lunedì 18 febbraio 2013

L'ART.36 COST. E LO SVUOTAMENTO UEM DEL "SALARIO MINIMO"- PARTE 2

Questa è la seconda parte dello studio di Sofia sulla relazione tra art.36 Cost e "salario minimo"...europeo. Cioè di uno dei frutti "estremi" della ideologia economica che Flavio, in uno dei suoi "ricchi" commenti, relativamente alla situazione del Regno Unito, ci descrive nei suoi effetti, così:
"Ad esempio, guardiamo l'UK...in questo articolo si dice chiaro e tondo che, nonostante la compressione dei salari, l'economia non riparte perchè non c'è domanda, nè estera nè soprattutto interna. Quindi dobbiamo arrivare allo stallo della domanda "mondiale" (o alla caduta francese) per vedere un cambio di rotta.
Aldilà della solita retorica su Berlusconi
Lavoce.info fotografa l'UE in piena desertificazione lavorativa. Se non sono 50 ma 25 i milioni di disoccupati, deve far più scandalo l'errore di Berlusconi o l'enormità delle cifre? A mio avviso la seconda. Allora, come si diceva più su, e non me ne vogliano affatto gli interessati (fra cui mi ci metto, Moral Hazard!) perchè la critica qui non è ai diritti presi in esame, ma alla strumentalizzazione che l'UE ne fa: cosa me ne faccio io dei diritti quale coppia di fatto, o di diritti per l'adozione o per il matrimonio fra persone dello stesso sesso se ci viene tolto il diritto al lavoro, il diritto all'istruzione, il diritto alla sanità, il diritto a vivere un'esistenza dignitosa? Non avremo lavoro, non avremo possibilità per i nostri figli di vederli studiare ed elevarsi nella scala sociale e di curarli in caso di malattia (grave o meno grave). Non avendoli, che ce ne faremo della possibilità di adottarli o della possibilità di sposarmi con il mio compagno/compagna oppure avere, in caso di coppia di fatto, gli stessi diritti delle coppie sposate? Se non abbiamo un lavoro, o campiamo con 700euro al mese, ci sposiamo? Facciamo figli? Compriamo casa? Manteniamo la nostra prole? Possiamo mandarli a scuola? Possiamo permetterci un'esistenza dignitosa? Se io non mi posso sposare, protesto perchè il mio diritto venga riconosciuto in ogni sede. Se io non posso lavorare, protesto arrivando al punto tale di immolare mè stesso. Perchè il lavoro adeguatamente remunerato è dignità, il lavoro è speranza, il lavoro è futuro per me e per i miei figli. Non scordiamocelo. Non per nulla il lavoro è la pietra fondante della nostra Costituzione. Ce lo stanno togliendo. E non ci ascoltano. Ed arriviamo al punto tale da distruggere il nostro corpo perchè senza lavoro non c'è futuro, non c'è uguaglianza, non c'è vita. "

Per parte nostra aggiungiamo questa eloquente intervista a Treu. Ci dice, tra l'altro, che "gli ammortizzatori sociali" andrebbero estesi anche ai "soggetti più deboli", i precari, "perchè ce lo chiede l'Europa" (forse è uno degli ultimi a usare ancora disinvoltamente questa formula). E aggiunge che, anche se ci sono i "vincoli di bilancio" che lo impediscono, dobbiamo riuscirci, "se vogliamo essere europei" (!!!). E si può rimediare con i "fondi interprofessionali" e "delle parti" cioè, in pratica, ponendo ulteriori oneri a carico dei lavoratori a tempo indeterminato (i cui salari sono fra i più bassi d'Europa e, ora più che mai, sottoposti a deflazione in termini "reali"). Ma anche a carico delle imprese, rendendo così ulteriormente meno conveniente l'assuzione a tempo indeterminato. Potenza dell'Europa!
La verità è che il problema dei "soggetti più deboli" non si risolve indebolendo in pari misura quelli "meno deboli", ma abolendo il "precariato".
Cioè tornando alla legislazione del lavoro anteriore alla legge Treu. Simple like that. E se di fare il contrario ce lo chiede l'Europa, come vedremo nel post, non è soltanto controproducente dal punto di vista economico, ma è semplicemente INCOSTITUZIONALE. E questo, una democrazia non dovrebbe consentirlo.

1- Qualunque discorso sul salario minimo, infatti, non può prescindere dal connesso problema della disoccupazione, dell’inflazione, della crescita del PIL.
Della disoccupazione si sono avute varie teorie: tanto per fare un accenno, mentre nella teoria keynesiana la disoccupazione era sempre permanente (e involontaria) e frutto di una domanda insufficiente (da curare con l’aumento della spesa pubblica), per i "classicisti" ("neo" e NMC, ndr.), la disoccupazione era sempre un male transitorio, perché essa scaturiva dal momentaneo adattamento del sistema economico verso l’equilibrio.
La legge di Okun spiega in che termini sta il rapporto tra disoccupazione e PIL. In particolare la legge stabilisce che è necessaria una crescita (nominale) del PIL del 2.7%, affinché il tasso di disoccupazione rimanga stabile (invariato). Invece, per ridurre il tasso di disoccupazione dell’1%, occorre aumentare del 2% il tasso "reale" di crescita del PIL (la c.d. regola del 2 a 1).
Con riferimento al rapporto tra disoccupazione e inflazione, invece, molteplici studi hanno evidenziato come un miglioramento dell’inflazione è pagato da un peggioramento della disoccupazione e, viceversa, una diminuzione del tasso di disoccupazione è possibile solo provocando spinte sui prezzi.
Quanto sopra è causato dal fatto che l’attuazione di una politica economica  espansiva, provoca una crescita della produzione e dell’occupazione, ma inevitabilmente comporta anche una certa pressione sui prezzi.  Esiste, cioè,  un trade-off  tra inflazione e disoccupazione, dal quale i governi centrali non possono prescindere nell’attuazione delle loro politiche economiche. A. W. Phillips ha studiato empiricamente questo trade-off, giungendo ad elaborare una rappresentazione grafica di esso, nota come curva di Phillips e che non è altro che l’espressione della scelta fra una minor inflazione o una minor disoccupazione, per un sistema economico.
La curva elaborata da Phillips ha avuto un grande seguito ed è stata utilizzata dai pubblici poteri di tutto il mondo per fissare degli obiettivi di politica economica che riducessero una delle due grandezze, compatibilmente con un certo peggioramento dell’altra.
In pratica, i governi dei paesi che utilizzano la curva di Phillips, hanno impostato la propria politica economica cercando di raggiungere degli obiettivi, in termini di combinazione inflazione-disoccupazione, che rappresentassero il male minore per la collettività. In realtà quello che i pubblici poteri avrebbero dovuto e dovrebbero cercare di ottenere non è il raggiungimento di un certo punto sulla curva che sia accettabile dal paese, ma lo spostamento della curva stessa verso l’interno, in modo da migliorare entrambe le grandezze economiche: inflazione e disoccupazione. Ciò è possibile mettendo in campo un insieme di politiche monetarie e fiscali, nonché di politiche legate all’offerta (sussidi e incentivi), in grado di indirizzare l’economia verso risultati possibili e certi, che siano migliorativi di tutte le grandezze economiche in gioco.
L’utilizzo, in molti paesi, della curva di Phillips, corretta però dalla variabile neo-classica delle "aspettative razionali", continua a determinare effetti contrari o almeno contrastanti con quelli che si assumono prefissati.
2- Anche in Italia sono state attuate delle politiche del lavoro senza che fossero chiari gli scopi prefissati. Il Ministro delle politiche del lavoro a proposito dell’art. 18 ha sempre sostenuto che la modifica di tale norma sarebbe stata necessaria per rendere il lavoro flessibile.  E la flessibilizzazione del rapporto di lavoro viene vista come il fulcro su cui basare una riforma del mercato del lavoro, capace sia di generare occupazione come di rendere i sistemi produttivi più competitivi.
Si vorrebbe dunque arrivare ad avere un mercato del lavoro flessibile, con minori costi della manodopera per le imprese e aumento di competitività, una maggiore facilità di ricorso a forme di lavoro temporaneo. Eppure queste stesse premesse sono quelle che hanno dato vita, a seguito della riforma definita con il decreto legislativo nr. 276/2003, a diverse tipologie contrattuali alternative al classico contratto di lavoro subordinato senza per questo essere riuscita a raggiungere un grado di positiva e costruttiva flessibilità, né un aumento della disoccupazione che attualmente si attesta intorno all’11%.
In ogni caso anche con la legge n. 92 del 2012 di modifica dell'articolo 18 lo scopo dichiarato era la maggiore flessibilità in uscita che avrebbe avuto come effetto la riduzione delle richieste salariali da parte dei lavoratori, il contenimento delle retribuzioni e, per questa via, l’uscita dalla crisi economica.
Questo ragionamento affonda le sue radici teoriche, ora più forti che mai, negli anni '30 quando Arthur Pigou (noto per "l'effetto ricchezza" e caposcuola del c.d. "marginalismo", oggi in gran voga),    attribuì la mancata ripresa e la disoccupazione permanente alle resistenze sindacali rispetto alle riduzioni dei salari (senza le quali le imprese non potevano abbattere i costi ed essere più competitive).
Ma già allora, nel capitolo 19 della Teoria generale, Keynes attacca duramente la suddetta teoria, sostenendo, invece, che l’occupazione dipende dalla produzione e la produzione dalla domanda. Conseguentemente la riduzione salariale determina il calo dei consumi e quindi della domanda, con risultati che peggiorano la situazione che si vuole combattere.
Forse proprio per l’incoerenza delle enunciazioni e degli scopi asseriti dal Governo Italiano, sono in molti a dubitare che le reali motivazioni delle riforme del lavoro siano quelle dichiarate. Mentre sembra evidente che la politica ventennale di tagli alla spesa pubblica e di deflazione salariale, sin dai primi anni ’80, è servita a pagare i crescenti interessi corrisposti al sistema finanziario; e dunque i continui richiami alla necessità della flessibilità del lavoro altro non sono state che manovre  che nulla avevano a che fare con la produttività. Al contrario i mancati adeguamenti salariali si risolvono in ulteriore deflazione salariale reale che si aggiunge a quella derivante dalle misure adottate e in effetti depressivi sulla domanda aggregata che vanno esattamente nella direzione opposta alla produttività tanto agognata.
3- Se anche l’Italia facesse applicazione della curva di Phillips (quella...riscontrabile sui dati e non "deduttivistica"), quindi, viene da chiedersi: dal momento che inflazione e disoccupazione viaggiano su binari opposti quale tra i due mali il Governo sta prediligendo?
Non mancano voci di chi sostiene che, appunto, lo scopo inconfessato della riforma del mercato del lavoro è quello di causare un incremento della disoccupazione in chiara applicazione dei criteri stabiliti dalla curva di Phillips. I fautori della riforma si aspettano, probabilmente, che un innalzamento del tasso di disoccupazione moderi la crescita dei salari e quindi il tasso di inflazione . Tutto ciò contribuirebbe a ristabilire la competitività di prezzo dei prodotti italiani e quindi a riequilibrare gli sbilanci esterni che sono alla radice della crisi dell’eurozona; inoltre i mercati finanziari che credono in questo meccanismo, vedrebbero l’aumento del tasso di disoccupazione come un dato positivo (cioè si crede implicitamente ma fermamente nel citato "effetto ricchezza", applicato nel caso ad una economia "aperta") .
Si tratta di ipotesi che non appaiono lontane dalla realtà dal momento che il nostro Paese deve obbedire al perseguimento della stabilità dei prezzi imposta  dall’’Europa (o meglio perseguita come obiettivo primario) allo scopo di mantenere il tasso d’inflazione su livelli inferiori ma prossimi al 2 per cento su un orizzonte di medio periodo.
E poiché non è più possibile per gli Stati incidere sull’inflazione attraverso la svalutazione della moneta, una volta subentrata la persistente crisi dovuta a squilibri commerciali e finanziari, ogni questione viene posta in termini di recupero della competitività e aumento della produttività. E poichè competitività e bassa inflazione dipendono dal costo del lavoro per unità produttiva , ogni politica di correzione finisce per perseguire la contrazione del costo del lavoro.
Non è ormai più un mistero che la Germania, ad esempio, ha operato (attraverso una operazione di dubbia correttezza giuridica nell'ambito dei trattati) una svalutazione monetaria attraverso i sindacati e le imprese, ha operato, cioè, una politica di deflazione salariale in aderenza alla teoria neoclassica dell’occupazione secondo cui l’innalzamento del salario minimo porterebbe all’aumento della disoccupazione, tanto più in un periodo di crisi economica, e quindi, al contrario, il salario minimo in tali casi andrebbe ridotto, per permettere al mercato del lavoro di trovare un equilibrio migliore, o eventualmente eliminato del tutto. 
Più precisamente la Germania ha preventivamente aggiustato il cambio di tasso reale attraverso la deflazione salariale (-6%) determinando una distorsione del mercato UEM attraverso la svalutazione competitiva (aumento delle esportazioni e minore convenienza  delle importazione dai partners). Ha sforato (sin dalle riforme Hartz) il limite debito/PIL per fiscalizzare i costi di disoccupazione-sottoccupazione, così violando molteplici disposizioni del Trattato (107, 34, 5 TUFE).
Questo è ciò che volontariamente ha effettuato la Germania mentre continue politiche di deflazione salariali sono quelle che l’Europa (FMI, UE, BCE) hanno chiesto e ottenuto dalla Grecia e in parte dalla Spagna.
4- In un certo senso una politica simile si è avuta in Italia per l’abolizione della scala mobile. A dire  della  Confindustria e di Craxi, che l’hanno  voluta, infatti, la scala mobile (quale meccanismo di indicizzazione dei salari) avrebbe generato inflazione e la sua abolizione sarebbe stata l'elemento determinante nella sconfitta dell'inflazione stessa.
 
Invece i dati forniti dagli economisti hanno dimostrato che l’inflazione era già in caduta libera quando la scala mobile venne riformata nel 1983 e che la sua abolizione definitiva (riferita al lavoro pubblico) nel 1991 non ha esercitato un effetto percepibile sul tasso di inflazione.
L’inflazione non era sorta perché i salari erano stati indicizzati, ma i salari erano stati indicizzati perché uno shock esogeno (la quadruplicazione del prezzi del petrolio) aveva determinato l’aumento dell’inflazione. 
L’abolizione della scala mobile e dei meccanismi di indicizzazione, invece, effettuata in base a richieste che venivano dall’Europa, ha alterato la relazione tra salari e produttività ed i lavoratori hanno beneficiato in misura sempre minore dei frutti del proprio lavoro. Le politiche dei redditi degli anni '90 hanno determinato un impatto negativo permanente sui salari reali, oltre che sull’inflazione, senza tuttavia alterare la curva di Phillips di lungo periodo. Con la conseguenza che i lavoratori ci hanno rimesso sia in termini assoluti (salario reale) che relativi (più disuguaglianza).
Ritornando alle politiche deflattive salariali della Germania, ovviamente, i dati  - almeno quelli dell’archivio Wirtschafts und Sozialwissenschaflichen Instituts (WSI) presso la Hans-Bockler Stiftung  - confermano, in dissenso a coloro che ritengono, a torto, che tale in tale Paese vi sia un alto tenore di vita, non solo che in termini reali, vale a dire al netto dell’aumento dei prezzi, fra il 2000 e il 2012 i salari lordi medi sono scesi dell’1,8% (senza che, cioè, gli aumenti degli ultimi 2 anni abbiano cancellato le perdite degli anni post-Hartz), ma anche che in Germania vi sono due mercati del lavoro distinti: uno garantito dai contratti di categoria ed un altro non coperto dai contratti collettivi.
Una ricerca dell’Istituto per il lavoro e la qualificazione dell’università di Duisburg-Essen (Nordreno Westfalia) rivela, invece, che anche qui aumenta il numero dei lavoratori sottopagati: 8 milioni gli occupati che guadagnano meno di 9,15 euro all’ora con una tendenza in aumento.  Dalla ricerca è emerso che nel 2010 gli occupati nel settore dei salari più bassi hanno guadagnato in media 6,60 euro all’ovest e 6,56 euro all’est. Inoltre la metà di queste persone lavora a tempo pieno (generalmente 40 ore alla settimana, ndr.).  800.000 occupati a tempo pieno costretti dunque a vivere con meno di 1000 euro lordi al mese.
Anche in Germania da anni si chiede l’introduzione su tutto il territorio nazionale del cosiddetto Mindestlohn, un salario orario minimo di 8,50 euro. Ma soprattutto le associazioni degli industriali e dei commercianti continuano a rifiutare l’introduzione del salario orario minimo con la motivazione che distruggerebbe posti di lavoro in massa.
In America, invece i dati sembrerebbero in controtendenza. I dati che vanno dal 2009 al 2011, ovvero durante il timido recupero dell’economia americana, quindi in una situazione di crisi ancora ben presente, dimostrano che tutti gli Stati considerati avevano tassi di disoccupazione superiore all’8%. E che nell’anno successivo alla decisione di aumento del salario minimo si sono avuti incrementi notevoli, anche superiori al 10%. Ma importanti studi mettono in evidenza che in uno Stato con una elevata disoccupazione, in caso di aumento del salario minimo oltre il livello di inflazione, vi è il 77% di possibilità di accrescere l’occupazione più della media nazionale.
Nel caso inverso – ossia diminuzione dei salari e aumento di competitività – come avvenuto in Germania, la deflazione salariale può funzionare per accrescere la competitività "estera" e aumentare l’occupazione, ma questo meccanismo sinora ha funzionato perchè lo ha adottato solo un paese (o pochi). Se tutti lo adottassero, il meccanismo non funzionerebbe più, poiché la domanda aggregata complessiva di tutti i paesi coinvolti calerebbe (cioè la guerra dell'imperialismo mercantilista non può mai essere vinta simultaneamente da tutti). Così come il modello tedesco non funzionerebbe in America dove vi sono standard salariali minimi parzialmente stabiliti a livello federale.
5- Proprio per evitare le sperequazioni create dalla Germania sono in molti a  reputare opportuna l’introduzione generalizzata di salari minimi per evitare la concorrenza basata sulla deflazione dei redditi da lavoro.
Ora, il discorso sui salari minimi, soprattutto a livello generalizzato, non può prescindere dalla situazione esistente (è davvero difficile immaginare una contribuzione unitaria su paesi con situazioni molto dissimili tra loro, così come che possa trovarsi un punto di incontro tra il salario minimo della Lettonia e quello del Lussemburgo).
Questa è infatti la situazione dei salari minimi risultanti dagli ultimi studi Eurostat.
Risulta che 18 Paesi Ue - al primo gennaio del 2006 - abbiano introdotto per legge la retribuzione minima garantita, che va dai 129 euro della Lettonia ai 1503 del Lussemburgo che  vanta il primato indiscusso del welfare europeo (Lituania – 159; Slovacchia – 183; Estonia – 192; Polonia – 234; Ungheria – 247; Rep. Ceca – 261; 437 euro – Portogallo; 668 - Stato ellenico; Francia - 1218 euro; Belgio – 1234; Gran Bretagna – 1269; Olanda – 1273; Irlanda – 1293).  Interessante è anche l'analisi comparativa con la situazione negli Stati Uniti, dove il salario minimo ammonta a 753 euro e ne usufruisce l'1,4% della popolazione attiva.
Alla luce di un quadro così disomogeneo, quindi, parlare di salario minimo -che molti confondono anche con il reddito minimo ossia un ammortizzatore sociale, un'indennità erogata  ai disoccupati e ad altri soggetti ritenuti socialmente a  rischio povertà- determina molte perplessità.
Ma soprattutto quando si pavoneggia l’intenzione di introdurre salari minimi, alla luce di quanto esposto sin ora, pare evidente che l’intento non è quello di introdurre forme di tutela o garantistiche come vorrebbe l’art. 36 della Costituzione, ma soltanto quello di perseguire le politiche volute dall’Europa che hanno come obiettivo il decremento salariale e il contenimento dell’inflazione.
Si chiede ai Paesi dell’UE di riallineare i costi del lavoro per unità produttiva, per contenere l’inflazione, e perseguire una utopica crescita simultanea da export, in tutta l'area UEM: ma si è visto come tutto ciò è possibile solo creando disoccupazione e recessione. La curva di Phillips spiega che la crescita del salario è inversamente proporzionale rispetto al tasso di disoccupazione. 
La caduta della domanda - effetto sicuro, se ci accede alla versione "keynesiana" della "curva"- determina una situazione di gravissima difficoltà dei Paesi che debbano mirare a tale correzione partendo già da una situazione recessiva determinata dall'indebitamento privato insito negli squilibri commerciali già fortemente consolidatisi.
6- Va ribadito: se pur possono essere accreditati studi che, rispetto a un singolo paese, confermano la efficacia della deflazione salariale a fini di competitività di prezzo e quindi di vantaggio nell'export, fare di tale filosofia la politica, "di fatto" generalizzata dell'intera area UEM- cioè mai concertata e sottoposta al vaglio parlamentare, consapevole, dei parlamenti nazionali, in base a studi di impatto che pure l'UE considera indispensabili- , significa trasformare lo scopo essenziale giustificativo dei trattati, teoricamente cooperativo, in un guerra "tutti contro tutti".
Una guerra commerciale incessante il cui esito è segnato e che conduce alla colonizzazione da parte dei paesi che partono non solo da un'inflazione strutturale più bassa ma che, unilateralmente, si sono avvantaggiati partendo per primi in tale direzione.
E non si venga a giustificare ciò in termini di competitività nelle aree extra-UEM (cioè il "fogno" di colonizzare "tutti insieme appassionatamente" il "resto del mondo"): perchè è evidente che la risposta delle politiche espansive resesi necessarie nelle altre aree del mondo, si traduce in aggiustamenti valutari che, già oggi, preannunziano di neutralizzare pesantemente questa folle filosofia, impedendo qualsiasi recupero della caduta della domanda UEM e rendendola drammaticamente irreversibile con l'ulteriore insistenza nelle politiche di consolidamento del bilancio, cioè nell'impedire anche il sostegno pubblico alla rispettiva domanda interna.
7- In tal senso, la "frontiera" del salario minimo si rivela solo come uno strumento per disattivare del tutto il senso stesso della tutela sindacale, nella sua funzione costituzionale di precondizione alla fisiologica prevalenza della forza politica del capitale, orientato naturalmente a condizionare le istituzioni.
Si ipotizza un mercato del lavoro senza alcuna possibilità di bilanciare questa deriva sociologica che la Costituzione aveva invece inteso correggere, collegando l'art.36 Cost. al principio lavoristico (artt.1 e 4 Cost.) e allo stesso art.39, sulla "organizzazione sindacale", la cui formale "libertà" perderebbe di senso se ne venisse meno la funzione-finalità essenziale ex art.36 Cost.
Il problema della legittimità costituzionale della deflazione salariale da imperialismo commerciale "utopico" - la cui estrema manifestazione è il "canone invertito" del "salario minimo", sostitutivo della commisurazione equitativa derivante dal gioco delle parti sociali contrapposte (per Costituzione)-, continua a rimanere sottaciuto.
O, peggio, in termini di "comprensione" da parte dell'opinione pubblica e del dibattito democratico, soffocato dalla nenia continua sulla necessità di rispettare i Trattati e gli obblighi che questi ci impongono.
La "rimozione" collettiva è arrivata al punto da far dimenticare la base stessa della vicenda cooperativa europea: e cioè che i rapporti tra ordinamento costituzionale italiano e "prevalenza" del diritto comunitario trova dei limiti proprio dalla nostra Carta Costituzionale o in alcuni principi in essa delineati.
Tali limiti si rinvengono (secondo Mortati) in tutti i principi fondamentali, sia organizzativi che materiali, o scritti o impliciti, della costituzione: sicchè la sottrazione dell'esercizio di alcune competenze costituzionalmente spettanti al parlamento, al governo, alla giurisdizione,...dev'essere tale da non indurre alterazioni del nostro stato come stato di diritto democratico e sociale. Non è possibile distinguere, fra le disposizioni costituzionali, quelle che riguardino i diritti e i doveri dei cittadini e le altre attinenti all'organizzazione, poichè vi è tutta una serie di diritti rispetto a cui le norme organizzative si presentano come strumentali alla loro tutela (rappresentatività delle assemblee e legiferanti; precostituzione del giudice, organizzazione della giurisdizione tale da assicurare la pienezza del diritto di difesa ecc.). Pertanto il trasferimento di competenze dagli organi interni a quelli comunitari in tanto deve ritenersi ammissibile in quanto appaia sussistente, non già un'identità di struttura tra gli uni e gli altri, ma il loro sostanziale informarsi ad analoghi criteri in modo che risultino soddisfatte le esigenze caratterizzanti il nostro tipo di stato".
8- Sono in molti a sostenere che non c'è alcun obbligo preciso in Costituzione (cfr; par.5) nonostante gli art.1 (fondamento "lavorista della Cost.) e 4 Cost (diritto al lavoro). Ed invece proprio perché l'art.3, comma 2, sostiene che la Repubblica è obbligata a "promuovere" la uguaglianza sostanziale, "rimuovendo gli ostacoli",  ed i principi fondamentali sono inderogabili e non revisionabili, è sempre la Repubblica a dover agire perche' il lavoro -fondamento del patto sociale- non diminuisca e sia adeguatamente retribuito (art.36 Cost. in relazione all'art.3).
Come sviluppo logico-giuridico di ciò, non bisogna perdere di vista che il trattamento retributivo "equo" della ((prestazione lavorativa neppure si identifica necessariamente con la "retribuzione minima" prevista dalla contrattazione collettiva: questa è essenzialmente volta a soddisfare solo le esigenze di mero sostentamento del lavoratore, mentre l’applicazione del principio di giustizia retributiva, ancorato al fondamento etico nel rapporto di lavoro, conduce a ritenere che la retribuzione debba garantire il lavoratore anche per l’ottenimento di quei beni funzionali alla realizzazione della piena personalità dello stesso, ovvero quel complesso di beni materiali ed immateriali che garantiscano la libertà dal bisogno rimuovendo anche gli ostacoli che non permettono il pieno sviluppo della persona umana.
Occorre considerare il valore intrinseco che ha l’esplicazione di attività lavorativa sul piano della realtà socio-economica, alle aspettative esistenziali del lavoratore, alle aspirazioni di quest’ultimo in termini di maturazione culturale, oltre che di elevazione del tenore di vita materiale.
Con la conseguenza che in base agli artt.11 e 139 Cost, nessun obbligo europeo può giungere a imporre obblighi che contraggano il livello di occupazione e il livello delle retribuzioni, pena la violazione di specifiche norme costituzionali.
Come si vede l'arretramento rispetto ai principi un tempo consolidati nella vita democratica della Repubblica, e ben chiari ai Costituenti, è a dir poco "inquietante". Nell'indifferenza generale delle forze politiche e senza alcuna giustificazione di vantaggio economico nazionale,  quanto piuttosto in un irresponsabile "cupio dissolvi" della democrazia, venduta in cambio del...nulla.

2 commenti:

  1. Un enorme grazie a Sofia e come sempre a 48, thank you so much!

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    1. Non ci stiamo troppo a ringraziare tra di noi :-) Ma certamente l'apprezzamento per il grande lavoro svolto da Sofia, per il complessivo enorme sforzo di ricostruzione di una quadro che dimostra come in pochi recenti anni siano stati sovvertiti principi economici e giurisprudenziali consolidati, quasi senza colpo ferire

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