Come avevo segnalato nei commenti al precedente post, c'è un'interessante intervista a Francesco Forte sul sussidiario.net.
Riassumendo: egli considera giustificate le perplessità dei tedeschi sul discorso di apertura di Renzi del semestre europeo a conduzione italiana, stigmatizzando che non ha senso parlare di volontà di fare le riforme espressa in modo generico.
Con molto spirito pratico, Forte va al sodo e dice che una vera apertura alla flessibilità sui vincoli di bilancio si poteva ottenere offrendo in cambio una precisa e ben nota riforma: quella del lavoro, volta, immancabilmente, a "renderne più flessibili i costi".
Precisa subito che il Jobs Act (perchè poi chiamarlo così da parte del governo?) non c'entra, perchè si tratta di fare ciò che Biagi prima, e Sacconi poi, avevano già proposto. Quindi di introdurre il contratto "periferico libero", capace di dare attuazione all'art.19 dello Statuto dei lavoratori, e di superare l'art.18 mediante l'arbitrato. Cioè di fare quello che si è fatto in Germania (...?).
Questo è quanto dice l'art.19 dello Statuto:
Art. 19.
Costituzione delle rappresentanze sindacali aziendali.
Costituzione delle rappresentanze sindacali aziendali.
Rappresentanze sindacali aziendali possono essere costituite ad iniziativa dei lavoratori in ogni unità produttiva, nell'ambito:
a) (...) (1);
b) delle associazioni sindacali che siano firmatarie di contratti collettivi di lavoro applicati nell'unità produttiva (2) (3).
Nell'ambito di aziende con più unità produttive le rappresentanze sindacali possono istituire organi di coordinamento.
Buona o cattiva che sia, ai fini della flessibilità "del costo del lavoro" la proposta di Forte (Sacconi), l'art.19 non pare averci molta attinenza.
Dall'esistenza delle rappresentanze sindacali aziendali e delle relative norme di tutela dello status dei relativi rappresentanti, poste negli articoli seguenti, non si può desumere nè la previsione legale, da attuare, di un diverso livello di contrattazione "libera e periferica", nè, di conseguenza, quello di un'autonoma legittimazione di tali rappresentanze a concludere contrattazione aziendale con libera rideterminazione, verso il basso, dei livelli retributivi stabiliti dai contratti collettivi nazionali e di settore.
Analogamente l'idea di superare l'art.18 mediante l'arbitrato, cioè escludendo il sindacato del giudice del lavoro sulla materia del licenziamento, appare in realtà del tutto assente dallo Statuto dei lavoratori e, piuttosto, in contrasto con alcune non minori previsioni costituzionali: primo l'art.24 Cost., per cui "tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi. La difesa è un diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento".
E' poi abbastanza ovvio che l'art.24, in tema di tutela del lavoro, vada letto in armonia con gli artt. 1 e 4 della Costituzione (cioè fondamento della Repubblica sul "lavoro" e "diritto al lavoro" come obbligo di intervento realizzativo a carico delle istituzioni di governo).
Difficile pensare che si possa eccettuare del tutto, come intendono Forte-Sacconi, i licenziamenti dalla tutela giurisdizionale dello Stato. L'idea di arbitrato suggerita, infatti, pare proprio quella di praticare una forma irrituale, di natura transattiva, non impugnabile davanti al giudice ordinario se non nei limitati termini e presupposti degli atti di transazione stessi.
Col piccolo dettaglio che neppure il "collegato al lavoro" del 2010, nell'introdurre la clausola compromissoria delle cause di licenziamento, mediante devoluzione ad arbitri, ha assoggettato all'integrale regime delle transazioni ordinarie tali ipotesi ed, anzi, rinvia naturalmente al regime di impugnazione giudiziale degli arbitrati irrituali previsto dall''art.808-ter del cod.proc.civ.
In sostanza, poi, la devoluzione ad arbitri, stanti questi limiti costituzionalmente invalicabili dalla legge ordinaria, deve essere accettata "anche" dallo stesso datore di lavoro, in applicazione delle più frequenti formulazioni compromissorie.
Ma quello che colpisce di più è che l'arbitrato "insindacabile" non risulta esistere neanche in Germania: lo si può capire da questo lavoro scientifico di diritto comparato, che alle pagine 39 ss. ci illustra la relativa disciplina di tutela del lavoro e dal licenziamento e conclude con l'illustrazione del contenzioso di licenziamento iin Germania (pagg.63-64).
Si tratta di una procedura davanti al giudice specializzato, preceduta da un'obbligatoria udienza di conciliazione, esattamente come in Italia. Semmai sono previsti termini di impugnazione più lunghi, minori casi di "reintegra" rispetto al regime dell'art.18, precedente (però) alla riforma "Fornero", ed un sindacato che, meno fondato su dirette previsioni costituzionali, è stato in Germania, condotto sulla tutela della buona fede e della "aspettativa di stabilità" del posto, sia dalla legge ordinaria che dalla giurisprudenza della Corte costituzionale tedesca.
Insomma, nè la Costituzione italiana, (sempre per ora), nè la disciplina del lavoro tedesco prevedono un istituto arbitrale del genere che pare ipotizzare Forte.
Ma poi, lo standard che si vorrebbe imporre ai lavoratori italiani non ha riscontro neppure nella virtuosa Germania, che, come è noto, ha "aggirato" i problemi derivanti dai limiti costituzionali e legali della tutela del rapporto di lavoro con la precarizzazione-deflazione di settori strutturali della forza lavoro, mediante le famigerate riforme Hartz: alla fine dei conti, è più realistica e aderente agli interessi datoriali la posizione di Grillo, che a tali riforme si è richiamato esplicitamente, che quella di Forte, che non sembra tenere conto della realtà giuridica neanche tedesca.
Quanto detto riguarda pure la contrattazione aziendale, che pare essere difficilmente sottraibile al sindacato di coerenza coi principi costituzionali, anche i Germania e Svezia, per quanto essa possa essere basata su capacità di dialogo col sindacato che in Italia, per ovvii motivi legati alla perdita di competitività industriale dovuta alla moneta unica, si trova ad agire su livelli retributivi difficilmente comprimibili nelle misure percentuali realizzabili (in passato e in altra situazione congiunturale) in Germania.
La verità è che il sistema di superamento della tutela del lavoro passa, oggi più che mai, per:
a) la disattivazione ulteriore delle previsioni costituzionali fondamentali in tema di lavoro;
b) la connessa adottabilità del welfare pietistico-deflattivo anglosassone, basato sull'assenza del principio lavoristico nelle Costituzioni e su "reddito minimo" e reddito di "cittadinanza".
Questo è chiaramente attestato in questo "brief" riassuntivo e programmatico che, (non a caso) è Pietro Reichlin ad affidare alle pagine del Sole 24 ore.
Ma quale sia poi l'utilità di flessibilizzare il lavoro in uscita in una crisi da domanda (cioè da crollo livelli di reddito e dei conseguenti consumi risparmi ed investimenti), - che ne verrebbe semmai evidentemente acuita, col solo vantaggio di consentire abbassamento ulteriore dei salari per poche imprese in grado di realizzare forti quote di export, ma senza prospettive di sopravvivenza di lungo termine (data l'impraticabilità per qualunque unità produttiva di privarsi programmaticamente della domanda interna)- è un mistero che affonda le sue radici nella fede illimitata nella legge di Say che nutrono i neo-liberisti, nell'ambiente mercantilista ormai irreversibilmente imposto dalla Germania all'intera UEM.
Con vantaggi esclusivamente per se stessa (altra cosa che sfugge agli approssimativi calcoli degli italian-spaghetti-tea-party).
Questa illusione alberga potente anche in Confindustria: la "fabbrica-cacciavite" Italia li attira irresistibilmente, perchè dalla parallela illusione della deflazione (ormai fenomeno degenerativo che non consentirebbe ulteriori pressioni salariali verso il basso), traggono la conclusione che la concomitante riduzione della spesa pubblica, e del tasso di interesse, abbia effetto sulla, altrettanto presunta, elasticità della curva IS, cioè della sensibilità degli investimenti al basso tasso di interesse creditizio (ammesso che credit crunch e crollo della solvibilità di imprese e comuni cittadini consentano di realizzarlo in Italia): il crowding-out è dunque sempre nei loro pensieri, confusi e deduttivistici.
E Forte ce lo conferma: la riforma che chiede, ci dice, è proprio quella voluta da Marchionne, un a.d. ormai orientato alla gestione di un'impresa non residente e che vede l'Italia solo come un luogo per effettuare eventuali investimenti sostanzialmente dall'estero, su fabbrica-cacciavite italiana.
Forte "rafforza" questa idea dicendo che la riforma "ce l'ha chiesta l'UE" (infatti Draghi ne parla insistemente ogni volta che può, pur non avendo nessuna competenza giuridica in materia) e sicuramente fa il gioco della Germania: rendere l'Italia una provincia per IDE a basso costo del lavoro, come la Serbia o la Romania, ne garantisce l'uscita dal gioco della competizione industriale, spostando il controllo su cosa e quanto produrre, specie in termini di investimenti in nuove tecnologie e padronanza delle filiere che attribuiscono il price-making e i profitti, ai nostri maggiori concorrenti (ovvero comuque alle imprese estere che, come accade in Spagna e ora in Italia, per la Fiat "estera", ci vedano solo come hubs di manodopera a basso costo).
A conferma di ciò, indifferente ad ogni problema di calo della domanda interna (PIL), in cui va ascritta, dopo una recessione in double-dip che prosegue sostanzialmente da 5 anni, la componente essenziale della spesa pubblica, Forte lamenta l'insufficiente abbassamento del deficit pubblico e insiste per il pronto raggiungimento del pareggio di bilancio nel 2015.
Addirittura, ingnorando l'elemento denominatore del rapporto debito/PIL, e gli effetti recessivi indotti dal consolidamento fiscale senza precedenti che l'Italia ha intrapreso come cura agli squilibri commerciali determinati dalla moneta unica, Forte auspica una forte manovra fiscale di fine anno "altrimenti cresce il debito già salito a livelli spaventosi". Parrebbe, a suo dire, a causa della manca flessibilità in uscita dei lavoratori (mentre la disoccupazione nello stesso periodo è praticamente raddoppiata)?
Per concludere fa un'analisi tributario-fiscale che ci dice che l'IVA è già alta, la Tasi influisce sui bilanci comunali, la rendita finanziaria è stata già colpita, l'imposta sul reddito (con gli "80 euro"!) è stata appena attenuata e non avrebbe senso riasprirne le aliquote, le accise sono in continua correzione in aumento, ma comunque non possono dare il gettito necessario e perciò...Perciò, preavverte Renzi, "l'unica cosa è fare una seria spending review" che tagli per oltre un punto di PIL la spesa pubblica.
Probabilmente dimentica la revisione del catasto e l'inasprimento richiesto dall'UE della tassazione immobiliare (per 0,6 punti di PIL). Chissà perchè, poi.
Sta di fatto che la sua dimostrazione, in piena logica tea-party, cioè taglio della spesa e flessibilizzazione all'americana del lavoro, in fondo, per inevitabile logica di sistema, consegna l'Italia a un mondo in cui la cura è più disoccupazione in vista di un riaggiustamento verso il basso dei livelli salariali e della mitica "competitività" (alla Marchionne), raggiunta mediante abrogazione di ogni residua stabilità del posto di lavoro e il drastico venir meno del sostegno pubblico alla domanda.
Magari, poi, trovandosi di fronte alla dilagante disoccupazione aggiuntiva in ulteriore recessione, si dovrà riespandere la spesa pubblica sul welfare pietistico (e contrario al sistema dei valori costituzionali ATTUALI) del reddito minimo e del reddito di cittadinanza.
Ma allora tanto vale seguire la via diretta del M5S: tagliare drasticamente le pensioni (secondo un "tetto" che prescinda da ogni considerazione delle pregresse posizioni contributive) e l'occupazione nella pubblica amministrazione - che peraltro l'ISTAT ci segnala in contrazione vistosissima (-367.000 unità tra 2001 e 2011) con dati che non vengono mai correttamente esposti dai media- , condendo il tutto con riforme Hartz e introduzione del reddito di cittadinanza.
Hic Rodhus Hic salta: per Renzi, sia che si tratti dell'opposizione che pare ora ritrovarsi, sia che si tratti delle frange più apertamente tea-party, che comunque appoggiano la maggioranza, la via dell'ordoliberismo, cioè delle riforme indispensabili assunte a mantra, passa solo per un via possibile.
CERTAMENTE, L'UNICA SE SI RIMANE NELLA MONETA UNICA: ABBRACCIARE LA PIU' INTEGRALISTA POLITICA TEA-PARTY E PASSARE SPEDITAMENTE ALLA RIFORMA DELLA COSTITUZIONE NEI SUOI PRINCIPI FONDAMENTALI.
Certamente resa più agevole dalla riforma del Senato.
Il quadro è allora questo e solo questo.
SE SI RIMANE NELLA MONETA UNICA.
MA PUO' REGGERE LA MAGGIORANZA POLITICA, E LA STESSA ONDA DI CONSENSO ATTUALE DEL LEADER DI GOVERNO, SULLA BASE DI QUESTI AMBIGUI "NON DETTI", CHE NASCONDONO LA ESIGENZA DI PROVOCARE ULTERIORE INTENSA RECESSIONE NEI PROSSIMI ANNI?
Mi viene da "giuntare" all'analisi tecnico-giuridica l' "ambizioso progetto" di reintroduzione del servizio cvile "volontario universale" che attinge anche dai fondi dei progetti regionali del piano Garanzia-giovani.
RispondiElimina433 (n)euri al mese, esenzione IRAP, costo annuo 6.000 n(euri) da estendere in un progetto europeo con imbarco e biglietto di sola andata dal sotterraneo e triste "binario 21" della stazione centrale di Milano.
Realtà che scavalca la "fertile" fantasia di P Hartz, rottamandola.
Quelli dell'ambizioso progetto sono gli stessi che berciavano contro la mini-naja di La Russa..... oggi sostanzialmente riproposta in versione cosmetico-radical-chic..........
Elimina