domenica 10 gennaio 2021

SUGGESTIONI “PANSALUTISTICHE: TRA NEGAZIONE DELLA COSTITUZIONE E SUE INTERPRETAZIONI PATAFISICHE. CATTIVI PRESAGI

Pubblichiamo questo importante post di Francesco Maimone, prima parte di un approfondimento che appare importante e necessario in questo peculiare momento storico.

 

“… se gli uomini dei Paesi occidentali non vogliono trovarsi un giorno in una di quelle mostruose società descritte nei romanzi avveniristici, … società d’insetti specializzati, gerarchizzati e indifferenti, bisogna che procedano ad un vasto rinnovamento della loro concezione e della loro pratica della democrazia

[L. BASSO, citando P. Mendès France]

***

1. L’“emergenza” Covid-19 ha innescato la prevedibile propaganda pro vaccini più di quanto non sia avvenuto per l’adozione del “Decreto Lorenzin” (D.L. 7 giugno 2017 n. 73, convertito in L. 31 luglio 2017, n. 119). E poiché ci è stato detto che “Lascienza non è democratica” (qui, p.6), gli espertologi di turno si stanno cimentando nel perfezionamento della loro comunicazione da consegnare di volta in volta alla grancassa mediatica, esternando vieppiù con precisione anche i metodi che secondo loro andrebbero utilizzati contro i riottosi “negazionisti no-vax” che osassero soltanto pensare di rifiutare l’iniezione. A tale riguardo, taluno ha voluto farci sapere, con piglio arcigno e senza pregiudizi, che “Quelli che lavorano contro i vaccini, quelli dovranno essere zittiti, non bisognerà nemmeno dargli il diritto di parola, da nessuna parte…davvero questa volta non scherziamo più”; qualcun altro, in stile altrettanto pacato e liberale, ha invece affermato: “… Io penso che lo Stato prima o poi dovrà prendere per il collo alcune persone per farle vaccinare.

 

2. Ora, poiché non consta che l’art. 21 Cost. sia stato formalmente abrogato, si tenterà in questa sede di svolgere alcune analisi ragionate sul tema. La volontà dell’intervento trae origine dalla estrema confusione terminologica e concettuale (sotto il profilo giuridico-costituzionale) riscontrata in molti “pseudo addetti ai lavori” nonché anche dalle inquietanti dichiarazioni sopra riportate (figlie, ad essere benevoli, di altrettanta confusione mentale e di dimenticanza storica).

 

2.1. Per non “appesantire” eccessivamente il discorso, si è preferito suddividere l’intervento in due parti, sperando di fare cosa gradita al lettore: la prima, in una visione de iure condito, sarà dedicata al concetto di trattamenti sanitari obbligatori (TSO) ed all’articolato sistema di garanzie costituzionali che ne dovrebbero condizionare l’introduzione, prendendo introduttivamente le mosse dalla definizione del concetto di “salute” nell’attuale Ordinamento. Nella seconda parte, proprio alla luce di dette precisazioni concettuali, ci si soffermerà su una breve analisi controfattuale rivolta all’azione istituzionale come dispiegatasi nei mesi passati, per poi – in prospettiva futura e de iure condendo – cercare di capire quali potrebbero essere gli spazi di intervento del legislatore qualora optasse per la scelta di un trattamento sanitario imposto. Il tutto alla luce dei dati ufficiali sull’epidemia che sono disposizione a quasi un anno della dichiarazione di emergenza, delle acquisizioni scientifiche (per nienti unanimi né pacifiche) e delle elaborazioni dottrinali e giurisprudenziali.

 

3. Orbene, se il concetto di “salute dell’uomo” è intuibile in modo diffuso e secondo una comune esperienza, altrettanto non può dirsi allorché si tenti di darne una precisa definizione.

Prevale tuttavia, soprattutto oggi, una definizione asetticamente naturalistica di salute alla quale sembra fare da identico contraltare il suo opposto, ovvero il concetto di malattia. E così la persona in salute sarebbe quella i cui parametri biologici possono definirsi “normali” rispetto ad un prototipo ideale di tipo statistico. Ciò è da imputare al fatto che “… nel corso del processo di civilizzazione si è andato affermando una nozione scientifico-razionale di salute come bene a sé stante, sicché alla classe medica viene oggi riconosciuto il diritto di definire autonomamente l’oggetto della propria attività nonché le procedure e gli standard di applizazione…” [così C. D’ARRIGO, Salute (diritto alla), in Enc. dir., Milano 2001, 1012].

 

3.1. Per questa ragione la dottrina appena citata ci avverte come la predetta definizione di salute risulti del tutto insoddisfacente SUB SPECIE IURIS, poiché il termine andrebbe definito non solo in senso negativo come assenza di malattia, bensì “… nel senso positivo di benessere biologico e psichico dell’uomo…” [C. MENGONI, La tutela giuridica della vita materiale nelle varie età dell’uomo, in Riv. trim. dir. proc. civ., Milano, 1982, 1128].

D’altronde, proprio secondo l’Atto di costituzione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, la salute corrisponde ad “Uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non la semplice assenza dello stato di malattia o di infermità” [“… il diritto in questione ha ad oggetto non solo la salute fisica, ma anche quella mentale. Nella Costituzione, infatti, la persona umana viene sicuramente intesa come qualcosa di assolutamente unico e non separabile, composto di corpo e mente” così M. LUCIANI, Salute. I) Diritto alla salute - Diritto costituzionale, in Enc. giur., Roma, 1991, 5; in giurisprudenza, cfr. Corte Cost., sent. n. 27/1975; Corte Cost. n. 161/1985 e Cass. Civ., Sez. Un., n. 5172/1979].

 

3.2. Dal punto di vista giuridico il concetto di “salute” si arricchisce in tal modo di ulteriori connotati riguardanti rapporti relazionali e sociali che travalicano la mera dimensione medica dell’integrità fisica, “coinvolgendo (piuttosto) anche capacità logiche, affettive e relazionali” [C. D’ARRIGO, Salute (diritto alla), cit., 1013; si veda in tal senso anche ROMBOLI, Delle persone fisiche. Art. 5, in Comm. Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 1988, 235 ss.], sussistendo una evidente interconnessione tra il più ampio bene “salute” ed altri interessi non meno importanti della persona. Tale precisazione, pertanto, non può autorizzare affermazioni che finiscano per dissolvere gli altri interessi e valori della persona che ineriscono alla salute nell’asciutta tutela dell’integrità fisica, trovando infatti quel coacervo di interessi - stante la loro sostanziale autonomia giuridica – dovuta ed adeguata protezione, non di rado essendo gli stessi coincidenti con altrettanti diritti fondamentali.

 

3.3 La dottrina pressoché unanime accorda perciò alla salute “un ambito operativo più ampio (rispetto alla mera integrità fisica). L’integrità fisica è considerata valore statico … da proteggere e da salvaguardare; un prototipo caratterizzato dall’assenza di fisiche menomazioni, suscettibile solamente di conservazione. La salute, invece, appare valore dinamico: ha contenuto relativo, variabile in funzione della concreta condizione del singolo soggetto, ma anche del grado di sviluppo della società è quindi in continua trasformazione e può costituire oggetto di una tutela non solo protettiva, ma anche promozionale ed accrescitiva” [C. D’ARRIGO, Salute (diritto alla), cit., 1016].

 

3.4. Che integrità fisica e salute non siano concetti coincidenti, ma in alcuni casi addirittura confliggenti, emerge proprio dall’evoluzione sociale, la quale che ha portato in evidenza una pluralità di interessi riguardanti la persona umana.

In molti casi, spesso tipizzati anche legislativamente, gli interessi messi in discussione riguardano più in generale la realizzazione della personalità e non propriamente la tutela dell’integrità fisica che, anzi, può subire addirittura un pregiudizio. Si pensi ai trattamenti sanitari (volontari) inerenti la donazione di organi fra persone viventi, alla liceità dell’intervento chirurgico diretto alla demolizione del sesso originario al fine di adeguare i caratteri somatici al “sesso psichico”, o agli interventi di chirurgia estetica, ai quali è estranea la salvaguardia dell’integrità fisica a costo di significative menomazioni, rilavando piuttosto l’ottimizzazione delle capacità relazionali e la rimozione del “conflitto psicologico” fra il soggetto ed il proprio corpo.

In sostanza, “l’alterazione dell’integrità fisica si giustifica non solo per finalità terapeutiche, ma anche quando per il suo tramite possono trovare realizzazione istanze psicologiche e morali, afferenti alla sfera superiore dell’uomo” [così ancora C. D’ARRIGO, Integrità fisica, in Enc. dir., Milano, 2000, 724 ss.]

 

3.5. Gli interessi giuridicamente rilevanti sottesi alle fattispecie sopra elencate dovrebbero quindi convincere sulla “… inesattezza della prospettiva che rimanda ad un unico ed indistinto diritto all’integrità fisica. Si assiste, piuttosto, alla “frantumazione” giuridica del concetto….Ciò che dapprima…appariva un valore unico e compatto…rivela ad un più attento esame una pluralità di sfaccettature che ne denuncia l’irriducibilità ad unum … Infatti, L’INTEGRITÀ FISICA È TUTELATA NELLA SUA GLOBALITÀ e quindi con riferimento alla sfera spirituale, culturale, affettiva, sociale, sportiva e ad ogni ambito e MODO IN CUI IL SOGGETTO SVOLGE LA SUA PERSONALITÀ, E CIOÈ A TUTTE LE ATTIVITÀ REALIZZATRICI DELLA PERSONA UMANA” [C. D’ARRIGO, Integrità fisica, cit., 723 ss.].

La salute, come diritto sociale fondamentale, si presenta come un corollario dell’art. 3, comma II, Cost. [si veda B. PEZZINI, Il diritto alla salute: profili costituzionali, in Diritto e società, I, 1983, 23] e “… l’espressione “diritto alla salute” deve considerarsi formula sintetica con la quale si esprime LA GARANZIA DI SITUAZIONI SOGGETTIVE ASSAI DIFFERENZIATE TRA LORO” [così M. LUCIANI, Salute., cit.].

C. Mortati, negli anni ’60, aveva già posto in rilievo il legame tra l’art. 32 Cost. e gli altri principi fondamentali, legame all’interno del quale è inscritta il sommo compito dello Stato repubblicano volto alla protezione e sviluppo della personalità dei singoli, non solo nel senso negativo della sua preservazione da ogni attentato da parte di altri, ma in quello positivo dell’esigenza di predisporre le condizioni favorevoli al suo pieno svolgimento” [C. MORTATI, La tutela della salute nella Costituzione italiana, in Riv. inf. mal. prof., 1961, I, 1 ora in, Problemi di diritto pubblico nell’attuale esperienza costituzionale repubblicana, III, Milano, 1972, 435].

 

3.6. L’art. 32 Cost. è di certo posto a garanzia dell’esigenza generalissima di ogni individuo di tutelare la propria integrità fisica, ma non esaurisce la tutela di tutti gli altri interessi legati alla sfera vitale/corporale dell’uomo che trovano copertura in altri principi fondamentali, per esempio nella clausola generale di cui all’art. 2 Cost. (tutela generale della personalità e dei diritti inviolabili dell’uomo), dell’art. 3, comma I (tutela dell’uguaglianza e della dignità) e dell’art. 13 (tutela della libertà personale).

Se ne ricava che la salute concorre necessariamente con altri e non meno importanti valori/interessi connessi alla sfera della vita personale. Ed essi potrebbero risultare anche “… incompatibil(i) con una tutela assoluta della salute. (ragione per cui ) ALLA SALUTE NON PUÒ ASSEGNARSI UNA POSIZIONE DI POZIORITÀ ASSOLUTA… quindi se le scelte suscettibili di porre a repentaglio la salute individuale rispondono a valori costituzionali garantiti, la soluzione dovrà essere ricercata con giudizio di BILANCIAMENTO STORICO E CIRCOSTANZIATOVANNO INVECE RIFIUTATE LE SUGGESTIONI “PANSALUTISTICHE” per le quali si finisce con l’anteporre la tutela della salute a qualsiasi altro valore che in concreto risulti (anche solo parzialmente) incompatibile” [così C. D’ARRIGO, Salute, cit., 1018].

 

4. Con riguardo specifico, invece, ai trattamenti sanitari, è opportuno soffermarsi ancora su alcune definizioni e classificazioni teorico-concettuali. Secondo la dottrina maggioritaria, per “trattamento” (sanitario) deve innanzi tutto intendersi in modo onnicomprensivo ogni genere di attività dal carattere diagnostico e terapeutico volta a prevenire e curare le malattie [così, per tutti, F. MODUGNO, Trattamenti sanitari “non obbligatori” e Costituzione, in Diritto e Società, 1982, 303; B. PEZZINI, Il diritto alla salute: profili costituzionali, in Diritto e società, 1983, 30-31].

4.1. Nell'ambito dei trattamenti sanitari così intesi viene operata la summa divisio in base alla loro volontarietà (che costituisce la regola, come si evince dall’art. 33, comma I, L. n. 833/1978 ove è previsto che “Gli accertamenti ed i trattamenti sanitari sono di norma volontari”; in tal senso F. MODUGNO, Trattamenti sanitari, cit., 308; in giurisprudenza, ex plurimis, Cass. Civ. 15 gennaio 1997 n. 364] o obbligatorietà (che costituisce l’eccezione, ai sensi del citato art. 33, comma II, secondo cui “Nei casi di cui alla presente legge e in quelli espressamente previsti da leggi dello Stato possono essere disposti dall’autorità sanitaria accertamenti e trattamenti sanitari obbligatori, secondo l’articolo 32 della Costituzione…).

 

4.2. Nella prima categoria rientrano – come accennato - le complesse problematiche dell'aborto, della sterilizzazione, dell'inseminazione artificiale, del prelievo e trapianto di organi e del mutamento del sesso. La seconda categoria invece ricade tutta nell’alveo del citato art. 32 Cost. ed è regolamentata in via generale dalle Leggi nn. 180 e 833 del 1978, oltre che da altre disposizioni di settore [sull’argomento, si veda L. MEZZETTI, A. ZAMA, Trattamenti sanitari obbligatori, in Digesto delle disc. pubbl., Torino 1999, 336 ss.].

 

4.3. E’ poi distinta dalla dottrina una terza categoria, ovvero quella dei trattamenti sanitari “coattivi, caratterizzata da limiti aggiuntivi rispetto a quelli previsti per i trattamenti obbligatori. Ed infatti, mentre questi ultimi … riguardano i casi in cui è sancito soltanto il vincolo di effettuare il trattamento, [invece i trattamenti coattivi] concernono le evenienze in cui questo è imposto anche contro la volontà del paziente. I primi sono disciplinati dall'art. 32, 2° co. Cost….; i secondi, che incidono direttamente sulla libertà personale, sono sottoposti alle garanzie dell'art. 13 Cost.: il che significa…riserva di legge assoluta, intervento motivato dell'autorità giudiziaria (c.d. riserva di giurisdizione), conseguente esclusione della competenza regionale ed inammissibilità di ordinanze di necessità” [così M. PORTIGLIATTI BARBOS, Trattamenti sanitari obbligatori, Digesto delle disc. penal., Torino, 1999, 339].

 

4.4. Secondo la dottrina maggioritaria, pertanto, l’art. 13 Cost. contiene norme “… applicabili a tutte le forme di limitazione della libertà personale in senso stretto (cioè a tutte le “misure coercitive”)… sicché l’art. 32 non potrebbe mai considerarsi norma speciale da applicare a preferenza di quella generale ex art. 13…” [così M. LUCIANI, Salute., cit., 10; in giurisprudenza, ex plurimis, Corte Cost. n. 54/1986 e n. 471/1990]. Viene così “… a configurarsi un profilo di tutela della salute individuale qualificabile [oltre che diritto sociale, o libertà positiva, anche] in termini di libertà negativa” [così C. D’ARRIGO, Salute, cit., 1028].

 

4.5. Due sono in sintesi le modalità attraverso le quali è possibile imporre ad una persona un trattamento sanitario: I) prevedendo sanzioni nei confronti di chi non ottemperi all’obbligo (può trattarsi di sanzioni dirette, aventi di solito natura pecuniaria, oppure indirette, per le quali l’adempimento dell’obbligo è posto come condizione per l’esercizio di diritti e facoltà); II) prevedendo l’uso della forza, che ha come scopo di sottoporre la persona al trattamento sanitario.

I trattamenti sanitari “obbligatori, in ogni caso, NON coincidono in senso stretto con quelli “coattivi” [cfr. Corte Cost. sent. n. 132/1992], quest’ultimi differenziandosi dai primi dal punto di vista qualitativo, “… anche se le sanzioni imposte a chi si rifiuta di sottoporsi a un trattamento sanitario obbligatorio possono essere talora così incisive da comportare la sostanziale vanificazione della possibilità di scelta…” potendosi risolvere in una forma sostanziale di coercizione [così M. LUCIANI, Salute., cit., 11. Se ne parlerà nella II^ Parte].

 

5. Detto ciò, e con riferimento alle pregnanti condizioni che devono essere rispettate perché possa predicarsi la legittimità di un TSO come le vaccinazioni e per comprendere appieno il capoverso dell’art. 32 Cost., è necessario coordinare quest’ultimo con il I comma, ove è previsto che “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività…”. Un coordinamento che, nella interpretazione mainstream, pare non godere della dovuta attenzione e che sta determinando cortocircuiti palesemente anacronostici quanto ad una presunta ed indiscriminata prevalenza della dimensione collettiva della salute su quella individuale.

 

5.1. La grande attenzione per la dimensione individuale del diritto alla salute contenuto in varie pronunce della giurisprudenza e nelle elaborazioni dottrinali è giustificata, al contrario, dall’esigenza di adeguare tale diritto al nuovo contesto introdotto dalla Costituzione repubblicana, superandone la lettura in chiave rigorosamente pubblicistica. La dottrina ha il merito di aver tratteggiato in modo esauriente lo sviluppo storico della concezione del diritto alla salute e che di seguito viene riportato in modo estremamente succinto.

 

5.1.2. La prima idea - tipica del periodo liberale – è stata “declinata in termini pubblicistici come sanità pubblica (vigilanza igienica e sicurezza pubblica), strumentale agli interessi dello Stato. A questa visione facevano da corollario l’attribuzione delle competenze in materia sanitaria al Ministero degli interni in un ottica di controllo dell’ordine pubblico e l’equivalenza tra salute/assenza di malattia, intesa quest’ultima come processo morboso patologico in atto” [così S. ROSSI, Salute mentale e dignità della persona: profili di un dialogo costituzionale, Secondo seminario annuale del “Gruppo di Pisa” Lo studio delle fonti del diritto e dei diritti fondamentali in alcune ricerche dottorali, Università di Roma Tre, 20 settembre 2013, 7].

 

5.1.3. E’ seguita una declinazione del diritto alla salute, appannaggio del periodo fascista, riassunta nell’adozione dell’art. 5 Cod. Civ., e basata su una “… concezione della persona strumentale e subordinata agli interessi superiori dello Stato, cui è dovuto il sacrificio delle istanze soggettive di libertà; si tratta di una concezione che vede la persona umana essenzialmente come valore funzionalizzato, da tutelare e perciò da mantenere ‘integra’ non per sé, ma in funzione della potenza dello Stato: una linea ideologica che vede nell’uomo il guerriero e il produttore e nella donna la produttrice della specie” [così B. PEZZINI, Il diritto alla salute: profili costituzionali, in Diritto e Società, 1983, I, 45].

 

5.1.4. Il mutamento significativo di paradigma, però, è avvenuto proprio con l’entrata in vigore della Costituzione del ‘48, la quale ha collocato al centro dell’Ordinamento la persona umana come soggetto relazionale, con le sue plurime necessità materiali e spirituali, condizionate da circostanze storiche e socio-economiche e che il nuovo Stato si è assunto il compito irrinunciabile di proteggere e sviluppare (art. 3, comma II, Cost.). In un tale rinnovato contesto, quindi, non era (e non è) più possibile considerare il diritto alla salute come un interesse rilevante per la sola sfera pubblica o, peggio, meramente soggetto a quest’ultima.

Su tale constatazione, d’altronde, si è espressa la Consulta la quale ha espressamente definito il diritto alla salute “… non solo come interesse della collettività, ma anche E SOPRATTUTTO come diritto fondamentale dell’individuo (che) si configura come un diritto primario e assoluto [così Corte Cost. sent. n. 88/1979; sent. n. 356/1991]. E la giustificazione interpretativa di un tale assunto, tra le altre, non può prescindere certamente da quella letterale: “La lettera del primo comma dell'art. 32 Cost. … non a caso FA PRECEDERE IL FONDAMENTALE DIRITTO DELLA PERSONA UMANA alla salute all'interesse della collettività alla medesima” [così Corte Cost. sent. n. 184/1986].

 

5.2. Quanto detto serve a dimostrare che qualunque ragionamento in materia di TSO non può oggi fare a meno, alla base, di considerare che non esiste alcun rapporto di subordinazione gerarchica del “lato interno” (individuale) rispetto a quello “esterno” (interesse della collettività) del diritto alla salute.

Il diritto fondamentale dell’individuo alla salute come tratteggiato nei precedenti paragrafi ed il corrispondente interesse della collettività (come due lati di una stessa medaglia) godono quantomeno di pari dignità costituzionale, se non addirittura con rapporto di prevalenza del primo sul secondo [si segnala che nella giurisprudenza di legittimità è acquisito non solo il principio secondo cui il diritto individuale alla salute, protetto dall’art. 32 Cost., è efficace sia nell’ambito dei rapporti privati sia in quelli tra il singolo e i poteri pubblici, ma anche quello per cui la protezione di tale diritto non recede nemmeno innanzi all’azione pubblica, anche quando questa in materia sanitaria sia diretta a realizzare l’interesse della collettività, cfr. Cass. Civ., Sez. Un. sent. n. 796/1973; Cass. civ., Sez. Un., sent. n. 5172/1979].

 

5.3. E’ pertanto controvertibile l’opinione di chi sostiene che l’art. 32 Cost.  contenga “due principi. PRIMA sancisce quello di protezione della salute di tutti; POI prevede la libertà di scelta e di rifiuto della terapia, tanto più se tale presunta priorità da accordare all’interesse collettivo venga anche abbinata ad una generica doverosità in capo ai singoli di sottoporsi al trattamento vaccinale (un non meglio specificato “dovere di vaccinarsi”). Sebbene non sia possibile per ragioni di spazio esaminare in questa sede il tema generale dei doveri costituzionali, l’occasione è tuttavia propizia per svolgere alcuni chiarimenti in proposito.

 

5.3.1. Nell’ambito del diritto alla salute, ed in particolare dei TSO, infatti, non sembra pertinente invocare il principio costituzionale di solidarietà sociale per giustificare l’imposizione generalizzata di doveri individuali; non si ignora il fatto che lo stesso C. Mortati abbia sostenuto esistere una “… correlazione, desumibile dall’art. 2 Cost., fra “diritti inviolabili” e “doveri inderogabili… ” (a diritti corrispondono anche doveri). L’illustre Maestro, però, ha voluto anche precisare “… come debba evitarsi di conferire alla medesima carattere di assolutezza, ESTENDENDO LA CATEGORIA DELLA DOVEROSITÀ OLTRE OGNI LIMITE. Se così non si facesse verrebbero ad introdursi remore tali al godimento dei diritti da svuotarli di quell’autonomia da cui traggono la loro caratteristica” [C. MORTATI, Istituzioni di diritto pubblico, I, Padova, 1969, 175; la stessa cautela l’Autore ha espresso, in particolare, in relazione al dovere di fedeltà ex art. 54 Cost. “come fonte diretta di limitazioni alle situazioni di vantaggio dei cittadini”, in Istituzioni, cit., II, 887].

Ben si comprende, allora, come l’espansione del principio solidaristico sia vista con estrema cautela dalla dottrina nettamente maggioritaria consapevole che, se venisse operata una indiscriminata estensione dei doveri costituzionali, si correrebbe il rischio di legittimare una sospensione dei diritti [si veda, per tutti, G. M. LOMBARDI, Contributo allo studio dei doveri costituzionali, Milano, 1967, 360 ss.].

 

5.3.2. La dottrina citata, più specificamente, criticando la proposta interpretativa di chi ritiene che il catalogo dei doveri sia aperto esattamente quanto quello dei diritti, ha sostenuto che tale tesi metterebbe a repentaglio il confine tra clausola di doverosità e clausola di libertà, senza approdare “… ad una sorta di funzionalizzazione immanente dei diritti, perché con questo ci si limiterebbe ad aprire uno spazio “conformativo” al legislatore, risolvendo la doverosità in una apertura tendenzialmente illimitata al potere discrezionale del detentore momentaneo della maggioranza.

Da un’attribuzione di competenza si passerebbe insensibilmente ad una frustrazione dello spazio di garanzia che la Costituzione, invece, dovrebbe rappresentare, e da un fondamento di legittimità collegato al modo d’essere dell’obbligo politico, ci si ridurrebbe a mera legalità. La clausola di doverosità renderebbe operanti a vuoto (leerlaufende) i diritti che la Costituzione, enunciandoli, vorrebbe, invece, garantire” [G. LOMBARDI, Doveri pubblici (diritto costituzionale), in Enc. dir., Milano, 2002, 360].

 

5.3.3. L’opzione per la limitata ampiezza della formula contenuta nell’art. 2 Cost. (“adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”) conseguirebbe perciò da una istanza garantistica che, mentre ammette l’estensione tendenzialmente illimitata del catalogo dei diritti (aggiungiamo: purché siano funzionali al “pieno sviluppo della persona umana”), reclama invece assoluta certezza per ciò che concerne la prestazione di doverosità “… determinabile soltanto in relazione alla puntuale individuazione di specifici e tassativi doveri ... La conseguenza è dunque che i doveri riconosciuti nella Costituzione sono quelli di cui agli art. 4, 30, 48, 52, 54 e 53…” [G. LOMBARDI, Contributo, cit., 362].

In definitiva, I DOVERI COSTITUZIONALI, per un principio di certezza giuridica, COSTITUISCONO UN “NUMERO CHIUSO” e la formula di cui all’art. 2 Cost. va interpretata come meramente riassuntiva di quelli già sanciti nel testo costituzionale [in tal senso, fra i tanti, M. LUCIANI, Il diritto costituzionale alla salute, in Diritto e società, 1980, 781; R. D’ALESSIO, Art. 2, in V. CRISAFULLI, L. PALADIN (a cura di), Commentario breve alla Costituzione, Padova, 1990, 12-13; F. PIZZOLATO-C. BUZZACCHI, Doveri costituzionali, in Dig.disc. pubbl., Torino, 2008, 319 ss.; G. TARLI BARBIERI, Doveri inderogabili, in S. CASSESE (diretto da), Dizionario di diritto pubblico, Milano, 2006, 2068 ss.].

 

5.3.4La stessa Corte Costituzionale, allorché ha utilizzato il principio di solidarietà in materia di vaccinazioni obbligatorie, lo ha fatto per riconoscere un equo ristoro al soggetto che ne risultasse danneggiato; in sostanza, la solidarietà interviene nella fase “patologica” del rapporto. Per la Consulta “il dovere inderogabile di solidarietà produce nella materia in parola un effetto giuridico consistente nel riconoscimento a favore del danneggiato da vaccino del diritto all’equo ristoro del danno patito (diritto poi riconosciuto anche per le vaccinazioni raccomandate), ma di per sé non è in grado di legittimare la previsione legislativa di un trattamento sanitario obbligatorio” [così A. A. NEGRONI, Articolo 32 della Costituzione e superamento delle vaccinazioni obbligatorie, in Forum di Quaderni Costituzionali, n. 2/2020, 53].

 

5.3.5. Ci sia consentito, in ogni caso, di aggiungere solo due notazioni.

Per un verso, in una democrazia sociale come quella italiana nella quale la “Repubblica” (intesa qui, in senso stretto, come Parlamento e Governo, Stato-apparato) ha dimostrato per prima di venir meno ai propri “doveri” inderogabili nei confronti del Popolo, ogni appello a doveri di solidarietà appare francamente ipocrita; quanti, per ottusità ideologica, hanno mostrato per primi di sottrarsi ai propri doveri costituzionali inderogabili non possiedono oggi alcuna autorità morale sull’argomento.

In secondo luogo, in una condizione per cui già i diritti nella loro dimensione sociale (libertà positive) hanno subito una duratura ed inaccettabile compressione, indulgere a tesi aperturiste sul novero dei “doveri costituzionali” in materia di salute equivale a correre il rischio di scardinare anche i diritti fondamentali di prima generazione (libertà negative).

 

6. Chiarito che il problema dei TSO è da discutere e risolvere con riferimento esclusivo all’articolo 32 Cost., è possibile comprendere gli approdi ormai granitici della giurisprudenza costituzionale la quale, agli esordi degli anni ’90, ha delineato una serie di principi-guida ai quali il legislatore deve ispirarsi per realizzare una equilibrata e severa ponderazione tra i due interessi in gioco, senza che l’uno sia sacrificabile per il soddisfacimento dell’altro. Ciò – si noti - in base alla considerazione che “Nessuno può essere semplicemente chiamato a sacrificare la propria salute a quella degli altri, fossero pure tutti gli altri ” [così Corte Cost., sent. n. 118/1996]. Rinviando al prosieguo sul tema, per niente secondario, della natura della riserva di legge in materia, bisogna ora specificare quali sono le condizioni che consentono l’adozione dei TSO.

 

6.1. Innanzi tutto, un trattamento obbligatorio, ai sensi dell’art. 32 Cost., può considerarsi legittimo solo se diretto a protegere l’interesse della collettività alla salute [ex plurimis, Corte Cost. sent. n. 307/1990; sent. n. 258/1994; sent. n. 18/1996; sent. n. 27/1998] e non può perseguire finalità diverse da quelle sanitarie (p. es., scopi di giustizia o di sicurezza pubblica) [si veda per tutti, P. BARILE, Diritti dell’uomo e libertà fondamentali, Bologna 1984, 386]. In breve, il TSO potrà essere introdotto solo se indispensabile per evitare una oggettiva situazione di pericolo per la salute della comunità dei consociati.

 

6.1.2 Sul punto, e partendo dal presupposto che il TSO determina il sacrificio o comunque la compressione di un diritto fondamentale della persona garantito dagli artt. 2, 13 e 32 Cost., è stato fatto notare come le caratteristiche oggettive del pericolo alla collettività dovranno essere valutate in maniera particolarmente stringente [cfr. A. A. NEGRONI, Articolo 32 della Costituzione, cit., 35]. Pertanto, mutuando concetti utilizzati dalla dottrina penalistica per descrivere un pericolo in grado di incidere sulla pubblica incolumità (a tutela della quale, si badi, sono non a caso previsti i delitti di epidemia dolosa e colposa, disciplinati rispettivamente dagli artt. 438 e 452 Cod. Pen.), è stato affermato che debba trattarsi di un pericolo “… caratterizzato dalla dimensione di potenzialità lesiva generalizzata e particolarmente intensa, tale da mettere a repentaglio TUTTI I MEMBRI DELLA COLLETTIVITÀ, o meglio un NUMERO INDETERMINATO DI ESSI” [così A. A. NEGRONI, Articolo 32 della Costituzione, cit., 37, al quale si rinvia per i riferimenti bibliografici]. Più in dettaglio, nel “pericolo per l’incolumità pubblica”:

“…assume significato e valore concreto non tanto la rilevanza giuridica dell’offesa all’individuo come tale, quanto quella della comunità societaria intesa come sicurezza ed incolumità delle persone NELLA FISICA ESISTENZA DELLA COLLETTIVITÀ…sono proprio quelle offese…che al di là di qualsivoglia considerazione relativa ai singoli beni colpiti o minacciati si propagano o possono propagarsi ad un numero indeterminato di individui

Quest’orientamento, del resto, è espresso dalla Relazione ministeriale sul progetto definitivo del codice penale nella quale appunto si afferma che la nozione di incolumità pubblica è assunto nel suo preciso significato etimologico, e cioè come un bene che riguarda la vita e l’integrità delle persone, onde sono in considerazione nell’apposito titolo solo i fatti che possono esporre a pericolo un numero indeterminato di persone” [così G. SAMMARCO, Incolumità pubblica (reati contro la), in Enc. dir., Milano, 1971, 32].

 

6.2. In via concorrente, inoltre, il trattamento sanitario può essere imposto solo se diretto anche al miglioramento della salute individuale. Il TSO non è volto, in via esclusiva, a preservare la salute collettiva.

Proprio dal comma II dell’art. 32 si ricava, anzi, che il rilievo costituzionale alla salute è idoneo a comprimere l’autodeterminazione del singolo, ma non a permettere conseguenze dannose per la salute individuale, “… salvo che per quelle sole conseguenze, che, per la loro temporaneità e scarsa entità, appaiano normali di ogni intervento sanitario, e pertanto tollerabili [così Corte Cost. sent. n. 118/1996].

 Oltre a non essere ammissibili “sacrifici della salute (del singolo) a vantaggio di quella collettiva…”, se ne ricava l’ulteriore corollario per cui “… sono da ritenere incompatibili col sistema costituzionale trattamenti obbligatori volti esclusivamente ad imporre ai singoli un “miglioramento” delle loro condizioni di benessere psico-fisico, secondo una visione paternalistica e funzionalistica della tutela del bene-salute non accolta nella Costituzione italiana…” [così D. MORANA, Diritto alla salute e vaccinazioni obbligatorie, in Diritto e Salute – Rivista di sanità e responsabilità medica, Roma, n. 5/2017, 52].

 

7. Aggiuntivi limiti e garanzie formali e sostanziali in materia di TSO sono, come anticipato, sanciti ancora dall’art. 32 Cost., il cui comma secondo avverte come non si possa essere obbligati ad un TSO “se non per disposizione di legge” e che quest’ultima non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”.

 

7.1. Il TSO deve allora essere introdotto con legge (c.d. riserva di legge), ritenuta riserva di legge statale, e ciò anche dopo la riforma del titolo V della Costituzione [in giurisprudenza, tra le tante, si veda Corte Cost. n. 5/2018]. Seppure sia controverso in dottrina se tale riserva di legge sia da intendersi come assoluta o relativa, sussistono sufficienti elementi per ritenere che la stessa debba interpretarsi in senso assoluto.

In primo luogo, infatti, la ratio della riserva di legge “… adempie una funzionegarantista: serve, cioè, alla tutela dei diritti fondamentali dei cittadini contro il potere esecutivo (specialmente contro il potere esecutivo). [Essa adempie altresì] una funzione democratica: serve, cioè, a ricondurre la disciplina di certi oggetti sotto il dominio degli organi rappresentativi, che sono espressione della sovranità popolare” [così R. GUASTINI, Legge (riserva di), in Dig. disc. pubbl., Torino, 1994, 166-167; nello stesso senso L. CARLASSARE, Legge (riserva di), in Enc. giur. ital., XVIII, Roma, 1990, 1 ss.].

Ne consegue che “… solo l’Assemblea rappresentativa può intervenire sui diritti (fondamentali) del cittadino” [così L. CARLASSARE, Fonti del diritto (diritto costituzionale), in Enc. dir., Milano, 2008, 561].

 

7.1.2. Vi sarebbero anche ragioni di carattere testuale che militerebbero a sostegno di detto assunto: “… Tavolta (la Cost.) usa formule del tipo : “nei soli casi e modi previsti dalla legge” (art. 13, 2° co., Cost.), “in casi [...] indicati tassativamente dalla legge” (art. 13, 3° co., Cost.), “nei soli casi e modi stabiliti dalla legge” (art. 14, 2° co., Cost.), “se non in forza di una legge” (art. 25, 2° co., Cost.), “se non per disposizione di legge(art. 32, 2° co., Cost.)… e simili…(in tali casi) si ritiene generalmente che la riserva di legge abbia carattere “assoluto”…” [R. GUASTINI, Legge (riserva di), cit., 169, il quale sottolinea tuttavia come la distinzione tra riserva assoluta e relativa è applicata dalla Corte Cost. in modo incostante “… nel senso che la Corte mostra la tendenza inquietante a degradare a riserve relative anche certe riserve che in precedenza erano considerate assolute”].

 

7.1.3. Non è mancato chi, inoltre, da un punto di vista sistematico, ha fatto notare che “… se si ammette…che la previsione di trattamenti sanitari obbligatori sottragga alla disciplina generale sull’imposizione delle prestazioni personali di cui all’art. 23 (garantite dalla sola riserva relativa di legge) quelle particolari prestazioni che limitano la libertà di salute, accordando ad esse una maggiore garanzia, risulta allora ragionevole dedurne che tale rafforzato intento garantistico trovi espressione, nell’art. 32, anche in una riserva di legge che abbia il carattere dell’assolutezza” [così D. MORANA, La salute come diritto costituzionale: lezioni, Torino, 2015, 48]. Dal carattere assoluto della riserva dovrebbe conseguirne che solo una legge formale potrebbe disciplinare i TSO, dovendosi parimenti escludere qualsiasi equiparazione tra “legge” e “decreto legge” (e, più in generale, con atti aventi forza di legge), dal momento che tale nozione non riguarda la distribuzione delle competenze normative, ma riguarda esclusivamente la gerarchia delle fonti [R. GUASTINI, Legge (riserva di), cit., anche se di tale avviso non sembra essere stata Corte Cost. sent. n. 5/2018 e sent. n. 258/1994]. Nell’attuale clima emergenzialista, l’opzione potrebbe configurarsi quindi pressoché scontata.

 

7.2. La riserva di legge in questione, comunque, oltre a poter introdurre solo un TSO “determinato”, risulta aggravata dal limite di chiusura (c.d. “riserva di legge rafforzata) del “rispetto della persona umana”.

In detta clausola devono annoverarsi, secondo l’evoluzione storica, limiti attinenti gli aspetti relativi al rapporto tra medico e paziente, come l’obbligo di riservatezza sulla salute di quest’ultimo, nonché quello di informazione inteso come valorizzazione del principio di autodeterminazione che ha trovato espresso riconoscimento nell’art. 5 della Convenzione sui diritti dell’uomo e la biomedicina (Oviedo 1997), nell’art. 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE (Nizza, 2000), ma che ancor prima è fondato sugli artt. 2, 13 e 32 Cost.  secondo quanto confermato dalla Corte Cost. con sent. n. 438/2008 [conf. Corte Cost. sent. n. 253/2009]. Ciò comporta che, se in caso di TSO possa prescindersi dal “consenso” (in quanto l’intervento sanitario è, per antonomasia, limitativo della libertà), tuttavia debba comunque continuare a parlarsi di diritto all’informazione (come autonomo diritto soggettivo): “… Detto altrimenti, è necessario tenere distinta la liberta di scegliere a quali prestazioni sanitarie sottoporsi dal diritto ad essere informato sulle medesime: l’obbligatorieta del trattamento va a limitare soltanto la prima, ma lascia del tutto integro il secondo” [D. MORANA, Diritto alla salute, cit., 59].

7.2.1. Per completezza, oltre che per organicità riassuntiva, bisogna infine segnalare l’opinione di chi, correttamente, ritiene che la clausola del rispetto della persona umana riassuma in generale i diritti di libertà riconosciuti dalla Cost. ed ha lo scopo di impedire che il legislatore possa violarli.

Difatti “… la “dignità”, di cui all’art. 3 Cost. ... si concretizza e si specifica in tutta la serie di situazioni soggettive che la nostra Costituzione chiama “diritti inviolabili dell’uomo…come singolo” (art. 2) e, quindi, tra di essi, anche storicamente antonomastica e preminente, la libertà di coscienza o religiosa (art. 19), di cui la libertà di manifestazione del pensiero (art. 21) è la versione laica. Il rispetto della persona umana si sostanzia dunque (anche) nel rispetto delle opinioni, delle credenze, dei convincimenti dei singoli, che, più di ogni altro valorerappresentano il patrimonio più geloso ed autentico del singolo e il contenuto della sua dignità” [così F. MODUGNO, Trattamenti sanitari “non obbligatori” e Costituzione, cit., 314;]. Rientra pertanto nel “… contenuto minimo del rispetto della persona (anche) L’INSIEME DELLE CONVINZIONI ETICHE, RELIGIOSE, CULTURALI E FILOSOFICHE CHE ORIENTANO IL SINGOLO…”, restando esclusi i meri convincimenti personali non fondati su dati scientifici [così, richiamando Corte Cost. sent. n. 134/1988, P. FALZEA, Forum: Vaccini obbligatori: le questioni aperte, (risposte di) in BioLaw Journal – Rivista di BioDiritto, n. 2/2017, 47]. Perciò anche solo l’auspicio di voler tacitare ragionati dissenzi o di imporre “impedimenti meccanici” costituisce attualmente la vera e più grave manifestazione di negazionismo (costituzionale).

 

Bisogna aggiungere, infine, che l’interesse della collettività che può legittimare un TSO non deve essere evitabile con misure alternative, “… in quanto in caso contrario lo Stato sarà tenuto a porre in essere le misure, diverse dai trattamenti sanitari obbligatori, in grado di evitare il pericolo per la salute collettiva senza il sacrificio della libertà dei cittadini” [A. A. NEGRONI, Articolo 32 della Costituzione, cit., 812].

Tale assunto, ad avviso di chi scrive, può evincersi anche dalla menzionata sent. n. 438/2008 allorché la Corte, delineando le caratteristiche che deve possedere l’informazione in materia di cure mediche, ha parlato di “… diritto di ricevere le opportune informazioni in ordine alla natura e ai possibili sviluppi del percorso terapeutico cui (l’individuo) puo essere sottoposto, nonché delle eventuali terapie alternative”. Un trattamento sanitario che venisse imposto in vista della tutela di un interesse collettivo, in quanto limitativo di un diritto fondamentale, dovrebbe quindi essere utilizzato solo come extrema ratio. 

martedì 8 settembre 2020

REFERENDUM COSTITUZIONALE: TRA NORMALIZZAZIONE DEL VINCOLO ESTERNO E EFFICIENZA...NELLA RIDUZIONE DEL PIL

Post di Arturo, che ringraziamo per il contributo.



Come sapete, il 20 e 21 settembre si svolgerà un referendum confermativo ex art. 138 della Costituzione sulla legge costituzionale concernente "Modifiche agli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione in materia di riduzione del numero dei parlamentari".
Posto che votare è un dovere civico (art. 48 Cost.), vi ricordo che non c’è quorum, quindi l’astensione è irrilevante ai fini del risultato.

Credo possa essere interessante un esame molto semplice ma – speriamo – preciso degli argomenti pro e contro più direttamente attinenti al taglio del blog (per gli altri, vi rimando all’articolo della Algostino linkato al n. 5), alla luce di un approccio alla Costituzione che intenda “prenderla sul serio”, come dice Dworkin.

1. In primo luogo un riferimento temporale: come si legge su Wikipedia, fu dagli anni Settanta che cominciò ad essere agitato l’auspicio di una riduzione del numero dei parlamentari. Difficile non lasciar correre il pensiero al paradigma della governabilità lanciato dalla Trilaterale (qui, addendum) e da allora dominante nei salotti, buoni o meno buoni che siano.

Questo scambio in Costituente fra Einaudi, ovviamente favorevole alla riduzione, e Terracini tende ad avvalorare molto i sospetti circa la matrice antidemocratica, e specificamente neo-liberale, del provvedimento oggetto del referendum:
“EINAUDI: è d'accordo con l'onorevole Conti sulla opportunità di ridurre il numero dei membri, sia della prima Camera che della seconda, anche per ragioni, che crede evidenti, di tecnica legislativa. Difatti, quanto più è grande il numero dei componenti un'Assemblea, tanto più essa diventa incapace ad attendere all'opera legislativa che le è demandata.PRESIDENTE TERRACINI: la diminuzione del numero dei componenti (per) la prima Camera repubblicana sarebbe in Italia interpretata come un atteggiamento antidemocratico, visto che, in effetti, quando si vuole diminuire l'importanza di un organo rappresentativo s'incomincia sempre col limitarne il numero dei componenti, oltre che le funzioni. Quindi, se nella Costituzione si stabilisse la elezione di un Deputato per ogni 150 mila abitanti, ogni cittadino considererebbe questo atto di chirurgia come una manifestazione di sfiducia nell'ordinamento parlamentare.”

2. Questa citazione contiene un’osservazione molto importante: il riferimento alle funzioni. 
Benché essa sia dirimente, e in fondo banale, mi pare che nel dibattito referendario, as usual, la questione abbia fatto capolino solo sporadicamente: è chiaro che la riduzione del numero di voci che possono accedere al Parlamento, ovviamente per prime resterebbero alla porta quelle fuori dal coro, qualifica la qualità della rappresentanza, ma uno svuotamento delle competenze dell’organo rappresentativo ne costituisce un vulnus esiziale. 
Detto nel modo più semplice possibile: di che rappresentanza parliamo se il Parlamento non decide più niente di importante perché c’è il vincolo esterno? Soprattutto nella lettura delle norme procedurali si rischia di perdere il nesso ermeneutico fra la disposizione e i principi generali (ricordo il sempre prezioso insegnamento di Esser), che ci sono e non possono non esserci *sempre*, siano essi esplicitati o meno.
Si capisce bene che un conto è leggere le norme sulla rappresentanza come se il loro scopo fosse, poniamo, assicurare la semplice rimozione pacifica dei governanti (Popper) – quasi che il cambiamento degli attori a copione invariato costituisse chissà quale meta ambita - o decisioni rapide o un aumento dell’“efficienza”, qualsiasi cosa possa voler dire in questo contesto (ci torno sopra dopo parlando della teoria delle scelte collettive); ben diverso l’atteggiamento di chi individui la ratio nell’esigenza di garantire la sovranità popolare “fondata sul lavoro”.   
Per esempio un vecchio Maestro considerava corollario delle funzioni riconducibili alla rappresentanza l’esigenza che il Parlamento avesse “la disponibilità-controllo delle risorse finanziarie senza vincoli esterni od interni che non siano quelli derivanti dal riconoscimento dei diritti costituzionalmente garantiti.” (G. Ferrara, Le forme di governo in G. Azzariti (a cura di), Quale riforma della Costituzione?, Giappichelli, Torino, 1999, pagg. 15-16).
Né dovrebbe essere mai dimenticato che all’epoca del Trattato di Roma, quando certi scenari erano ancora impensabili, o almeno inconfessabili, fu solennemente promesso che “niente di sostanziale può sfuggire al controllo dei Parlamenti nazionali” (qui, n. 5.1.).
  
2.1. Inutile dire quanto il processo di integrazione abbia proceduto in direzione esattamente contraria alle promesse e alle direttive costituzionali, come viene, o almeno veniva, placidamente ammesso anche su manuali istituzionali:
il trasferimento alle istituzioni comunitarie dei numerosi e importanti poteri di cui si è sin qui discusso finisce col trasferire alle istanze intergovernative che danno corpo a quelle istituzioni la stessa funzione d’indirizzo politico generale, rendendo poi in buona parte vincolate le conseguenti determinazioni nazionali.
In questa prospettiva la separazione (ideale) tra il piano governativo comunitario e quello interno finisce col rappresentare lo schermo, posto dai governi nazionali, non solo ai controlli giuridico-costituzionali, ma anche a quelli più strettamente politici nei confronti del loro operato.” (F. Sorrentino, Profili costituzionali dell’integrazione comunitaria, Giappichelli, Torino, 1996, pag. 55).

Uno stato patologico la cui normalizzazione, a ben guardare, costituisce la vera ratio di tutto il controriformismo costituzionale degli ultimi decenni
La finalità è quella di “ratificare, cristallizzandola in Costituzione, la sottomissione dei massimi organi di decisione politica, cioè le Camere elettive (il nuovo Senato tra l'altro perde questa connotazione) ad un indirizzo politico, quello €uropeo, che non solo si forma al di fuori del territorio e della volontà del popolo italiano, ma che diviene vincolante al di là di qualsiasi esito elettorale (rendendolo per sempre irrilevante, finché fosse in vigore questa riforma della Costituzione).” come dicemmo in occasione dello scorso referendum costituzionale (qui, n. 3).
Mutatis mutandis, ossia in forma un po’ più indiretta, il ragionamento di allora resta del tutto pertinente per capire il senso profondo dell’odierna riforma, il cui esito immediato sarebbe di ratificare “il caciquismo del sistema politico italiano”, come ha detto efficacemente Mangia.  

I restanti argomenti del SI valgono poco, ma per completezza dedicherò loro un minimo di attenzione.

3. La corruzione. Un evergreen che solo la sempre più premeditata ignoranza della storia può consentire di proporre. 
Come ricorda Nadia Urbinati (Rapresentative Democracy, The University of Chicago Press, Chicago e Londra, 2006, pag. 220), che, al netto del suo europeismo, dice parecchie cose sensate, “gli Ateniesi, le cui  giurie popolari erano così numerose che neanche il cittadino più ricco poteva realisticamente comprarsi un verdetto favorevole, erano ben consapevoli della funzione preventiva del numero.”
Una delle poche ad aver ricordato questa lezione storica è stata M. C. Pievatolo, a cui rendo volentieri merito:
 

4. Il risparmio. In termini monetari si parla di spiccioli (Infodata, una fonte direi insospettabile di populismo, quantifica la favolosa somma in 81, 6 milioni l’anno, ben lo 0, 01% del PIL), ma il problema sta nel manico: non solo perché è insensato e orribilmente ideologico pensare di poter dare un prezzo alla rappresentanza, ma anche perché sembra impossibile far comprendere – anche se naturalmente pure la stupidità è un fatto sociale, come diceva Costanzo Preve - la banale realtà che la spesa pubblica, compresi ovviamente i vituperati stipendi dei parlamentari, è una componente positiva del PIL, quindi una sua riduzione, sia pure solo dello 0, 01% del PIL, produrrebbe effetti di segno negativo. Ovvero termini pertinenti se riferiti alla contabilità privata risultano fuorvianti se trasferiti in quella pubblica senza adeguati caveat (se interessa un semplice ripasso, ex multis vi consiglio questo post).


4.1. Meno puerile, anche se non necessariamente meno ideologica, un’argomentazione basata sulle nozioni di efficienza e costo delle decisioni della teoria delle scelte collettive (Buchanan e Tullock): decidere richiede tempo e risorse che potrebbero essere impiegati altrimenti, rappresenta quindi un costo. 
E’ evidente che considerare l’esercizio della libertà collettiva un costo implica che il massimo di risparmio lo si conseguirebbe con un’autocrazia: l’aberrazione utilitarista di considerare la libertà priva di valore intrinseco, su cui in tanti hanno attirato l’attenzione, a partire da Kant per arrivare a Rawls e Sen, colpisce ancora. 
Per non parlare del tipo umano presupposto da modellizzazioni che ritengono di poter ridurre  ogni scelta a un calcolo utilitaristico, anche se “imparziale”: che cosa penseremmo della serietà morale di Anna Karenina, si domanda Scruton (On Human Nature, Princeton University Press, Princeton e Oxford, 2017, pag. 96), se la trovassimo intenta a risolvere il dilemma della scelta fra Vronskij e Karenin attraverso un calcolo di utilità di questo tipo: “meglio soddisfare due persone giovani e sane, io e Vronskij, che una più anziana per un fattore 2.5 a 1: quindi vado.”?  
Di queste ed altre assurdità che aleggiano attorno al concetto di efficienza così come impiegato dall’economia ho fatto cenno qui, ma se non altro il rigore formale dei modelli li rende talvolta refrattari a un rozzo impiego apologetico della situazione specifica. Sì perché l’altra posta negativa contemplata dalla teoria, quella dallo scambio con la quale dipende l’efficienza dell’assetto decisionale, sono i c.d. “costi esterni”, ossia i costi che la decisione impone ai membri della società.
Qui bisogna essere molto chiari. Se ve lo state domandando, la risposta è sì: un (fantomatico) autocrate illuminato incarnerebbe l’opzione ottimale della teoria: azzererebbe i costi della decisione e massimizzerebbe la funzione di utilità dei sottoposti. Tanto più si afferma che il benessere dei cittadini, pardon: sudditi, dipende dalle inevitabili, ancorché impopolari, riforme, tanto più si può sostenere che costi della decisione e costi esterni si alimentano gli uni con gli altri “bloccando” il paese in una situazione di letale “inefficienza” del sistema rappresentativo. (Non credo che questa intelaiatura retorica suoni familiare solo a me…).
Non è un caso che Salvati, il neoriformista gallonato, affacciasse anni fa l’esigenza se non di un dittatore illuminato almeno di un suo equivalente funzionale (evidentemente la strada da Blair a Schmitt è molto più breve di quanto possa sembrare): “Il dittatore illuminato è una figura mitica, una finzione. Ai tanti ingeneri istituzionali che si affannano al capezzale della seconda repubblica l’arduo compito di inventare un equivalente democratico del benevolent dictator, che renda possibile la formazione di governi autorevoli, capaci di affrontare misure impopolari e di sostenerle nel lungo periodo.”
Come sanno, o almeno potrebbero sapere, ormai anche i sassi, questo equivalente funzionale, sia pure con qualche frizione che le riforme costituzionali e legislative di segno decisionista sono appunto chiamate ad appianare, c’è già, ed è il vincolo esterno (qui l’inequivocabile testimonianza di Carli); se tuttavia vogliamo osare insinuare che, per usare un delicato eufemismo, tanto benefico per i cittadini italiani esso non si sia rivelato, anche senza scomodare Platone (ma perché no?), ecco che i termini della questione si prestano ad essere rovesciati e le fantasie autocratiche dei novelli Grandi Inquisitori ribaltate.

Ovvero, se ci troviamo nella situazione descritta da questo tweet di Bankitalia:
ossia con un PIL tornato al livello del ’93 e un PIL pro-capite a quello degli anni Ottanta (!), tante cose si possono dire delle decisioni politiche a monte di questi straordinari risultati, dal divorzio Tesoro – Banca d’Italia all’unione bancaria (qui un eloquente regesto redatto da Giacchè), ma certo non che se ne sia discusso *troppo*. 

Lo stiamo vedendo oggi col MES: se non è filato via sul velluto more solito, è stato grazie ad alcune voci fuori dal coro che hanno imposto un minimo di pubblica discussione. Quindi tutto si può dire della rappresentanza meno che al suo alleggerimento funzionale si sia accompagnato quello dei costi esterni: esattamente il contrario.    
(Naturalmente, sia detto en passant, se passassimo il sistema decisionale comunitario al pettine delle teoria delle scelte pubbliche ne uscirebbe come Kojak, come potete verificare leggendo il libro di Majone. Ovvero l’intermittenza e strumentalità dell’appello alla scienza e ai suoi tecnicismi giustifica una volta in più l’osservazione che stiamo assistendo non alla rivolta degli ignoranti antiscientifici, ma al manifestarsi “di un autoritarismo gerarchico che non sarebbe altrimenti possibile esprimere in modo esplicito con il vocabolario della politica”, come ha detto il Pedante).
Più nello specifico, Alberto ci ha fornito un vivace quadro di prima mano delle presunte lungaggini parlamentari: “l'opposizione non può far perdere tempo alla maggioranza, e in particolare non lo ha fatto col Cura Italia, tant'è che il provvedimento è andato in Assemblea col relatore (su quello che è successo dopo taccio per carità di Patria).”

5. Ultimo, anche per ordine di importanza, il facciamocome
Qui la Algostino, al cui articolo vi rinvio anche per altre questioni tecniche, è stata impeccabile, quindi mi limito a citare lei: “L’Italia ha una percentuale di numero dei deputati (camera bassa) ogni 100.000 abitanti pari a 1, identica al Regno Unito (1) e simile alla Francia (0.9)[10], alla Germania (0.9)[11], ai Paesi Bassi (0.9), alla Polonia (1.2), al Belgio (1.3)[12]. Non mancano Paesi che presentano una percentuale decisamente più alta, quali, per limitarsi a qualche esempio: Austria (2.1), Danimarca (3.1), Grecia (2.8), Portogallo (2.2), Svezia (3.4); per non citare Stati con popolazioni e territorio di dimensioni assai ridotte, come Slovenia (4.4), Lussemburgo (10), Malta (14.3)[13].

In caso di approvazione definitiva della riforma[14], l’Italia si troverebbe ad avere una percentuale pari a 0.7, la percentuale più bassa fra gli Stati membri dell’Unione europea (seguita dalla Spagna, con 0.8).

Ora, fermo restando che i dati devono essere letti senza misconoscere il ruolo giocato dalla loro contestualizzazione e, quindi, alla luce di variabili “istituzionali”, come la forma di governo e il sistema elettorale, così come di elementi di fatto, quali la popolazione totale o le dimensioni del territorio, quanto detto smentisce la vulgata che dipinge l’Italia come un Paese anomalo per la eccessiva numerosità dei suoi parlamentari.”

6. Insomma, e per concludere, la riforma non serve ai fini indicati dai suoi proponenti ma ad altri. Ho già detto quali ma lo ripeto con un’osservazione in termini più generali: la cifra caratteristica di questo cupo inizio secolo è quello di una sempre più pronunciata “regressione oligarchica”, nel senso di uno “spostamento verso l’alto dei rilevanti centri decisionali, in forza del quale le decisioni politiche scivolano via dalle sedi più ampie e partecipate e si ritirano in luoghi meno accessibili, per lo più riservati a ristretti gruppi oligarchici” (S. Petrucciani, Democrazia, Einaudi, Torino, 2014, s. p.). 
Una regressione che va facendosi ogni giorno più apertamente autoritaria e distopica. Votare NO significa, se non altro, non rendersi complici di chi sta forgiando le nostre catene.