota e molto pericolosa del Lassalle si mostrò in grado di mantenere la sicurezza interna in Inghilterra, occuparsi dei cartisti e del movimento operaio e di fondare un immenso impero coloniale. Strana teoria davvero per uno stato che riesce a mantenere una politica imperialistica! È evidente che ci deve essere qualcosa che non quadra nella corrente interpretazione della dottrina di Locke: difatti se la esaminiamo più da vicino il carattere negativo scompare e il suo elemento politico appare sotto una luce molto piu chiara. Si potrebbe affermare che Locke metta in primo piano l’elemento politico e che per lui quello giuridico o costituzionale (rechtsstaatliche) abbia assai meno importanza di quanto generalmente se ne voglia attribuirgli. Ciò risulta chiaramente da un esame della sua teoria della separazione dei poteri. Sebbene distingua fra tre poteri: legislativo, esecutivo e federativo, di questi solo il legislativo corrisponde in Locke esattamente a quello che noi oggi intendiamo con tale termine, ossia il potere di fare le leggi. Gli altri due significano qualcosa di molto diverso: il potere esecutivo comprende non solo 1’amministrazione interna, ma anche l’amministrazione della giustizia mentre quello federativo riguarda la politica estera. Ma perché Locke toglie la politica estera al potere esecutivo a cui esso normalmente spetta? Perché, come dice lui stesso in modo chiaro e preciso, la politici estera non può essere condotta né secondo leggi generali né secondo opinioni preconcette ma deve per forza essere affidata alla saggezza di coloro che ne sono i responsabili. Nella politica estera l’elemento politico prevale in assoluto senza alcun riguardo per il diritto (Recht). Ma anche per la politica interna Locke è meno attaccato alla teoria dello stato di diritto di quanto generalmente si supponga. Oltre ai tre poteri menzionati Locke postula la esistenza di un cosiddetto «potere prerogative», definendolo nel modo seguente: il potere di agire nell’interesse del bene pubblico discrezionalmente senza bisogno di autorizzazione da parte della legge e anche contro la legge. Quindi a colui che dispone del potere prerogative, il monarca, viene affidata una straordinaria misura di potere politico indipendente dalla legge.”.
RispondiEliminaAlla faccia del (presunto) garantismo liberale.
Ma sai occorre pure assumere una prospettiva storica (che fenomenologicamente rimane sempre riassumibile nel brocardo di Spencer sulla missione del liberalismo e nella genesi "no taxation without..").
EliminaE' infatti ben immaginabile, e dipende in sostanza da catatteristiche tecnologiche dell'organizzazione, che lo Stato divenga un concetto autoorganizzativo puro, non più legato alle comunità territoriali e che postula sì, come ogni forma organizzativa dotata di effettività e cogenza, una Grund-Norm, ma estranea alla (cioè definitivamente sconnessa "dalla") figura originaria del monarca-legislatore "signore di una determinata terra", figura che, in origine del concetto "moderno" di Stato, improntava ogni ragionamento "liberale" (anche rivoluzionario-modificativo).
Data la possibilità tecnologica di estendere la velocità (fino alla "istantaneità") e la extraterritorialità della fonte del vincolo che impone l'esecuzione delle transazioni, il discorso di Irti (che a sua volta è già limitante il diritto a quello "privato" essendo quello pubblico solo una questione di sistema giudiziario e di sistema repressivo applicativo di sanzioni) non torna più.
Almeno nella prospettiva (futurista?) segnalata da Bazaar.
Se la giuridicità si ritrae dalla sanzionabilità della violazione della norma, un sistema autoorganizzato dai poteri economici che eliminano la stessa ragion d'essere "centripeta" del monarca (persona fisica o gruppo identificabile di persone fisiche), una volta trovato il modo e il livello tecnologico di imporre il vincolo delle transazioni, può ben postulare sia la creazione di norme come "rationalia" di un algoritmo preimpostato (col loro adattamento insito nella registrazione dinamica e automatica delle transazioni, e usando un criterio statistico secondo modalità precostituibili), sia l'applicazione istantanea e altrettanto automatizzata di sanzioni (il comportamento "censorio" dei social ne è un esempio proprio in questi nostri giorni).
In questo quadro, Locke ci serve solo per dire che, nel liberismo, secondo cui il fatto autoorganizzativo e la posizione delle norme-cornice implica l'esclusività della legittimazione "sovrana" dei soggetti dominanti del mercato, il giudiziario è non solo considerato parte dell'esecutivo - cioè "l'indipendenza" è SEMPRE stata considerata utile/efficiente solo nei confronti del monarca-tiranno e dell'aristocrazia-, ma anche riassorbibile in questo sistema produttivo di norme e applicativo di sanzioni "in automatico".
D'altra parte, i "libertarian" sono solo una sovrastruttura propagandistica: come la mafia rispetto allo Stato, secondo la nota analisi degli ordinamenti sezionali di S.Romano, non negano e anzi presuppongono, che esista l'ordine autolegittimante del mercato (da cui neppure si pongono il problema di come prescinderne nella vita concreta).
Cioè, ragionano partendo proprio dall'accettazione del fenomeno auto-organizzativo del capitalismo e della sua azione sanzionatoria fattasi "diritto", considerando ciò un fenomeno naturale e spontaneo (tutto ciò che M.S. Giannini aveva abilmente confutato).
Certamente la pertinenza dei riferimenti al passato rispetto a scenari futuribili dipende dal livello di astrazione della definizione proposta: ho tentato in effetti di portarmi al livello più alto possibile parlando genericamente di istituzioni con funzioni coercitive. Una forma, se posso usare questo lessico hegeliano, che non necessariamente deve incarnarsi nella figura dello Stato dalla teoria generale del diritto e dal diritto internazionale, ma i cui eventuali nuovi contorni andrebbero messi meglio a fuoco, in particolare in relazione alle esigenze di un’economia capitalistica (se ancora di questo stiamo parlando…).
EliminaMi pare lo riconosca anche Bazaar: “Gran parte di ciò che veniva affidato allo Stato diviene privato, ossia di chi è proprietario dei mezzi di produzione (in particolare "informatici").”
Chi garantisce la proprietà privata dei mezzi di produzione e attraverso quali istituzioni?
Ma è poi già necessario prendere tanto recul? Rimango scettico. Per dire, di norme autoapplicative, per esempio i DRM a tutela del copyright, si parla da decenni, ma non mi pare si possa oggi affermare che abbiano scalzato più tradizionali forme di normatività o che possano operare senza un qualche tipo di consenso, anche passivo, da parte degli Stati (per esempio i summenzionati DRM et similia sono stati autorizzati dall’art. 11 del WIPO) né sempre con questa efficacia totale. Direi piuttosto che esiste una gerarchia fra gli Stati nell’accesso e uso della tecnologia, come di tutto il resto d’altronde, ma è una questione ben diversa.
Prendiamo pure i social: nell’odierna vague censoria forse che un qualche segmento dello stato apparato americano non ci ha messo lo zampino o lo zampone? Un paio di mesi fa Zuckerberg ha detto: “We will do our part to defend against nation states attempting to spread misinformation.” E intanto c’è VK…
Insomma, mi sbaglierò ma involuzione autoritaria degli Stati e imperialismo mi sembrano fenomeni ben visibili; la Matrix globale post-statale ancora no.
A me pare piuttosto che siano diversi stadi dello stesso fenomeno: basta pensare che l'organizzazione automatica della vita di relazione - con sostanziale assorbimento "digitalizzato" di amministrazione e giustizia, in precedenza gestiti dagli Stati in modo "decentrato"- riguarderà la massa indifferenziata degli ex cittadini comuni divenuti "del mondo" senza frontiere.
EliminaMentre l'organizzazione autoritativa e militare "materiale" (peraltro sempre più gestibile da droni et similia) agirebbe a tutela esclusiva delle persone e degli spazi fisici di un'elite. Indubbiamente, al contempo, imperialista (fino al punto da autoinvestirsi del ruolo di "governo mondiale").
Esiste cioè un momento logico di conciliabilità delle due tendenze, in cui la seconda (automatismo digitale della gestione e della capacità giuridica dei governati) si rivela strumento della prima e principale (imperialismo mondialista perseguito dall'elite anglosassone...tendenzialmente).
D'altra parte, il cosmopolitismo agisce sempre più come proiezione identificativa diffusa degli interessi degli oppressi in quelli degli oppressori, proprio rendendo irrilevante ogni punto di riferimento territoriale e comunitario tradizionale: è cioè un'intrinseca "doppia morale" che si realizza a livelli di dominio crescenti mediante la tecnologia che detiene e sviluppa.
Con ciò non dico che tutto questo sia realizzabile, anzi.
EliminaRammento che il mio punto è che i calcoli di ESSI sono a mio parere grossolanamente errati e che questo è il loro punto debole (non la capacità organizzata di reazione, autonoma, degli oppressi)
« bene pubblico discrezionalmente senza bisogno di autorizzazione da parte della legge e anche contro la legge »
EliminaLa doppia morale è intrinseca nell'elitismo e in una società divisa in classi.
L'esperienza storica di questo brutale materialismo senza senso che altro non è il liberalismo, che a sua volte altro non è che elitismo paraborghese del modo di produzione capitalistico, mostra che il ruolo interno ed esterno di MI5 e MI6 è stato proprio quello che evidenzia Locke.
La forza bruta, ordine interno e politica estera, è al di sopra della legge e riservata a Servizi non a caso "segreti", con relativi segreti di Stato e segreti militari; e, sempre non a caso, le più patenti commistioni - veri e propri cortocircuiti - tra pubblico e privato compaiono regolarmente nelle peggiori pagine di cronaca.
Alla fine al vertice di "Cosa Nostra" - sociologicamente al di sopra della Cupola - rimangono queste strutture che cooperano con l'apparato statale.
Non esiste alcuna differenza giuridica tra mafia e oligarchia capitalistica.
(Una è fuori legge e funge da capro espiatorio - proprio come i gruppi terroristici - l'altra è sopra la legge)
Le logiche dell'antimafia andrebbero raffinate per essere applicate agli interessi costituiti.
Riina era un francescano rispetto a qualsiasi predatore finanziario che ha, magari, interessi diretti o indiretti nell'industria bellica.
Come ricordava Francesco, il liberale non aborre lo Stato nonostante pubblicamente si ruffiani le PMI incolte e livorose tramite la retorica della "burocratizzazione": aborre lo Stato sociale. Punto.
E comunque, caro Arturo, come vedi, l'elaborazione incessante della "nuova" scienza giuridica sopravanza di gran lunga qualsiasi teorizzazione dei "classici" (quand'anche a loro volta mainstream, ma "vetero")
Eliminahttp://www.spisa.unibo.it/eventi/presentazione-del-volume-due-process-of-law-beyond-the-state-di-giacinto-della-cananea