Riceviamo e stra-volentieri pubblichiamo questo intervento (primo di una serie, auspichiamo) del prof.Cesare Pozzi. Che ci introduce a una serie di temi che partono dall'analisi della produttività, e quindi tipici dell'economia industriale, ma che si allargano alla considerazione di aspetti sistemici della realtà sociale e istituzionale.
Non è una lettura per tutti-tutti, trattandosi di uno scritto alquanto sofisticato: ma credo che per molti dei più attenti lettori non sia un grande problema, data la motivazione e l'approfondimento di cui si sono dimostrati capaci. Contribuendo a innalzare il livello di questo blog in un processo che non sembra certo giunto al termine.
Cesare ci introduce a una diversa considerazione del problema della produttività, confutando l'errata impostazione dei neo-classici. Nel fare ciò ci introduce alla realtà biodinamica dell'uomo quale si manifesta nella "trasmissione delle conoscenze", che divengono "competenze" nell'applicazione produttiva.
Ci introduce a un tema "umanistico" e meta-economico (rispetto al paradigma neo-classico, se non altro) che proprio l'opera di Georgescu Roegen ha dischiuso davanti al potenziale cognitivo dell'umanità.
E Cesare mi ha convinto (come spesso gli capita quando ci confrontiamo) che se una vitalità debba essere attribuita al modello costituzionale del 1948, questa può ritrarsi proprio dalla realtà biologica ed evolutiva dell'homo sapiens-sapiens, (non solo oeconomicus), superando, e cioè identificando, l'entropia che sollecita ogni costruzione sistemica (naturale, quindi anche umana), identificabile, nel caso, mediante il corretto intendimento della Storia.
A questa direzione di indagine, assolutamente utile ed attuale, cercheremo di prestare fede, magari insieme, nei prossimi sviluppi che ci attendono.
Stay tuned...the best is yet to come
"Intorno al significato che si attribuisce al termine produttività si gioca da sempre una partita importante per definire le politiche che hanno impatto sul funzionamento dei mercati. Purtroppo la teoria economica ha contribuito a cristallizzare una serie di luoghi comuni che si sono tradotti in azioni che hanno avuto un ruolo decisivo nel determinare l’attuale stato di crisi.
Il punto fondamentale da affrontare riguarda l’intreccio tra le strategie d’impresa, che in ultima istanza hanno nella produttività il proprio riscontro, e l’assetto istituzionale di cui ogni Comunità si dota, assetto istituzionale che fornisce i binari entro cui muoversi, stabilendo cosa è giusto e possibile fare in una prospettiva guidata
dalla propria definizione di interesse generale. Letta in questo senso, la rappresentazione del concetto di produttività che viene normalmente data va in direzione contraria agli interessi di paesi come il nostro che si trovano nella situazione di subire gli andamenti dei mercati internazionali.
Parlare di produttività richiede il riferimento a una funzione di produzione che descriva la relazione tra input e output: la scelta dell’economia dominante è stata di fornire una rappresentazione del prodotto in termini di capitale e lavoro secondo la classica formula Y = f(K,L).
Tale funzione non dà indicazioni sul funzionamento di alcun processo produttivo, ma fornisce a diversi livelli (dal singolo settore a tutta un’economia) una rappresentazione sintetica della relazione tra due macrocategorie di fattori produttivi. Poiché descrive tutte le forme di integrazione tra i due vettori di fattori produttivi K e L serve per determinare, dati i prezzi relativi, la relazione migliore, quindi il miglior rapporto tra beni capitali e lavoro, dato lo stato delle conoscenze e, di conseguenza, risponde coerentemente all’obiettivo neoclassico di realizzare il miglior esito allocativo per le conoscenze stesse.
Infatti, se non ci sono distorsioni nei prezzi ed è quindi verificata l’ipotesi di mercati dei fattori produttivi perfettamente concorrenziali, descrive la capacità di sfruttare il trasferimento delle conoscenze, che si generano esogenamente nel mondo, in modo da produrre un miglioramento. È solo se si diffonde una percezione collettiva di una modificazione vantaggiosa che il sapere che si accumula esogenamente rispetto al sistema economico si traduce in un cambiamento effettivo che modifica la precedente configurazione di equilibrio.
Poiché rappresentare la funzione di produzione in questi termini significa proporre relazioni di sostituzione tra i vettori capitale e lavoro, ha un senso matematico se si mantiene la commensurabilità dei vettori stessi tra di loro.
In altri termini, se si prende la popolazione attiva che lavora come un dato, se cambiano le conoscenze
e si realizza effettivamente progresso tecnico, o si produce di più (delle stesse categorie di prodotti, perché implicito nel fatto che devono essere commensurabili tra loro i vettori capitale e lavoro) o diminuiscono le ore lavorate. [Il percorso inverso (riduzione dell’intensità di capitale) rappresenta un’eccezione anche rispetto alla direzione presa dalle motivazioni culturali all’acquisto (aumento dei beni durevoli e standardizzazione dei beni di consumo, inclusi quelli alimentari)].
Sullo sfondo, per poterne valutare l’utilità, si deve avere presente che si tratta di una proposta che vede il miglioramento della qualità della vita declinabile, come detto, o in termini di aumento della quantità di cose disponibili o del tempo libero.
Essendo costruita come relazione di sostituzione per rappresentare e confrontare diverse configurazioni di equilibrio, non riesce ad afferrare l’innovazione di prodotto, che richiede per generarsi che non venga rispettato il principio di commensurabilità nei vettori capitale e lavoro. [In tali casi l’accumulazione di sapere è guidata, nel trasferimento in percorsi effettivi, dalla capacità di tenuta e diffusione di un determinato modello culturale. Ovviamente, i sistemi che hanno più forte la capacità non solo di sviluppare conoscenze, ma anche di renderle effettive, hanno una diversa potenzialità strategica di gestione delle relazioni tra fattori produttivi.]
La valenza euristica di questa funzione di produzione e di conseguenza delle misure di produttività che se ne ricavano è quindi sostanzialmente descrittiva per ciò che concerne l’allocazione delle conoscenze. L’eventuale pressione sul costo del lavoro o sul prezzo del capitale è il segnale che potrebbe non essere verificata l’ipotesi di concorrenza perfetta sui mercati dei fattori produttivi.
I percorsi normativi che possono partire da questo riscontro riguardano quindi l’auspicabilità o meno della concorrenza perfetta e non hanno relazione diretta con la “capacità di produrre”. In tal senso il rischio è che emerga un’analisi del tema della competitività con esiti assolutamente distorcenti.
In effetti, i mercati dei fattori che rientrano nel vettore capitale vengono confusi con quelli finanziari considerati quindi come sostanzialmente in concorrenza perfetta: e così, si può dire naturalmente, la pressione va sul prezzo del fattore lavoro.
Nella realtà, se non ho perfetta sovrapposizione tra il sistema produttivo e il sistema di mercato, cioè esiste un unico mercato mondo, ma si ha una forma di concorrenza tra imprese, che appartengono a diversi sistemi di produzione (stati nazionali), resa possibile dal fatto che la trasmissione delle competenze avviene molto più
rapidamente di quanto possa avvenire l’adeguamento dei rispettivi costi della vita (con la globalizzazione le competenze viaggiano rapidissime, mentre l’inerzia dei sistemi paese rende possibile ottenere dei vantaggi dalle asimmetrie esistenti nel potere d’acquisto e nelle formule distributive prima che si arrivi a un’area di “offerta comune”), la rappresentazione della produttività che deriva dalla funzione di produzione, à la Wicksteed in quanto fonte di orientamenti normativi, è fortemente distorcente rispetto agli obiettivi che si pensa, o si comunica, di voler realizzare.
Ipotizzando un indicatore che misuri il rapporto tra competenze e costo della vita, se esistono aree produttive con rapporti più alti si genera una forte pressione sul costo del lavoro per unità prodotta che viene spacciata erroneamente per innovazione di processo, mentre nulla si è in concreto in grado di dire in questo senso in quanto due modelli culturali diversi, che esprimono due diverse “aree di “offerta” non consentono confronti perché tra loro sono incommensurabili.
Non è una lettura per tutti-tutti, trattandosi di uno scritto alquanto sofisticato: ma credo che per molti dei più attenti lettori non sia un grande problema, data la motivazione e l'approfondimento di cui si sono dimostrati capaci. Contribuendo a innalzare il livello di questo blog in un processo che non sembra certo giunto al termine.
Cesare ci introduce a una diversa considerazione del problema della produttività, confutando l'errata impostazione dei neo-classici. Nel fare ciò ci introduce alla realtà biodinamica dell'uomo quale si manifesta nella "trasmissione delle conoscenze", che divengono "competenze" nell'applicazione produttiva.
Ci introduce a un tema "umanistico" e meta-economico (rispetto al paradigma neo-classico, se non altro) che proprio l'opera di Georgescu Roegen ha dischiuso davanti al potenziale cognitivo dell'umanità.
E Cesare mi ha convinto (come spesso gli capita quando ci confrontiamo) che se una vitalità debba essere attribuita al modello costituzionale del 1948, questa può ritrarsi proprio dalla realtà biologica ed evolutiva dell'homo sapiens-sapiens, (non solo oeconomicus), superando, e cioè identificando, l'entropia che sollecita ogni costruzione sistemica (naturale, quindi anche umana), identificabile, nel caso, mediante il corretto intendimento della Storia.
A questa direzione di indagine, assolutamente utile ed attuale, cercheremo di prestare fede, magari insieme, nei prossimi sviluppi che ci attendono.
Stay tuned...the best is yet to come
"Intorno al significato che si attribuisce al termine produttività si gioca da sempre una partita importante per definire le politiche che hanno impatto sul funzionamento dei mercati. Purtroppo la teoria economica ha contribuito a cristallizzare una serie di luoghi comuni che si sono tradotti in azioni che hanno avuto un ruolo decisivo nel determinare l’attuale stato di crisi.
Il punto fondamentale da affrontare riguarda l’intreccio tra le strategie d’impresa, che in ultima istanza hanno nella produttività il proprio riscontro, e l’assetto istituzionale di cui ogni Comunità si dota, assetto istituzionale che fornisce i binari entro cui muoversi, stabilendo cosa è giusto e possibile fare in una prospettiva guidata
dalla propria definizione di interesse generale. Letta in questo senso, la rappresentazione del concetto di produttività che viene normalmente data va in direzione contraria agli interessi di paesi come il nostro che si trovano nella situazione di subire gli andamenti dei mercati internazionali.
Parlare di produttività richiede il riferimento a una funzione di produzione che descriva la relazione tra input e output: la scelta dell’economia dominante è stata di fornire una rappresentazione del prodotto in termini di capitale e lavoro secondo la classica formula Y = f(K,L).
Tale funzione non dà indicazioni sul funzionamento di alcun processo produttivo, ma fornisce a diversi livelli (dal singolo settore a tutta un’economia) una rappresentazione sintetica della relazione tra due macrocategorie di fattori produttivi. Poiché descrive tutte le forme di integrazione tra i due vettori di fattori produttivi K e L serve per determinare, dati i prezzi relativi, la relazione migliore, quindi il miglior rapporto tra beni capitali e lavoro, dato lo stato delle conoscenze e, di conseguenza, risponde coerentemente all’obiettivo neoclassico di realizzare il miglior esito allocativo per le conoscenze stesse.
Infatti, se non ci sono distorsioni nei prezzi ed è quindi verificata l’ipotesi di mercati dei fattori produttivi perfettamente concorrenziali, descrive la capacità di sfruttare il trasferimento delle conoscenze, che si generano esogenamente nel mondo, in modo da produrre un miglioramento. È solo se si diffonde una percezione collettiva di una modificazione vantaggiosa che il sapere che si accumula esogenamente rispetto al sistema economico si traduce in un cambiamento effettivo che modifica la precedente configurazione di equilibrio.
Poiché rappresentare la funzione di produzione in questi termini significa proporre relazioni di sostituzione tra i vettori capitale e lavoro, ha un senso matematico se si mantiene la commensurabilità dei vettori stessi tra di loro.
In altri termini, se si prende la popolazione attiva che lavora come un dato, se cambiano le conoscenze
e si realizza effettivamente progresso tecnico, o si produce di più (delle stesse categorie di prodotti, perché implicito nel fatto che devono essere commensurabili tra loro i vettori capitale e lavoro) o diminuiscono le ore lavorate. [Il percorso inverso (riduzione dell’intensità di capitale) rappresenta un’eccezione anche rispetto alla direzione presa dalle motivazioni culturali all’acquisto (aumento dei beni durevoli e standardizzazione dei beni di consumo, inclusi quelli alimentari)].
Sullo sfondo, per poterne valutare l’utilità, si deve avere presente che si tratta di una proposta che vede il miglioramento della qualità della vita declinabile, come detto, o in termini di aumento della quantità di cose disponibili o del tempo libero.
Essendo costruita come relazione di sostituzione per rappresentare e confrontare diverse configurazioni di equilibrio, non riesce ad afferrare l’innovazione di prodotto, che richiede per generarsi che non venga rispettato il principio di commensurabilità nei vettori capitale e lavoro. [In tali casi l’accumulazione di sapere è guidata, nel trasferimento in percorsi effettivi, dalla capacità di tenuta e diffusione di un determinato modello culturale. Ovviamente, i sistemi che hanno più forte la capacità non solo di sviluppare conoscenze, ma anche di renderle effettive, hanno una diversa potenzialità strategica di gestione delle relazioni tra fattori produttivi.]
La valenza euristica di questa funzione di produzione e di conseguenza delle misure di produttività che se ne ricavano è quindi sostanzialmente descrittiva per ciò che concerne l’allocazione delle conoscenze. L’eventuale pressione sul costo del lavoro o sul prezzo del capitale è il segnale che potrebbe non essere verificata l’ipotesi di concorrenza perfetta sui mercati dei fattori produttivi.
I percorsi normativi che possono partire da questo riscontro riguardano quindi l’auspicabilità o meno della concorrenza perfetta e non hanno relazione diretta con la “capacità di produrre”. In tal senso il rischio è che emerga un’analisi del tema della competitività con esiti assolutamente distorcenti.
In effetti, i mercati dei fattori che rientrano nel vettore capitale vengono confusi con quelli finanziari considerati quindi come sostanzialmente in concorrenza perfetta: e così, si può dire naturalmente, la pressione va sul prezzo del fattore lavoro.
Nella realtà, se non ho perfetta sovrapposizione tra il sistema produttivo e il sistema di mercato, cioè esiste un unico mercato mondo, ma si ha una forma di concorrenza tra imprese, che appartengono a diversi sistemi di produzione (stati nazionali), resa possibile dal fatto che la trasmissione delle competenze avviene molto più
rapidamente di quanto possa avvenire l’adeguamento dei rispettivi costi della vita (con la globalizzazione le competenze viaggiano rapidissime, mentre l’inerzia dei sistemi paese rende possibile ottenere dei vantaggi dalle asimmetrie esistenti nel potere d’acquisto e nelle formule distributive prima che si arrivi a un’area di “offerta comune”), la rappresentazione della produttività che deriva dalla funzione di produzione, à la Wicksteed in quanto fonte di orientamenti normativi, è fortemente distorcente rispetto agli obiettivi che si pensa, o si comunica, di voler realizzare.
Ipotizzando un indicatore che misuri il rapporto tra competenze e costo della vita, se esistono aree produttive con rapporti più alti si genera una forte pressione sul costo del lavoro per unità prodotta che viene spacciata erroneamente per innovazione di processo, mentre nulla si è in concreto in grado di dire in questo senso in quanto due modelli culturali diversi, che esprimono due diverse “aree di “offerta” non consentono confronti perché tra loro sono incommensurabili.
L’innovazione di processo reale non può infatti che dipendere dalla realizzazione di economie di apprendimento. Il fatto che esista lo spazio per una riduzione del costo del lavoro viene erroneamente scambiato come il segnale dell’esistenza di rendite di posizione, ma l’eventuale prezzo di concorrenza perfetta del lavoro non può essere ricavato da un mercato esterno a quello della Comunità in questione. Un’eventuale revisione delle scelte distributive di un paese (ad esempio, cambio delle normative sul lavoro che ne abbatte i costi) può rappresentare una scelta politica/strategica per fare concorrenza a produzioni estere, ma va valutata in termini di contropartite per l’impatto diretto e indiretto che ha sulla tenuta del sistema sociale.
Subire al contrario la pressione sul costo del lavoro, senza un’adeguata costruzione politico/strategica, genera una tenuta di breve dei profitti, ma comporta una caduta di medio termine di un’economia, che vede ridursi la sua capacità complessiva di spesa non solo in termini di consumi, ma anche di investimento nel cambiamento.
La rappresentazione neoclassica della produttività alimenta facilmente l’equivoco consentendo di proporre confronti tra valori diversi di produttività del lavoro sulle “aree comuni di mercato” anziché sulle “aree comuni di offerta” che prescindono da un’analisi delle conseguenze effettive dei percorsi normativi che se ne ricavano.
Per comprendere le distorsioni e gli effetti perversi che si generano effettivamente nella realtà si deve invece analizzare la produttività a partire da una funzione di produzione rappresentativa dei processi produttivi. In questo senso la strada più utile è quella che considera la suddivisione in fondi e flussi proposta da N. Georgescu Roegen.
L’indivisibilità e l’ozio dei fattori di fondo, lavoro e capitale, sono i due elementi su cui intervenire per aumentare l’efficienza di un processo produttivo e quindi per formulare un primo giudizio sulla sua produttività. In secondo luogo, poiché sono queste le caratteristiche dei fattori produttivi che consentono di analizzare il funzionamento dei processi produttivi, è a partire da tale analisi che si possono avere gli elementi per effettuare un confronto tra diversi processi produttivi in modo da elaborare una teoria della produttività.
In termini reali, la possibilità di effettuare questa prima valutazione in maniera precisa sul singolo lavoratore si scontra con la varianza nelle loro caratteristiche (in altri termini, nessuno è in grado di sapere quanto e con quanta resa è in grado di lavorare una persona); concretamente, con il passare del tempo l’orario di lavoro tende a ridursi generando inefficienza strutturale, in parte compensata dall’aumento della popolazione che, consentendo in linea teorica di lavorare su più turni, può far aumentare meno il non utilizzo dei fattori fondo capitale. Il risultato che ne esce in un inquadramento neoclassico è il mantenimento tendenziale della stessa paga oraria per unità di lavoro, con la conseguente riduzione del salario pro-capite, mentre nella realtà la riduzione del tempo individuale di lavoro ha generato un esito sorprendentemente utile, cioè un meccanismo di autorinforzo che, nelle economie di mercato, si è tradotto nella proliferazione di mercati assolutamente voluttuari del tempo libero.
Tali mercati sono però, indirettamente (perché richiedono un processo di accumulazione precedente e contestuale sui mercati “indispensabili”), estremamente deboli in due sensi: nel primo perché dipendono prioritariamente dalla scelta politica di accettare un certo livello di inefficienza del fattore fondo lavoro nei mercati dei beni primari e successivi; nel secondo perché la comunità che li genera è esposta alla falsa innovazione di processo di cui sopra (e nella difficoltà di comprendere il circolo vizioso in cui si entra accettando questa strada gioca un ruolo decisivo una non corretta rappresentazione del problema della produttività in quanto fornisce una falsa giustificazione scientifica alla pressione sul costo del lavoro).
In termini reali sul fattore capitale esistono due problemi legati alla produttività della produzione in linea.
Il primo riguarda i cosiddetti beni durevoli e i beni di consumo standardizzati, la produzione in linea di queste due categorie di beni genera strutturalmente un eccesso di capacità produttiva. Se vengono sfruttate a pieno le conoscenze scientifiche, queste categorie di beni possono essere prodotte con livelli di automazione sempre più spinti che generano la trappola del costo fisso, in altri termini, se aumento la capacità produttiva riduco il costo medio unitario e quindi potenzialmente il prezzo, così se uno parte gli altri lo devono seguire e la capacità produttiva richiede mercati in espansione esponenziale. La commoditizzazione e la globalizzazione amplificano gli esiti economicamente distruttivi di questa deriva.
Il secondo problema è legato all’insostenibilità ambientale di questo percorso in termini di flussi…"
Subire al contrario la pressione sul costo del lavoro, senza un’adeguata costruzione politico/strategica, genera una tenuta di breve dei profitti, ma comporta una caduta di medio termine di un’economia, che vede ridursi la sua capacità complessiva di spesa non solo in termini di consumi, ma anche di investimento nel cambiamento.
La rappresentazione neoclassica della produttività alimenta facilmente l’equivoco consentendo di proporre confronti tra valori diversi di produttività del lavoro sulle “aree comuni di mercato” anziché sulle “aree comuni di offerta” che prescindono da un’analisi delle conseguenze effettive dei percorsi normativi che se ne ricavano.
Per comprendere le distorsioni e gli effetti perversi che si generano effettivamente nella realtà si deve invece analizzare la produttività a partire da una funzione di produzione rappresentativa dei processi produttivi. In questo senso la strada più utile è quella che considera la suddivisione in fondi e flussi proposta da N. Georgescu Roegen.
L’indivisibilità e l’ozio dei fattori di fondo, lavoro e capitale, sono i due elementi su cui intervenire per aumentare l’efficienza di un processo produttivo e quindi per formulare un primo giudizio sulla sua produttività. In secondo luogo, poiché sono queste le caratteristiche dei fattori produttivi che consentono di analizzare il funzionamento dei processi produttivi, è a partire da tale analisi che si possono avere gli elementi per effettuare un confronto tra diversi processi produttivi in modo da elaborare una teoria della produttività.
In termini reali, la possibilità di effettuare questa prima valutazione in maniera precisa sul singolo lavoratore si scontra con la varianza nelle loro caratteristiche (in altri termini, nessuno è in grado di sapere quanto e con quanta resa è in grado di lavorare una persona); concretamente, con il passare del tempo l’orario di lavoro tende a ridursi generando inefficienza strutturale, in parte compensata dall’aumento della popolazione che, consentendo in linea teorica di lavorare su più turni, può far aumentare meno il non utilizzo dei fattori fondo capitale. Il risultato che ne esce in un inquadramento neoclassico è il mantenimento tendenziale della stessa paga oraria per unità di lavoro, con la conseguente riduzione del salario pro-capite, mentre nella realtà la riduzione del tempo individuale di lavoro ha generato un esito sorprendentemente utile, cioè un meccanismo di autorinforzo che, nelle economie di mercato, si è tradotto nella proliferazione di mercati assolutamente voluttuari del tempo libero.
Tali mercati sono però, indirettamente (perché richiedono un processo di accumulazione precedente e contestuale sui mercati “indispensabili”), estremamente deboli in due sensi: nel primo perché dipendono prioritariamente dalla scelta politica di accettare un certo livello di inefficienza del fattore fondo lavoro nei mercati dei beni primari e successivi; nel secondo perché la comunità che li genera è esposta alla falsa innovazione di processo di cui sopra (e nella difficoltà di comprendere il circolo vizioso in cui si entra accettando questa strada gioca un ruolo decisivo una non corretta rappresentazione del problema della produttività in quanto fornisce una falsa giustificazione scientifica alla pressione sul costo del lavoro).
In termini reali sul fattore capitale esistono due problemi legati alla produttività della produzione in linea.
Il primo riguarda i cosiddetti beni durevoli e i beni di consumo standardizzati, la produzione in linea di queste due categorie di beni genera strutturalmente un eccesso di capacità produttiva. Se vengono sfruttate a pieno le conoscenze scientifiche, queste categorie di beni possono essere prodotte con livelli di automazione sempre più spinti che generano la trappola del costo fisso, in altri termini, se aumento la capacità produttiva riduco il costo medio unitario e quindi potenzialmente il prezzo, così se uno parte gli altri lo devono seguire e la capacità produttiva richiede mercati in espansione esponenziale. La commoditizzazione e la globalizzazione amplificano gli esiti economicamente distruttivi di questa deriva.
Il secondo problema è legato all’insostenibilità ambientale di questo percorso in termini di flussi…"
Può sembrare "fuori tema", ma penso che un'interpretazione psicologica (in chiave un po' lacaniana) di cosa significa "lavorare" possa essere "in tema". Specialmente qui.
RispondiEliminahttp://www.notremonde-lefilm.com/
Buona vita
Anche questo....
RispondiEliminahttps://www.youtube.com/watch?v=EYQVNeRUBZA
Interessantissima l'analisi di C Pozzi che rivela un "altro" paradosso neoclassico e, continuando a spulciarli, dalle "repubbliche dei filosofi" si giunge alle pianure malariche del parossismo "liberale", funzione Y=f(K,l).
RispondiEliminaFortuna che, "l’assetto istituzionale di cui ogni Comunità si dota, assetto istituzionale che fornisce i binari entro cui muoversi, stabilendo cosa è giusto e possibile fare in una prospettiva guidata", ancora non è ancora riuscito a "riformare" l'art. 41 della Costituzione Italiana che lascia aperti e "liberi" gli spazi della funzione sociale dell'impresa, del ruolo degli assetti istituzionali e, ultimo tra gli ultimi, della dignità umana attorno alla quale parrebbe interessare anche le sensibilità del costituzionalismo internazionale .
Spazi aperti e "liberi" della Responsabilità Sociale di Impresa (RSI o il british CSR) e della conseguente misurabilità e rendicontazione degli "intangibles" assets, dissassemblati nella geometria del "ben dell'essere", tra "good & bad will, e ricostruiti, una volta igenizzati dal green & social washing, nel communication-oriented marchio/etichetta emerso dalle direttive UE diluite negli standard SA 8000 .
Ottimo Poggio.
EliminaAvrai notato pure che dove ci sono rapporti più alti tra competenze e costo della vita si genera una pressione sul cost del lavoro che viene spacciata come innovazione di processo, per pareggiare la produttività rispetto a una diversa "area di offerta", cioè, in definitiva, un diverso modello culturale. Sicchè quest'ultimo non solo viene trascurato come direzione di effettiva correzione, ma se ne accentua anche il carattere "debole".
La frontiera costituzionale dei diritti, allora, diviene, in chiave internazionale anche la vera sfera della comparabilità produttiva: chiaramente aggiornando continuamente il contenuto dei diritti e raffinando l'intervento dello Stato.
Non riducendo il sistema pubblico dell'istruzione e della ricerca ai minimi termini...
Il tema proposto è assai affascinante e complesso allo stesso tempo. Mi pare che il senso dell'intervento del prof. Pozzi sia inquadrabile in una critica complessiva del sistema produttivo capitalistico e dei suoi "strumenti" per quantificare ordini di grandezza abbastanza sfuggenti e opinabili come "produttività" e "benessere". Sono sostanzialmente d'accordo nell'affermare che il sistema di produzione seriale abbia generato una spietata competizione tra i paesi più industrialmente progrediti, innescando una corsa forsennata nel produrre di più e a minor prezzo. Giusto o sbagliato che sia, questo percorso inizia però - come sappiamo - con la Rivoluzione Industriale che opera una trasformazione radicale nell'organizzazione del lavoro e dell'intero sistema sociale; è evidente che - al netto di storture e sperequazioni - questo paradigma strutturale ha permesso di elevare le condizioni di benessere di una sempre più vasta percentuale della popolazione (con maggiore aspettative di vita conseguenti a progressi in campo medico, scientifico ecc.) portando oggi la qualità della vita umana a livelli mai raggiunti prima; tutto ciò ha inevitabilmente avuto conseguenze a livello ambientale, con progressivo inquinamento e sfruttamento massivo della biosfera. Colgo nella parte finale, e soprattutto nel link allegato, idee che sottendono a una visione "decrescista" della nostra società. La bioeconomia di Georgescu Roegen ha indubbiamente molti aspetti condivisibili: pone al centro dell'attività economica la Natura - materia ed energia - considerandola la sola generatrice di ricchezza; considera la stessa un insieme di risorse da utilizzare con parsimonia, tracciando un parallelismo con i due principi della Termodinamica; auspica un percorso più umano e umanistico dell'economia: Tuttavia essa tende - a mio parere - a trascurare un punto focale: l'essere umano solo per il fatto di esistere, respirare, spostarsi, produce inquinamento, pensiamo solo all'impatto ecologico dei rifiuti organici in megalopoli come Tokyo e New York e dell'energia necessaria per la depurazione; il problema ambientale è stato una costante di tutta l'evoluzione umana: dall'inquinamento da piombo, eccessivo sfruttamento delle miniere e deforestazione nell'antica Roma e Grecia (deprecati da Platone e Plinio il Vecchio) fino all'inquinamento da consumo di carbone nell'Ottocento. Ciò che non mi convince di questa impostazione metodologica è che essa ci viene propalata "dall'alto" dai soliti maitres à penser, usando la recessione in atto come una provvidenziale e opportuna occasione per un ritorno alla sobrietà e alla frugalità; chi è che stabilirà cosa possiamo o non possiamo consumare? Quali saranno i criteri selettivi? Lasciamo alle persone e al loro libero arbitrio la facoltà di scegliere.
RispondiEliminaPS: ci vediamo sabato
Su Georgescu "decrescista" come quelli di oggi (dirlo poi a me, figurati!:-)) le cose non sono così semplici. Non credo sia assimilabile agli approssimativi epigoni di questi anni.
EliminaQuanto al sistema di calcolo della produttività con la funzione K,L e alla sua capacità di aumentare la qualità della vita collettiva, ho i miei seri dubbi. Basti pensare che colonialismo (come protezionismo in malam partem su quelli che erano assoggettati) e passaggio per i nazionalismi totalitaristi dei sistemi sociali, in europa, dimostrano che "quel" sistema produsse essenzialmente 2 cose: aumento della popolazione (in condizioni di proletariato e sub-proletariato urbano) e concentrazione della ricchezza. E' stato l'intervento dello Stato nell'economia a garantire l'aumento della qualità di vita e la sottrazione dei popoli ad una democrazia negata o puramente teorica...
Oggi con la restaurazione del liberismo anti-Stato abbiamo semmai la riprova, in base al processo invertito innescatosi...
Il punto scientifico, di nessuna critica al capitalismo in sè, ma alle teorie economiche dominanti, non capaci più di offrirci delle risposte, rimane la incomparabilità, in base alla funzione della produttività, tra aree con diversi modelli culturali normativi; cioè di aree-offerta incomparabili correlate a un ideale "mercato unificato" mondiale.
Però, la questione è alquanto sofisticata, per un profano, e chiederò a Cesare di fare post di spiegazione graduale dei vari passaggi su punti non proprio scontati del pensiero scientifico.
Diciamo che questo è una sorta di riassunto introduttivo (per arrivare poi a saper utilizzare l'indicatore del rapporto tra conoscenze e potere di acquisto, che si correla alle pressioni sul mercato del lavoro, indebite, problema connesso alle costanti sfasature tra tassi di cambio reale)
Il senso generale credo di averlo capito anche se un paio di passaggi sono un po' ostici (mi è venuto da pensare: certo, ci fosse qualche formula matematica...;-)).
RispondiEliminaMi pare si possa leggerlo anche, forse prima di tutto, come una critica del liberoscambismo. In effetti mi è sembrato molto compatibile con queste riflessioni di Lordon (un economista francese su posizioni del tutto analoghe a quelle démondialistes di Sapir) con cui denuncia l'irrealismo dei presupposti del liberoscambismo ("il faudrait ajouter aux règles du libre-échange l’hypothèse de parfaite identité structurelle des systèmes socioproductifs mis en concurrence…") - forma non di "pace" ma di antagonismo fra le nazioni, scaricato sui lavoratori - e indica nel protezionismo l'autentica cooperazione, e qui anche solidarietà di classe, internazionale ("Si Organisation mondiale du commerce a un sens, autre que celui dévoyé de « promotion du libre-échangisme », c’est bien celui, littéralement parlant, que le commerce international nécessite d’être organisé pour que les distorsions correctrices soient instituées sur des bases stabilisées par la négociation, plutôt qu’aspirées par la spirale divergente des impositions unilatérales et des représailles qui s’en suivent.").
E non è certo una prospettiva decrescista, se è vero, come scopriamo con Paul Bairoch, che negli ultimi due secoli i periodi di più intenso liberoscambismo sono stati anche quelli in cui la crescita mondiale è rallentata.
Yes, direi che la direzione di indagine che suggerisci è nella direzione del post. Fermo restando che ho strappato a Cesare la spiegazione graduale di questo denso argomento introduttivo :-)
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