venerdì 22 novembre 2013

NEO-PRIVATIZZAZIONI E CREDITORI ESTERI: un controllo estero è "per sempre"

A parte l'esigenza di una puntualizzazione sulle cause della "crisi €conomica secolar€" e la precisazione che lo spostamento di sedi all'estero, trasferendo il luogo di erogazione di profitti e super-stipendi manageriali agli stranieri (non soggetti ad alcun "tetto"), flussi in ultima analisi derivanti da ricchezza prodotta fuori dai nostri confini, ma ora entrante in Italia, implica anche un peggioramento delle partite correnti con l'estero, questo post di "Rischio Calcolato" sulle privatizzazioni illustra molto bene mire e complicità nella colonizzazione-deindustrializzazione italiane.

7 commenti:

  1. una considerazione del tutto ipotetica:
    l'art. 43 della Costituzione tutela Governi futuri più consapevoli nella possibilità di ri-nazionalizzare, ripagando quanto incassato a suo tempo, aziende pubbliche cedute incautamente?
    però le partecipate estere (che fanno profitti) non potranno essere considerate "di interesse generale", temo..

    ne avevo sentito parlare a riguardo dell'Ilva, chiaramente quando lo Stato deve metterci una pezza, non quando ci si guadagna..

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    1. Giustissima osservazione.
      L'art.43 Cost. si trova nella difficile posizione di essere disattivato de facto dal trattato. E questo non dovrebbe essere consentito, se lo si intende in un certo modo, cioè come espressione di un principio fondamentale riconducibile agli artt.1-12 Cost, come sostengo nel libro(sostanzialmente, legandolo alla piena occupazione ed all'indubbio sostegno che, nel suo impatto correttamente inteso, dovrebbe implicare).

      Detto questo, il "riacquisto" si rivelerebbe difficilissimo, in termini di copertura costituzionale, laddove non ci si possa riferire a "servizi pubblici essenziali" o "a fonti di energia" o a "situazioni di monopolio" pregresso.
      Certo laddove ci sia una "rete" (es; Telecom), cioè un monopolio naturale, la sua forza di riespansione sussisterebbe.

      Più idonea a tali fini potrebbe rivelarsi la clausola dei "programmi e controlli" dell'art.41 Cost. Purchè si abbiano le risorse (cioè giammai finchè rimaniamo nell'euro-fiscal compact).

      La disperazione è che non basterebbe un "preminente interesse generale" (condizione "necessaria" aggiuntiva e non da sola sufficiente).
      Cioè il danno non sarebbe reitegrabile una volta fatta la svendita. E nè il controllore estero sarebbe tenuto a vendere o ad assoggettarsi a una non configurabile "espropriazione".
      E questo ammesso che avremo mai, prima che sia tardi, un governo "più consapevole"...

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  2. Allora. Vengo da una simpatica conversazione con uno che "citi tizio, quindi ti rifai al principio di autorità"; "bagnai e borghi dicono quello che vuoi sentirti dire" (e questo invece cosa è? Principio di autorità al contrario? Vabbè... transeat); "nel '92 non c'era la Cina"; fuori dall'euro le materie prime costerebbero troppo", "servono le riforme strutturali"; "le manovre fatte da 2011 sono solo delle pezze d'appoggio che non pagano nemmeno gli interessi sul debito" (abbiamo trovato un fan della futura manovra da 75 miliardi!); "dobbiamo convertirci alle esportazioni", e così via. Le perle le ho citate tutte, a testimonianza di quanto il pensiero mainstream sia diffuso e radicato nell'opinione comune. Lo ammetto: sono discussioni che ti provano. ^_^

    Comunque, lo spunto mi serve a riassumere il pensiero fino ad ora maturato, forse andando un po' OT.
    a) Io non sono liberista. Ma riconosco al liberismo la sua legittimità politica. Tuttavia: la legittimità c'è sino a quando si rimane nel perimetro della democrazia. Nel momento in cui -per affermarsi- una qualsiasi corrente di pensiero paralizza e neutralizza i meccanismi della democrazia, questa deve trovare opposizione. Non è stato il liberismo economico a far affermare la democrazia ma il contrario (per l'uomo della strada: cosa viene prima? La "magna charta" o Adam Smith?).
    b) a voler essere liberisti, il percorso doveva tenere conto dei fondamentali economici del paese e del confronto col corpo sociale (cui, in democrazia, piaccia o no, spetta la sovranità). Si poteva seguire un percorso con tempi più lunghi, senza procedere a tappe forzate. Seguire "per forza" le tappe europee è -di fatto- significato adeguarsi agli altri contro i nostri fondamentali. Forse, oggi, potevamo essere liberisti, ma senza il debito che abbiamo (e con una democrazia più in salute);
    c) "ma così non lo avremmo mai implementato". E' la classica obiezione degli europeisti dell'€uro. Signori: in democrazia, se il popolo sovrano non vuole, non si fa! Il popolo sovrano sbaglia? Pagherà il suo errore. I tempi di adattamento, non si impongono dall'alto. Il solo intento di "procedere a prescindere dal consenso" è antidemocratico (ed infatti il gap democratico dell'unione è il riflesso della politica adottata!);
    d) Non si riesce a comprendere questa identificazione dell'Europa con l'euro e con le sole problematiche economiche. Da un lato, si dice che l'economia è la premessa per l'integrazione politica, dall'altro si escludono, minimizzano o si condannano moralmente le esigenze della politica!
    e) quanto il funzionalismo economico abbia funzionato nei fatti, lo si vede dalla questione siriana. Almeno i 17 paesi dell'€uro avrebbero dovuto "automaticamente" definire una politica estera comune in quanto costretti a farlo, non è cosi? Ebbene: così non è stato;
    f) tutto questo, non dovrebbe costituire uno spunto di riflessione proprio per un'Europa migliore che faccia gli interessi di milioni di cittadini europei e non di qualche banca e/o azienda?
    g) ultima notazione. Il passato non è mai uguale al presente, quindi rifarsi all'esperienza passata è sbagliato. Noto, nei sostenitori del mainstream, una costante negazione di ogni discorso storico. Un caso? Ancorché non mai uguale a se stessa, la storia insegna che l'insofferenza verso di essa è tipica di ogni autoritarismo.....

    Evidentemente sembra di no. Per quanto riguarda le privatizzazioni, beh, l'articolo di rischio calcolato si commenta da solo. Forse, da un punto di vista politico, si dovrebbe invece riflettere sulla buona fede di chi le propone.....

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    1. Per le discussioni di questo genere, occorre spiegare:
      a) come e perchè derivi dalla banca centrale indipendente il debito pubblico;
      b) come funziona il moltiplicatore fiscale e come persino il FMI abbia corretto, invano, l'UEM.

      Quanto alla legittimità del liberismo, in sè, non sono completamente d'accordo. Esso infrange la democrazia perchè viola, in assunto e senza mediazione alcuna, il modello costituzionale riassunto nei principi fondamentali immidificabili.
      Ripristinare l liberismo, col recupero del capitalismo sfrenato, è sostanzialmente un "golpe".
      Chi biascica slogan raffazzonati neo-liberisti è un ignorante, condizionato dai media eversivi (è un dato di fatto).
      Se, presentatagli l'opzione, non si sforza neppure di considerare IL RIPRISTINO DELLA LEGALITA' COSTITUZIONALE, è un complice della rottura dell'ordinamento legale.
      Il limite di Borghi e Bagnai è quello di porre la questione sul piano dell'analisi-proposta di un modello alternativo, nel campo di opzioni politiche tutte sullo stesso piano di liceita'.
      Si incorre così nel concreto pericolo di dare l'illusione, a questi soggetti, che si tratti di una discussione culturale, che lecitamente consente in sè contrapposti margini di controvertibilità scientifica.

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    2. Se mi posso inserire ...
      Il punto g) è devastante. Intanto mina alla base la civiltà (non solo quella occidentale: "Considerare il non sapere come sapere è una peste"); rende impossibile l'elaborazione della teoria scientifica (che si basa, ovviamente, su osservazioni dei fenomeni). Se gli eventi passati sono privi di senso (oggi) eccoci ripiombati prima delle caverne.
      E anfatti (cit.) son trentanni che siamo bombardati dal nonsense ...

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    3. Osservazione interessante, che mi aiuta in quello che ben posso definire il mio percorso di comprensione.
      Tu quindi sosterresti che l'involuzione regressiva potrebbe essere "insita" nella politica liberista, la cui "norma fondamentale" (a questo punto -se non erro- descritta da Von Hayek nei suoi aspetti giuridico politici), cozza contro quella di "qualsiasi democrazia" così come la conosciamo, e quindi pertanto delle due l'una: o il liberismo, o la democrazia parlamentare basata sul suffragio universale.
      L'esperienza, sia storica che attuale, sembrerebbe confermarlo. Da un lato, le società liberiste ottocentesche ammettevano il suffragio censitario e si mostravano insofferenti verso l'evoluzione in senso parlamentare della democrazia (vedi Italia di fine '800). Dall'altro, oggi, si cerca di "aggirare" i meccanismi della democrazia "proprio" per dare al liberismo la sua espressione più compiuta (approccio paternalistico de "il popolo va costretto perché non lo vorrebbe mai", delegittimazione delle istituzioni democratiche per via mediatica e tramite retorica della corruzione e di una presunta "incapacità di fondo" della politica di essere responsabile della sovranità conferitale, immagine della spesa pubblica come "spreco" a prescindere).
      Qualora il liberismo accettasse di sottomettersi alle regole democratiche, semplicemente dovrebbe accettare di non realizzarsi mai!

      E' sicuramente da approfondire. Ti domando però: in società anglosassoni, caratterizzate da una forte tradizione parlamentare (USA, UK), le due cose sembrano coesistere. Si tratta -allora- di una convivenza forzata e/o solo apparente? Quanto l'affermazione delle politiche liberiste ha compromesso, anche lì (ancorché in maniera meno appariscente) i meccanismi della democrazia?
      O forse il carattere apparente della convivenza è dimostrata dalle misure poste in essere dalle banche centrali e dai governi di quei paesi, che, arrivati al punto di scegliere tra liberismo integrale e democrazia, hanno scelto, in entrambi i casi la seconda (al contrario dell'europa continentale dove sembra prevalere il primo?).

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    4. Caro Lorenzo, il libro illustra per esteso il punto.
      Dipende da quale modello costituzionale, cioè legale-supremo, assumi. UK, ad esempio, non ritenne di creare (ed aggiornare) una Costituzione rigida: l'affermazione dello Stato interventista del welfare fu pozzibile grazie all'affermazione politica del partito laburista.
      Negli USA, abbimao una struttura costituzionale diversa, certamente fondata su una visione liberale settecentesca, che spetta alla Corte Suprema aggiornare, in funzione della sensibilità politica in evoluzione. Ma hanno una banca centrale con una diversa mission, volta alla (più o meno) piena occupazione.

      Non è un caso quindi, che le democrazia europee, abbiano:
      a) da un lato registrato la proposizione del super-trattato come evoluzione delle Costituzioni dei diritti fondamentali (per farne accettare in una cornice culturale ed etica contraffatta come omogenea la strisciante disattivazione);
      b) dall'altro, vedano attualmente la stretta finale dell'attacco alle Costituzioni del welfare in nome di un preteso adeguamento (del tutto pretestuoso) al mondo che cambia ("la Cina").
      Strano, (no?) nota bene, che negli USA non si parli di cambiare una Costituzione molto più risalente e meno dettagliata sul piano delle implicazioni Stato-garanzia dei diritti fondamentali.
      Epure anche per loro il mondo cambia e c'è, più che mai, la Cina.

      Questa mistificazione (che nasconde il vero scopo dell'attacco sistematico alle Costituzioni), tipica dell'età neo-liberista, passa in Europa, per l'alibi della sovraesposizione dei diritti cosmetici (che, come illustro, sempre nel libro; cercano ipocritamente di affermare la fine dell'età del "bisogno")

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