lunedì 28 aprile 2014

LA SOFFERENZA DEI POCHI CHE DECIDE LA "MAGGIORANZA" DEI...POCHISSIMI (tra Padoan e Bentham, spiegando la Grecia)



Molti ricorderanno questa dichiarazione di Padoan, rilasciata in un'intervista al Wall Street Journal: "Il consolidamento fiscale sta producendo risultati, la sofferenza sta producendo risultati.
Riferita, com'è, al consolidamento fiscale nell'area euro, per la sua provenienza, non costituisce una sorpresa. 
Nella sua visione, più volte espressa in diversi studi, l'indebitamento pubblico è il problema e un consolidamento, "amichevole" per la crescita, consiste nel backstop al default sovrano (stile ESM o, ancor, meglio l'ERF), che si unisca ad una condizionalità tale da portare alla riforma strutturale del mercato del lavoro, garantendo la flessibilità verso il basso dei salari e il taglio della spesa pubblica e dei "buchi" nel prelievo fiscale (ergo, da inasprire per presunzione assoluta).
Anche la logica del "rinvio" circa il pareggio di bilancio era perfettamente scontata, in base a precedenti prese di posizione, come strumento pragmatico di miglior realizzazione dello scenario di consolidamento fiscale (Padoan ha detto, prosegue Reuters- ed eravamo nel 2013-, che l'OCSE, da molto tempo un tifoso delle politiche economiche che hanno dettato la risposta di forte austerità dell'UE alla crisi del debito (!), sta chiedendo a Bruxelles di consentire all'eurozona un periodo di rinvio agli obiettivi di deficit per tenere conto della prolungata crisi...i targets devono essere rivisti al netto degli effetti della recessione e calcolati in termini strutturali. Ciò significa che l'Italia è attesa avere un deficit strutturale vicino all'equilibrio nel 2013".).

Ma posta sul piano del "pragmatismo", - che presuppone la utilità di ogni policy che persegua "quell'"   assetto socio-economico considerato intangibile-, il riferimento alla sofferenza non è tanto una frase estemporanea determinata da inclinazioni psicologiche personali, quanto dall'adesione culturale ad una precisa visione della dottrina economica.
Quella per la quale  ogni "sofferenza" umana e sociale è giustificata dalla remunerazione del tornare a potersi rivolgere ai mercati nel collocamento del debito pubblico (!), prescindendo da ogni considerazione sulla crescita, sulla distribuzione del reddito, sulla sostenibilità del livello di disoccupazione nel frattempo provocato.
Ma dove ritroviamo gli esatti antecedenti di questa teoria della sofferenza salvifica per garantire l'esatta applicazione del governo dei mercati (e non altro)?

Il pensatore di riferimento è Jeremy Bentham (1748-1832), che, come ci dice Galbraith nella sua "Storia dell'economia" (pagg.134 ss.), venne in soccorso "dall'esterno" alla teoria economica neo-classica, messa a punto da Smith, Say e Ricardo e, più tardi, dagli scopritori della "utilità marginale", in un percorso che culminò nella costruzione consolidata di Alfred Marshall, in cui campeggia il dogma "universalista" della legge della domanda e dell'offerta, e quindi della determinazione di ogni prezzo e valore da parte dei "mercati". Che poi altro non sono che gli imprenditori lasciati nella piena libertà di operare le loro scelte "produttive".
E' lo stesso Marshall a dirci che Bentham, rispetto alla diffusa accettazione della teoria economica classica (e neo-classica) "tutto considerato fu il più influente degli immediati successori di Adam Smith".
Bentham partiva da un dato esistenziale che giustificava l'utilitarismo come legge suprema dell'intera organizzazione del consorzio umano. Scopo della vita umana era il perseguimento della felicità e questa aveva un immediato riferimento oggettivo: l'utilità di qualcosa di apprendibile dal mondo esterno all'individuo.
La felicità, e quindi l'utilità, era definita come "quella proprietà in forza della quale un qualsiasi oggetto tende a produrre beneficio, vantaggio, piacere, benessere o...felicità", ovvero per la quale tale oggetto "impedisce danno, dolore, sciagura...infelicità".
Incurante del problema relativo alla  "distribuzione" di tali oggetti e delle conseguenti dosi di felicità, o di infelicità "impedita", in capo ai singoli individui, e tantomeno della incomparabilità tra i gradi di soddisfazione determinati dalla potenziale diversità degli individui stessi, Bentham afferma che la massimizzazione della felicità procedeva, complessivamente, dalla massimizzazione della produzione di beni, ricollegandosi alla visione della produttività industriale sostenuta dai liberisti (abbiamo visto qui come Malthus avesse prospettato il problema delle classi "improduttive" ma consumatrici, che, in realtà, contraddiceva il dogma della materialità delle utilità prodotte. Ma doveva passare molto tempo prima che venisse superato. E non del tutto).
Comunque sia, per Bentham, nell'ottica utilitarista, la valutazione di qualsiasi azione economica e politica doveva guardare al suo effetto globale sulla produzione.
E qui viene il punto: ciò che promuoveva la produzione era utile e perciò benefico, anche se incidentalmente avesse dovuto risultarne una sofferenza per un minor numero di persone. L'utilitarsimo giustificava tale sofferenza laddove la società perseguisse la "massima felicità per il maggior numero". Con la conseguenza che la "infelicità del minor numero" dovesse essere accettata.
Anzi, di fronte a questo obiettivo di felicità - non ben riscontrata nella sua compresenza nella ipotizzata maggioranza- occorreva "indurirsi" contro i sentimenti di compassione per i pochi e addirittura respingere le iniziative a loro favore, per evitare che ne venisse danneggiato il maggior benessere dei molti.

A dimostrazione di come Marshall avesse ragione nel considerare Bentham un grande "influencer" del pensiero politico-economico, tramutatosi in senso comune per i seguaci del neo-liberismo contemporaneo (in UE, liberismo "ordinamentale" a trazione, non casualmente, tedesca), può constatarsi come, in questa ottica, l'allargamento dei mercati, tipica dell'era della grande liberalizzazione dei capitali, con le sue conseguenze di base demografica, spiega perfettamente la disinvoltura con cui le sofferenze di milioni di greci possano essere considerate, come sostengono Schauble, la Merkel e i vari Olli, un costo accettabile se non addirittura trascurabile.

Con la stessa disinvoltura di Bentham, - per l'inerzia provocata dalle iperconvinzioni deduttivistiche che sono alla base dei calcoletti pretesamente "matematici" tipici dei neo-liberisti-, si tralascia di misurare quando questa minoranza sia effettivamente tale
Il punto è che, per i liberisti, la misura di ogni maggioranza ("felice"), anche in forza della rappresentatività politico-istituzionale rivendicata come imprescindibile, era, ma ancora è, la soddisfazione della classe imprenditoriale dominante: se la maggioranza di coloro che sono in grado di imporre e far risaltare il proprio sentire e la propria visione del mondo è soddisfatta, da una qualunque politica, normalmente conforme ai loro obiettivi del momento, il costo della sofferenza inflitta viene automaticamente considerato accettabile.
E' dunque una questione di rappresentatività, di peso del proprio giudizio socio-politico e, in definitiva, di sua rappresentazione diffusa, compiuta in via preferenziale dai mezzi di comunicazione.
Per questo esatto motivo il liberismo, una volta fissato il "metro" utilitaristico della maggioranza felice, - cioè la minoranza "pesante" ed effettivamente capace di orientare le azioni dei mercati così come dello Stato-, ha teorizzato cheIl controllo economico non è il semplice controllo di un settore della vita umana che possa essere separato dal resto; è il controllo dei mezzi per tutti i nostri fini. E chiunque abbia il controllo dei mezzi deve anche determinare quali fini debbano essere alimentati, quali valori vadano stimati […] in breve, ciò che gli uomini debbano credere e ciò per cui debbano affannarsi».
(F. von Hayek da "Verso la schiavitù", 1944).

Si vede bene, (ma chi non vuol vedere è inutile che si sforzi), che il problema del controllo sociale utilitaristico-liberista, per la intrinseca contraddizione, o forzatura, del considerare implicitamente risolto in partenza il problema della rappresentatività, (in base alla maggioranza formata da chi avesse "peso specifico"), ripropone, ad ogni suo tentativo di affermare la propria supremazia, la costante esigenza del controllo culturale e mediatico.
Adattandolo anche alla sopravvenuta (e fastidiosa) fenomenologia del voto a suffragio universale.
Quand'anche lo scontento, causato dalla diffusa sofferenza, fosse esso stesso a risultare maggioritario, e quindi idoneo ad accertare la "disutilità" di un certo assetto, provvederanno i meccanismi di controllo culturale. 
Perchè la democrazia (sempre von Hayek ipse) è un metodo idraulico, che deve comunque facilitare un risultato prefissato dai proprietari-operatori economici, giudici inappellabili del rispetto della Legge (della "loro" Natura); o altrimenti, va rigettata
O controllata con ogni mezzo che spenga i "valori" che, incidentalmente, si connettono al "metodo".

 
A conferma della linea che unisce da Ricardo a von Hayek la visione dei liberisti e neo-liberisti, ci sovviene questa "splendida" autoproclamazione di Herbert Spencer (il darwinista sociale per eccellenza, che teorizzò che i "milionari sono un prodotto della selezione naturale"):
"La funzione del liberalismo in passato fu quella di porre un limite ai poteri del re. La funzione del vero liberalismo in futuro sarà quella di porre un limite ai poteri del Parlamento".
Basti questo per comprendere come ogni pretesa libertaria di questa corrente di pensiero, che rivendica a sè, a partire dalla Glorious Revolution, l'affermazione dei Parlamenti, riveli con ciò tutta la strumentalità del sostenere gli stessi; nella fase di affermazione contro le monarchie, era perfettamente accettabile e si parlava di lotta alla "tirannia". Poi il parlamentarismo divenne un peso all'utilitarismo autolegittimante di una nuova oligarchia.
La citazione è tratta da un libro di Spencer che fu certamente di ispirazione per von Hayek, se non altro per il suo eloquente titolo "The Man Versus the State" (Caldwell, p.209)

14 commenti:

  1. Comunque Il darwinismo biologico è posteriore a quello sociale: "La sopravvivenza del più adatto" è di Spencer (precedente, di poco agli scritti di D.)
    Se mi perdoni l'egocentrismo, commenterei con un autocitazione:

    " In questo contesto si sviluppò l’idea che accomuna la società ad una sorta di organismo che è mosso da un “energia interna” determinata dalla spinta all’autoconservazione le cui necessità primarie sono la crescita economica e produttiva.
    L’artificio della “mano invisibile del mercato”, non è che un’allegoria che rappresenta l’applicazione di queste leggi biologiche al funzionamento della società, nella quale l’economia viene implicitamente comparata (probabilmente senza intenzione da parte di Adam Smith) al metabolismo di un ecosistema, nel quale tutti gli organismi, pur lottando per la propria sopravvivenza, contribuiscono alla salute dell’insieme. La conseguenza di quest’orientamento di pensiero conduce, in ultima analisi a ciò che Hannah Arendt definì: “ “una finzione comunistica”, la cui principale caratteristica è quella di essere veramente retta da una “mano invisibile”, cioè da nessuno. Ciò che noi chiamiamo tradizionalmente stato e potere lascia qui il posto alla pura amministrazione”
    La concezione della comunità umana come un sistema biologico, un macro-organismo, le cui leggi fisiologiche sono determinate dell’economia, porta, in ultima analisi, a svuotare la sfera politica (nonché la vita della collettività e degli individui) di ogni significato.
    Le implicazioni di questa visione del mondo sono estremamente rilevanti poiché implica l’incapacità di cogliere la differenza tra libertà e necessità, tra la possibilità di vivere una “vita buona” tramite l’espressione del proprio essere individui all’interno di una comunità, e ricoprire soltanto un ruolo funzionale, determinato dalla necessità di sopravvivenza dell’’”animale collettivo”.
    La trasformazione ideologica della comunità degli uomini in una organismo retto soltanto dalle leggi dell’economia (ovvero del metabolismo sociale), significa la definitiva resa del pensiero al regno della necessità, poiché porta, irrevocabilmente, non solo alla dissoluzione della sfera politica, ma anche di quella privata . Entrambe sono state sostituite dall’ “organizzazione sociale” che è una sorta economia domestica organizzata su scala globale, nella quale gli individui si inseriscono alla stregua delle cellule di un organismo vivente il cui comportamento deve essere ugualmente determinato da leggi interne al sistema (così come le funzioni e il destino di una cellula vengono determinate dalle “istruzioni” inscritte nel DNA).
    Il principio di autoconservazione, come legge fondamentale della società, si impose definitivamente con l’ utilitarismo di Jeremy Bentham che, fissando lo scopo della comunità nella “maggiore felicità per il maggior numero” , introdusse definitivamente il metodo matematico nello studio dei fenomeni sociali con quello che avrebbe definito “calcolo del dolore e del piacere” . Questo principio venne definitivamente affermato da Stanley Jevons che definì l’economia come “la meccanica dell’utilità e dell’interesse individuale” , frase che evidenzia la completa assimilazione dell’agire umano alle leggi della fisica meccanicistica".

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    1. D'accordissimo.
      Sulla "precedenza" di Spencer, tiè, t'ho pure aggiunto un'immagine con la quote confermativa.
      Sul resto, incluso Jevons, avevo in animo di tornarci in altra occasione, perchè eccede la dimostrazione della radice del culto liberista della sofferenza necessaria....

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    2. In effetti eccede alquanto, ed è una fatica non da poco. Però la genesi teoretica della "fisiocrazia economica" (la "truncatio regni" di Pico), è il vero "core" epistemolgico della modernità

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  2. Ps. sarebbe interessante anche una disamina delle diversità-similitudini tra epistemologi liberali e liberisti, ovvero le sottili differenze (in realtà non così sottili) tra le posizioni di Polanyi (Michael, fratello di Carl) e Hayek-Popper, sulle tra le loro concezioni di ordine spontaneo e free society, great society e open society. Spesso le posizioni di Polanyi vengono assimilate (ingiustamente) a quelle di Hayek (i due si conoscevano e si scrivevano), ma Poalnyi era un epistemologo "serio", gli altri due, dei rimasticatori (di gran classe, ma pur sempre tali)

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    1. Certamente interessante.
      E come sai qui è aperto al contributo dei commentatori.
      Utilissimo distinguere gli epistemologi seri (Popper aveva peraltro ben compreso http://orizzonte48.blogspot.it/2013/03/popper-le-catastrofi-europee-e-la.html ciò che Hayek ha tentato di cancellare).
      Quando vuoi, se ti va, mandami doc.word all a mail!

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  3. Mi par di capire che, in sostanza, il l'aggettivo "neo" accanto alla parola "liberismo" era (ed è) una sostanziale trovata pubblicitaria per riproporre dottrine economiche e filosofie politiche sostanzialmente esistenti da due secoli. Ed in fondo, da due secoli sostanzialmente dominanti (con quella sovietica che ben potrebbe considerarsi una parentesi riassorbita).
    Un'altra cosa che pare delinearsi è che le premesse teoretiche della "rivoluzione borghese" che ebbe luogo alla fine del XVIII secolo, sono tutt'altro che innovative e "democratiche" rispetto allì'ancien regime precedente (come invece viene ripetuto dai libri di storia su cui abbiamo studiato). In fondo, cambiavano soltanto i criteri di individuazione dei "superiori" rispetto agli "inferiori", sulla base di discriminanti non meno odiose di quelle che le avevano precedute.

    Un'altra personale sensazione: credo -paradossalmente- che il "Leviatano" di Hobbes, in fondo, fosse una visione più onesta, con un "sovrano" ben definito ed individuabile, laddove il "sovrano" liberista è spesso sfuggente, nascosto, dentro e dietro quelle stesse istituzioni pseudo-democratiche che spesso usa come capro espiatorio per mantenere un potere di cui, però, ben si guarda dall'assumerne la titolarità formale.....

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    1. La dominanza incontrastata del governo dei mercati come Legge suprema in realtà ha subito l'interruzione del trentennio di "compromesso" keynesiano e democratico pluriclasse successivo alla 2a guerra mondiale. Dico compromesso perchè il liberalismo battè tutt'altro che in ritirata; fu solo disposto a fare concessioni per non rafforzare l'espansione del comunismo sovietico.
      Ma si è poi pentito di averle fatte a livello di Costituzioni.
      La contromossa rispetto al costituzionalismo è stata rinvenuta nell'internazionalismo. Questo (come abbiamo approfondito qui, e continueremo a farlo) si è dunque presentato da subito come il bilanciamento della democrazia del lavoro.
      E la facciata prescelta fu, del tutto opportunisticamente, come risulta dall'analisi di parole e intenzioni degli ideatori, quella del "pacifismo".
      In fondo anche Bentham era pacifista (ma solo perchè l'industria delle armi ha bisogno di massiccia spesa statale e si possono trovare altri modi per limitare la pressione demografica)

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  4. Se non ricordo male ci sono diversi economisti che consigliano di interpretare la "Ricchezza delle Nazioni" di A.Smith tenendo ben presente che era un filosofo morale e che prima di quel testo aveva scritto "Teoria dei sentimenti Morali "La funzione dello "spettatore imparziale".

    Lo spettatore imparziale non può approvare che noi danneggiamo un altro per curare il nostro interesse.

    Un Passaggio della TSM.

    "Non ci può essere alcun motivo appropriato per danneggiare il nostro prossimo, né ci si può aspettare di esser condivisi se si incita a fare del male a un altro,tranne nel caso di giusta indignazione per il male che l’altro ha fatto a noi. Nessuno spettatore imparziale potrà condividere se turbiamo la felicità dell’altro solo perché si frappone alla nostra, se gli sottraiamo ciò che gli è utile solo perché può essere altrettanto, o più utile, a noi, o se ci lasciamo andare in tal modo a spese di altri, alla naturale preferenza che ogni uomo ha per la propria felicità più che per quella degli altri".

    In tempi più recenti l'Economista A.Sen con "'Utilitarismo e oltre" ha messo in discussione l'utilitarismo di J. Bentham.

    http://www.ibs.it/code/9788851520212/sen-amartya-k-/utilitarismo-oltre.html

    In sintesi è una pura convenzione sociale mettere l'utile economico come presupposto della felicità individuale. Cosi come è una convenzione sociale l'economia di mercato che di fatto e la genesi si una "grande trasformazione " (Karl Polanyi). Purtroppo "Le Istituzioni (formali e informali) riflettono la società" e la società spesso si ammala di idee dominanti che sono sbagliate ( E. Fromm).

    Di recente ho visto su youTube Fusaro che intervista Costanzo Preve è illuminante alla domanda perchè gli esseri umani votare per i partiti che di fatto non fanno i loro interessi.

    Risposta: " Perchè votano per convenzione, quale persona razionale se preso singolarmente voterebbe per un sistema di organizzazione sociale che se cadi in disgrazia ti fa morire su un marciapiede? "

    PS: Sbaglio ho ai cambiato la testata del blog?

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    1. Sì Smith, prima che nascesse una categoria scientifica autonoma come gli "economisti", era considerato un filosofo morale. Ma non poteva essere altrimenti (ne abbiamo parlato in un precedente post).
      Sulla successiva trasformazione concettuale del suo pensiero "filosofico" parla ampiamente Galbraith.
      Ma finchè non emerge la coscienza della instaurazione dei nuovi rapporti di classe (agli albori J.S. MIll) , la stessa filosofia etica non aveva focalizzato i problemi creati dallo Stato nei suoi rapporti con liberismo, che lo controllava culturalmente e istituzionalmente.
      Nasceva al posto della filosofia una serie di scienze politiche e sociali che o difendevano o criticavano tale assetto.

      La testata non è cambiata; solo integrata con più informazioni di "guida"...:-)

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  5. Caro Lorenzo, volevi forse dire "la rivoluzione borghese della fine del 17° secolo"?

    Ecco, lo vedi perché io da profondo italiano medio sento una aderenza viscerale, quasi atavica, istintiva, alla visione pessimistica di Bagnai a proposito delle (cosi dette) rivoluzioni?

    E' proprio una caratteristica innata in noi italiani. Quante volte abbiamo sentito dire "in Italia non si farà mai una rivoluzione" (anche da partre mia, sicuramente), sempre con accento negativo. Non che sia un bene, per carità, ma forse forse, quall' indole italica qualche lato positivo, riflessivo o saggio, ce l' ha.

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  6. Ciao Quarantotto, scusa se vado fuori tema, ma mentre questo Blog è una fonte inesauribile di Cultura limpida e cristallina di cui io come molti altri spero si ristori, la classe dirigente del Paese di cui Dario Nardella ne è l'espressione viene fuori con queste bestialità. La moneta forte avvantaggia il nostro turismo, il tutto rintracciabile su YouTube


    Nardella (PD): "L'euro ci avvantaggia, ai turisti conviene venire da noi se abbiamo l'euro" - YouTube

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    1. Lo ho visto anche io.
      Farfugliava senza poter spiegare e la commentatrice è dovuta intervenire in suo sostegno.
      Più in generale noto che stanno uscendo parecchi troll a difesa dell'€ che si senza argomenti insultano.
      Che questa violenza sia un sintomo della loro paura?
      Si sta avvicinando una resa dei conti interna alle élites stesse?

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    2. Dagli indizi in vari ambienti che emergono, direi che più che una resa dei conti si tratta di diverse strategia simultanee di graduazione del sistema monetario-fiscale che servano a rendere ancora accettabili gli attuali gruppi politici, affinchè possano proseguire nella sostanza dei loro obiettivi.
      Una parte già ora preferisce questa via; altri, i più limitati culturalmente, credono invece fermamente nello stile "La7"; falsificazione dei dati e rilancio alla noia di ogni tipo di slogan assurdo nell'illusione che visibilità mediatica e complicità dell'informazione bastino a perpetuare il potere.
      Ma non è che i rispettivi sostenitori delle 2 linee siano in contrasto tra loro: i primi servono nel caso fallisse la pervicacia propaggandistica dei secondi...

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  7. In www.filosofico.net, Von Hayek è definito "uno dei grandi esponenti del neoliberalismo" e della sua filosofia della politica si dice che "è interamente costruita sull’ideale di libertà individuale".

    Delle due l'una: o il "premio Nobel" Von Hayek ha teorizzato cose del tutto diverse da quelle che qui gli sono attribuite oppure la definizione di grande teorizzatore e propugnatore della libertà degli individui è il frutto di un colossale svarione culturale.

    Da quanto leggo nel blog, Hayek non teorizza affatto la libertà degli individui, ma il potere di alcuni individui di rendere fondamentalmente schiavi inconsapevoli altri individui, la qual cosa - mi pare - esclude drasticamente la possibilità di qualificare come liberale un simile approccio ideologico .

    Uno dei cardini del pensiero liberale è (e non potrebbe che essere) il riconoscimento della posizione di parità (sia pur meramente formale) in cui tutti gli individui debbono potersi trovarsi in relazione alla possibilità (sia pur teorica) di "fare" nell'identico modo e con le sole limitazioni necessarie a salvaguardare la pari libertà degli altri consociati.

    Ma se si sostiene che chi ha avuto la fortuna o il merito di poter esercitare la suddetta libertà è in diritto di schiavizzare economicamente e culturalmente gli altri, non è possibile definire liberale o liberista una simile linea di pensiero, anche perchè l'opera di assoggettamento schiavistico non potrebbe prescindere da una cospicua attività posta in essere proprio da quelle istituzioni pubbliche che, secondo Hayek, dovrebbero astenersi il più possibile dall'interferire con la vita degli individui.

    Se l'ordoliberismo è questo, la sua differenza con l'ideologia nazi-fascista è quantitava e non qualitativa, nel senso che il nazi-fascismo teorizza il diritto di un unico individuo ad essere "libero", mentre l'ordoliberismo concepisce che la "libertà" possa spettare anche a più di un soggetto, purchè i "liberi" appartengano ad una elite.

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