sabato 12 luglio 2014

VIAREGGIO E LA TRAIETTORIA CULTURALE. LO STUDIO DI FRANCESCO LENZI SULLE PARTITE CORRENTI E LA PNE POST MAASTRICHT

Quello che vi riportiamo è il frutto della integrale ricerca che Francesco Lenzi ha compiuto per il suo intervento al convengo di Viareggio.
L'intera gamma delle analisi e dei dati offferti a supporto, è di enorme interesse. Ci consente una riflessione, anche per il futuro, tra le più importanti.
Per dare seguito a questo vero e proprio "punto-nave", vi consiglio ciò che farò io stesso: un'attenta lettura e rilettura del quadro qui riportato.
Poi, magari, potremo aprire una discussione "costruttiva" (eufemisticamente: di costruttivo, negli organi e nelle istituzioni di governo italiani, non è rimasto granchè, visto che si occupano di tutto tranne che di ciò che ha una qualche rilevanza: ma, come ormai tristemente sappiamo, è un problema di...competenza secondo la legge di Murphy-Peter).


Nella ricerca di quale possa essere la traiettoria culturale che possa tirare fuori il nostro amato Paese dalle secche in cui si è cacciato, credo sia innanzitutto importante capire attraverso quale percorso siamo arrivati fin qui. 
Attraverso quali scelte è stato possibile passare, nel giro di 15 anni, da un surplus di parte corrente pari a circa il 3% del PIL ad un deficit di oltre 3 punti e mezzo? Ed in che modo abbiamo accumulato una posizione patrimoniale netta sull’estero (differenza tra crediti e debiti sull’estero) negativa per oltre il 30% del Pil? 
Partiamo analizzando in quale modo si sono evoluti gli scambi commerciali dell’Italia, dall’inizio degli anni 90 fino ai giorni nostri. Successivamente ricostruiremo il saldo di partite correnti annuo ed infine analizzeremo come, ed in quale misura, è andato crescendo il passivo netto verso l’estero dell’Italia. Utilizzeremo esclusivamente dati ufficiali dell’ISTAT e della Banca d’Italia.

SALDO COMMERCIALE INTRA-UEM12 (eurozona a 12)
Partiamo dal ricostruire l’evoluzione dei saldi commerciali con i Paesi che dal 1997 hanno dato vita alla zona euro nella versione originaria. Questo è quello che si ottiene:





Si nota in modo abbastanza evidente alcuni aspetti fondamentali che ci hanno accompagnato fin qua:
  • ·       Aumento della competitività tedesca. A seguito della svalutazione del 1992 recuperiamo la competitività che avevamo perso negli anni dello “SME credibile” nei confronti della Germania. Il saldo commerciale si mantiene stabilmente positivo fino al 1996. Nel 1997 poi la lira si rivaluta rispetto al marco di circa il 20% e successivamente viene fissato il cambio in vista dell’introduzione dell’euro.  Da allora si ha progressivamente un peggioramento dei saldi, giungendo al picco del 2007, negativo per circa 16,5 mld  di euro.  Da notare come le cosiddette riforme Hartz (2003-2004) fatte in Germania non amplificano un trend che era già in costante discesa da alcuni anni a conferma della tesi che vuole la compressione dei salari reali iniziata ben prima dell’adozione di tali provvedimenti (http://www.voxeu.org/article/german-resurgence-it-wasn-t-hartz-reforms).

  •    L’Olanda come importante centro per il cosiddetto transfer pricing (http://www.gfintegrity.org/transfer-pricing-labyrinth/). Grazie alla favorevole normativa fiscale sul trattamento dei marchi, loyalties, ecc... molte imprese, anche italiane (http://www.repubblica.it/economia/finanza/2012/11/26/news/fiat_industrial_marchionne-47396867/), usano lo strumento della capogruppo olandese alla quale viene trasferito il marchio, i brevetti, i diritti e altro per trasferire all’estero buona parte dei profitti. Inoltre, da tener presente che il porto di Rotterdam è uno dei principali porti di accesso delle merci cinesi in Europa. Possibile che le vendite della capogruppo Cinese avvengano attraverso sussidiarie o controllate di diritto olandese. In questo caso quindi, sebbene i saldi siano negativi, si tratta di flussi commerciali che non necessariamente dipendono dalla maggior competitività dell’impresa estera olandese, ma da logiche soprattutto di natura fiscale.
  •   Il miglioramento dei saldi commerciali con la Francia. Nonostante la competitività reale dell’Italia nei confronti della Francia sia in costante peggioramento, il saldo commerciale bilaterale, dal 1992 ad oggi, è via via aumentato.  Dal 2011 i saldi si espandono ulteriormente segno della differente politica fiscale seguita dai nostri vicini. Avessero provveduto ad una analoga cura di austerità i pessimi risultati di crescita avuti dall’Italia in questi 3 anni, sarebbero stati ben peggiori.
  •      Il boom and bust di Irlanda, Spagna, Portogallo e Grecia. Nonostante sia uso comune inserire la nostra economia tra i cosiddetti PIIGS, l’andamento dei saldi bilaterali dimostrano come la dinamica commerciale nei confronti dei Paesi periferici sia piuttosto simile a quella avuta dalla Germania. La fissazione del cambio (e quindi l’impossibilità di questi Paesi di svalutare la propria moneta nei confronti della nostra) e un rilevante differenziale di crescita dei redditi nazionali e di inflazione, ha contribuito a far crescere la nostra competitività nei loro confronti, e di conseguenza il nostro surplus commerciale. Nel 2007 il saldo attivo era oltre 17 mld€, in valore assoluto maggiore di quello che avevamo, negativo, con la Germania. L’austerità imposta con tale forza a questi Paesi ha finito col ripercuotersi negativamente sui nostri saldi bilaterali, giungendo quest’anno ad un sostanziale azzeramento.

Nel complesso, dal 1997, il saldo commerciale all’interno della zona euro è andato progressivamente peggiorando fino al 2003. Poi sei anni di deficit sostanzialmente stabile, nei quali all’espandersi del saldo negativo con la Germania, faceva da contrappeso l’incremento del surplus con PIGS e Francia. Poi, il picco negativo del 2010 e la “cura” d’austerità, il taglio delle importazioni dalla Germania che ha riportato verso l’equilibrio gli scambi commerciali.





SALDO COMMERCIALE CON L’EUROPA

Proseguendo nella nostra analisi aggiungiamo gli altri pezzi d’Europa, ricomponendo così  il saldo commerciale della nostra economia con l’intero continente.







E’ importante notare come dalla svalutazione del 1992 i saldi commerciali con il complesso dei Paesi extra-Uem12 siano sempre stati positivi. La maggiore integrazione commerciale dovuta all’adesione alla Unione Europea dei Paesi dell’ex blocco sovietico, la fissazione del cambio di alcuni di essi e la politica di sviluppo seguita dal Regno Unito, molto più orientata verso il settore finanziario e meno su quello manifatturiero, hanno permesso di espandere la penetrazione dei nostri prodotti, e di incrementare considerevolmente i surplus commerciali. Negli anni 2000 infatti, salvo la caduta del 2008-2009, i surplus sono in costante aumento, quadruplicando, in termini nominali, dal 2000 al 2013.
Analizzando poi nel complesso il saldo commerciale nei confronti dei  Paesi Europei si nota come i rapporti siano stati di sostanziale equilibrio. Anche prendendo in considerazione il periodo che va dal 1999 al 2010, escludendo quindi il periodo pre-ERM2 e quello della “austerità”, il saldo cumulato è positivo, a prezzi correnti, per circa 6,5 miliardi di €. 





SALDO COMMERCIALE EXTRA-EUROPA

Questo è l’andamento del saldo commerciale con il resto del mondo (Europa esclusa), suddiviso  per macro aree geografiche. 


Con il continente americano il saldo commerciale si è mantenuto costantemente positivo e non ha particolarmente risentito né della variabilità del tasso di cambio, né della liberalizzazione degli scambi commerciali avviata da metà anni novanta con la costituzione del WTO. Si ha invece un calo piuttosto pronunciato a seguito dello shock Lehman, quando il saldo commerciale passa dai circa 15 miliardi di € del 2007 ai 10 del 2009. Successivamente l’espansione degli USA e dell’America latina, accompagnata alla nostra compressione della domanda interna, porta il surplus ben oltre i massimi degli anni precedenti.
Il saldo commerciale con l’Africa viceversa è sempre stato negativo. I Paesi del Nord-Africa sono infatti i nostri principali fornitori di Idrocarburi (ancora oggi, nonostante la crisi libica, Algeria e Libia rappresentano oltre il 40% del nostro import di gas naturale) e le esportazioni verso tali aree non sono mai riuscite a riequilibrare l’Import. Inoltre, dal 2003 in poi, con l’aumento della nostra domanda interna, beneficiando della “valuta forte”,  di un euro in continuo apprezzamento, il deficit è andato espandendosi raggiungendo il picco nel 2008, oltre 20 miliardi di €. In questo senso pare che l’aver avuto una valuta forte non ci abbia messo al riparo dall’espansione dei deficit commerciali sul fronte “energetico”. Piuttosto, come vedremo anche successivamente, il fatto di trovar particolarmente conveniente importare energia ha ritardato l’adozione di un serio piano energetico nazionale volto a contenere, per quanto possibile, questa nostra storica dipendenza dall’estero.
Con il medio oriente invece i saldi commerciali sono stati quasi sempre positivi, almeno fino al 2011. Nel 2010-2011 però, con il manifestarsi del cosiddetto fenomeno delle primavere arabe nel Nord-Africa e la conseguente instabilità politica nei nostri principali fornitori, si ha quasi un raddoppio delle importazioni dal medio oriente, volto appunto a compensare la diminuzione delle forniture dai Paesi del sud del mediterraneo. Successivamente, a seguito del calo dei nostri consumi interni e grazie anche all’aumento delle esportazioni, i saldi si riequilibrano nuovamente.
Riguardo invece all’andamento dei saldi con l’Asia orientale, si nota una dinamica simile a quella avuta, all’interno della zona euro, con la Germania. Sicuramente l’evento dominante è la liberalizzazione degli scambi commerciali e l’entrata della Cina del WTO. Se nei primi anni duemila il deprezzamento dell’euro sul dollaro e la non completa liberalizzazione degli scambi (l’adesione della Cina al WTO è del 2002) hanno permesso di contenere il saldo negativo, negli anni successivi l’apprezzamento dell’euro e la liberalizzazione completa degli scambi portano i saldi a crescere fino ad arrivare al picco di oltre 20 miliardi di deficit nel 2008. 



SALDO COMMERCIALE COMPLESSIVO

A questo punto completiamo l’analisi considerando i saldi commerciali distinti non solo in relazione alla controparte, ma anche in base alla categoria merceologica, secondo la classificazione ATECO 2007.

A conferma di quanto visto poco sopra si nota come nei confronti dei Paesi extra-EU il saldo in peggioramento è guidato dal progressivo deficit nel settore energia. Nelle altre categorie invece le variazioni negative sono molto più contenute, il calo nei saldi dei beni di consumo e nei prodotti intermedi (con la competizione cinese che si fa sentire non solo nel rapporto bilaterale ma anche come nostro competitor nei mercati terzi) è più che compensato dall’incremento del surplus nei beni strumentali. 
Riguardo invece agli scambi con la EU, i saldi attivi e passivi sono molto più contenuti. Se il surplus nei beni di consumo durevole si mantiene pressoché costante fino al 2008, in tutte le altre categorie si ha un peggioramento dei saldi, anche se in misura non così rilevante da portare in negativo il saldo commerciale con la EU.
Ricapitolando, alcuni elementi principali possono essere ricavati dall’analisi fatta fin qui. Prendendo in considerazione l’Europa nel suo complesso, area che rappresenta circa il 70% dell’interscambio commerciale, nonostante la progressiva perdita di competitività dell’Italia nei confronti dei Paesi  leader, Germania e Francia, questo non ha determinato accumulo di passività estere. I saldi commerciali sebbene non più positivi come a metà anni novanta, sono rimasti sostanzialmente bilanciati compensando il peggioramento del saldo negli scambi commerciali con la Germania attraverso la penetrazione nei mercati dell’est-europa, l’aumento della domanda nei PIGS e l’aumento dell’Import francese ed inglese. 
Nei confronti del resto del mondo, invece, due principali tendenze sembrano aver guidato il progressivo peggioramento dei saldi commerciali: l’esponenziale aumento delle importazioni dai Paesi produttori di idrocarburi e la liberalizzazione degli scambi commerciali con l’ingresso sulla scena di economie molto più competitive in termini di costo rispetto alla nostra. L’aver avuto una moneta che nel giro di 6 anni, dal 2002 al 2008, si sia apprezzata del 75% rispetto al dollaro, sebbene non rappresenti l’unica causa di squilibrio, ha rivestito, per le ragioni viste prima, un ruolo sicuramente importante.
Dal 2011 poi, la via intrapresa della compressione dei consumi interni e la conseguente riduzione delle importazioni, ha riportato i saldi a prezzi correnti vicini ai massimi storici, sia nei confronti dell’Europa che del resto del mondo.




SALDO DI PARTITE CORRENTI

Completata così l’analisi dei saldi commerciali per giungere al saldo di partite correnti, e quindi all’indebitamento/accreditamento netto annuo dell’Italia, occorre aggiungere altre due componenti principali: i flussi di redditi ed i trasferimenti.
Dal database della Banca d’Italia è possibile ricavare i dati storici dal 1997. Questo è quello che si ottiene.
Sul lato dei trasferimenti si nota intorno alla metà degli anni 2000 un deciso peggioramento del deficit, che raddoppia nel volgere di 2 anni, dal 2004 al 2006. Chi volesse scomporre i  trasferimenti distinguendoli tra quelli relativi al settore pubblico e quelli del settore privato troverebbe che per il settore pubblico, a seguito dell’approvazione del bilancio comunitario del dicembre 2005, relativo al periodo 2007-2013, si ha un peggioramento dei saldi di circa 2-3 miliardi euro dovuti sia al maggior contributo netto siglato dall’Italia, sia al mancato utilizzo dei fondi stanziati. Inoltre, anche dal lato privato, dal 2005 si modificano anche i saldi netti nei trasferimenti (principalmente relativi alle rimesse dall’Italia e verso l’Italia). Se infatti dal 1997 al 2003 i trasferimenti son sempre stati positivi (afflussi netti di risorse), dal 2004 in poi i flussi verso l’estero eccedono quelli provenienti dall’estero, passando dal deficit di 1 miliardo di euro del 2004, agli oltre 5 del 2007 e mantenendosi su tali livelli fino al 2012.
Sul lato dei redditi è possibile notare una dinamica che è abbastanza nuova per il nostro Paese. Il nostro è stato tradizionalmente un Paese che ha offerto agli investitori esteri un reddito superiore a quello che gli investimenti italiani all’estero hanno generato. Dalla metà degli anni novanta invece inizia un trend di riduzione del deficit che giunge al suo azzeramento nel 2005 ed a un surplus del 2006. Come vedremo successivamente, la possibilità di disporre di capitali a basso costo, affluiti grazie alla fissazione del cambio in vista dell’adozione dell’euro, è stata in misura rilevante utilizzata per impieghi all’estero più remunerativi e gli effetti dal lato dei redditi sono significativi. Successivamente al 2007, le condizioni internazionali si sono modificate; prima lo shock Lehman, poi la crisi dell’eurozona ha sensibilmente ridotto la redditività degli investimenti esteri, ed aumentato (dal 2010) il costo dei prestiti ricevuti.
A questo punto possiamo ricomporre l’andamento del saldo delle partite correnti sommando al saldo commerciale i saldi dei trasferimenti e dei redditi. (da tener presente che nel passare dai dati Istat a quelli Banca d’Italia ci sono delle differenze nei saldi degli scambi commerciali. Il saldo dei beni e servizi come espresso dalla Banca d’Italia non corrisponde al saldo commerciale indicato dall’Istat, a causa di rettifiche che la Banca d’italia adotta per rilevare i cosiddetti servizi di intermediazione finanziaria indirettamente misurati (SIFIM) e i ritardi nelle dichiarazioni intrastat).
Otteniamo quindi uno dei principali grafici che abbiamo imparato a conoscere, con il massimo surplus raggiunto nel 1997 e poi la caduta fino al 2010-2011, anni in cui tutte le componenti hanno fatto registrare un deficit.

A questo punto, descritto compiutamente il processo di formazione del saldo di partite correnti, andiamo ad analizzare in quale modo i flussi annui relativi al saldo di partite correnti hanno formato lo stock di passività nette nei confronti dell’estero del nostro Paese. Per prima cosa introdurremo la posizione patrimoniale netta sull’estero (PNE), espressione della differenza tra il totale degli attivi ed i passivi verso l’estero. Successivamente metteremo in relazione in quale modo i flussi (di partite correnti) hanno formato lo stock netto di debito estero.



POSIZIONE PATRIMONIALE NETTA SULL’ESTERO (PNE)
La posizione patrimoniale sull’estero rappresenta la consistenza delle attività e delle passività finanziarie  di un Paese verso il resto del mondo. La posizione netta (PNE) è la differenza tra l’attivo ed il passivo lordo verso l’estero. La bilancia dei pagamenti e la posizione patrimoniale sull’estero sono raccordabili. Da un punto di vista concettuale, infatti, la variazione della consistenza delle attività e delle passività finanziarie sull’estero, intervenuta in un intervallo di tempo, è attribuibile ai flussi finanziari (saldo di partite correnti e conto capitale), alla variazione tra inizio e fine periodo dei prezzi delle attività sottostanti, alla dinamica dei tassi di cambio (per attività denominate in valuta diversa da quella di conto) e a eventuali altri aggiustamenti (https://www.bancaditalia.it/statistiche/quadro_norma_metodo/metodoc/manuale_bilpag.pdf)
Le attività e passività che compongono la posizione patrimoniale sull’estero sono classificate in 4 macro-categorie: Investimenti diretti esteri (IDE), investimenti di portafoglio, derivati e altro. Per ognuna di esse  vengono indicati i saldi, e la loro somma forma la PNE.
Analizzando il trend seguito dalle varie componenti della PNE in questi anni di completa liberalizzazione dei flussi, si nota come l’integrazione estera dell’Italia abbia seguito il percorso tipico dei Paesi sviluppati. 
A differenza dei Paesi emergenti ed in via di sviluppo (i quali investono all’estero prevalentemente in titoli di debito e valute), il modello di espansione internazionale dei Paesi sviluppati è quello di aumentare le passività nella forma di capitale di debito (investimenti di portafoglio_Bonds & notes) per impiegare all’estero, in capitale di rischio, le risorse così ottenute, che tendenzialmente dovrebbero offrire dei rendimenti superiori a quelli pagati sul capitale di debito. Questa dinamica si evidenzia chiaramente per l’Italia e giustifica anche il miglioramento dei saldi nella voce redditi delle partite correnti. Abbiamo aumentato notevolmente la posizione debitoria in obbligazioni e titoli di debito, ma abbiamo anche aumentato gli investimenti diretti all’estero e le quote di capitale di rischio di imprese estere. Il problema di questo modello si manifesta nel momento in cui i prestiti esteri debbono essere rinnovati o incrementati (per finanziare ad esempio un saldo di partite corrente sempre più negativo) a costi via via maggiori e contemporaneamente i rendimenti e/o i valori delle attività estere diminuiscono.
A questo punto, individuati i flussi annui di partite correnti (intesi come nuovo indebitamento/accreditamento estero) e l’andamento della PNE, possiamo raccordare le due grandezze verificando in quale modo i flussi hanno formato lo stock. La PNE al tempo t è pari alla PNE al tempo t-1 sommata al saldo delle partite correnti ed alle variazioni di valore (dovute ai prezzi o ai cambi) delle attività e delle passività estere. (per la verità occorrerebbe sommare anche il saldo del conto capitale, ma per semplicità, trattandosi di importi comunque poco rilevanti, si preferisce non considerarlo)

Si ricava quindi che la differenza tra il saldo cumulato delle partite correnti e la PNE è dovuta a queste variazioni di valore, in valuta nazionale, delle attività estere possedute o delle passività verso l’estero. Le variazioni di valore (valuation effects) possono dipendere da più elementi. I tassi d’interesse influiscono sul prezzo di mercato dei titoli obbligazionari, l’andamento e la performance di una società influisce sui suoi corsi azionari, il cambio stesso influisce sul valore, in valuta nazionale, delle attività o passività estere.
Per quanto riguarda il caso italiano la situazione che otteniamo è la seguente:


I valuation effects, quale differenza tra il saldo cumulato di partite correnti e la PNE è espressa anno per anno dalla linea puntinata gialla. Con un saldo cumulato di partite correnti sostanzialmente in equilibrio fino al 2004 si accumulano circa 200 miliardi di nuove passività nette sull’estero. La differenza maggiore poi si rileva nel 2007, quando a fronte di una PNE derivante dai saldi cumulati di partite correnti negativa per circa 100 miliardi, quella effettivamente raggiunta era passiva per circa 400 miliardi di €. A fronte quindi di un deficit cumulato di partite correnti, nei dieci anni 1997-2007, di circa 50 miliardi, le variazioni di prezzo sulle componenti patrimoniali sono negative per circa 300 miliardi.
Si tratta pertanto di effetti che, al pari dell’accreditamento/indebitamento estero annuo, debbono esser seriamente in considerazione. 
Non è sufficiente realizzare surplus esteri se poi nel periodo successivo questi surplus vengono azzerati da rettifiche in diminuzione di valore degli attivi o in aumento dei passivi. Allo stesso modo non è così grave la posizione di chi riesce attraverso la gestione della posizione patrimoniale sull’estero a compensare i deficit che di anno in anno si accumulano sul conto corrente (http://www.nber.org/chapters/c0121.pdf). Inoltre è da considerare come con l’incremento dell’integrazione finanziaria, e quindi dell’entità degli attivi-passivi esteri, aumenti anche la volatilità dell’effetto valutazione. Non è la stessa cosa essere debitori netti di 100 con attivi di 1000 e passivi di 1100, rispetto ad essere debitori degli stessi  100 con attivi di 100.000 e passivi di 100.100. Nel primo caso infatti la variazione del 10% degli attivi riporta in equilibrio la PNE, nel secondo caso invece la stessa variazione del 10% porta in attivo la PNE per 900. Dal grafico seguente si nota come le variazioni di valore annue siano state molto rilevanti, molto più ampie dei deficit/surplus di parte corrente.

Da questo grafico si nota come anche in anni, tipo il 1998 o il 2013, in cui il saldo di partite correnti è stato positivo (quindi il Paese era risultato in surplus verso il resto del mondo) il passivo netto sia aumentato anche significativamente, a causa di importanti rettifiche sul valore degli attivi/passivi che compongono la posizione patrimoniale sull’estero. Viceversa negli anni dal 2008 al 2011, nonostante un saldo di partite correnti negativo, la PNE è notevolmente migliorata. In questi anni, la svalutazione dell’euro, l’emersione di attivi esteri non dichiarati (il cosiddetto scudo fiscale) e lo “spread” (con il conseguente deprezzamento del valore dei bond privati e pubblici degli emittenti italiani) hanno più che bilanciato il deficit cumulato di partite correnti. Nel complesso, prendendo in considerazione il periodo dal 1997 al 2013, per il quale la Banca d’Italia fornisce dati sufficientemente dettagliati, il peggioramento della posizione netta sull’estero è stato di 415 miliardi di euro. Però, “solo” 204 miliardi sono relativi al deficit complessivo di parte corrente, il resto, ben 211 miliardi, si riferiscono a variazioni di valori negative (aumento di passivi  e/o riduzione di attivi).
In conclusione analizziamo a questo punto l’effetto che l’uscita dall’euro ed una svalutazione della nostra moneta nazionale potrebbe avere sulla PNE prendendo in considerazione il valuation effect che il cambio determina.
Per far questa simulazione ho fatto alcune ipotesi base: la svalutazione avvenga one-shot rispetto al resto del mondo;  il debito pubblico, essendo per la maggior parte emesso in legislazione nazionale, venga ripagato nella nuova valuta; tutte le altre obbligazioni emesse da soggetti privati, ed anche i debiti della Banca d’Italia nell’Eurosistema (TARGET2), siano totalmente sotto legislazione estera e quindi ripagate al valore rivalutato rispetto alla nuova moneta.
Il risultato è  che all’aumentare della svalutazione, la PNE migliora. Con una svalutazione superiore al 60% il passivo netto estero è prossimo a zero.

Come si può notare la posizione del Governo (che non ha sostanzialmente attivi esteri ma non modifica il valore del proprio passivo perché emesso in legislazione nazionale) e della Banca d’Italia rimane costante. La posizione del settore privato nel complesso (famiglie e imprese) migliora. La posizione del settore finanziario invece peggiora e questo rende probabile il fatto che, dal punto di vista patrimoniale, alcune banche non reggerebbero il colpo della svalutazione e dovrebbero esser nazionalizzate.
Ovviamente si tratta di una semplificazione di quello che potrebbe succedere, ma queste valutazioni sono importanti per capire che per “gestire” una posizione netta sull’estero di circa il 30% del Pil come quella italiana non è necessario focalizzarsi solo ed esclusivamente sulla necessità di accumulare consistenti avanzi di parte corrente per ridurre l’indebitamente netto verso l’estero. Al pari di un miglioramento dei saldi commerciali, la svalutazione della nostra nuova moneta ridurrebbe il passivo della posizione netta sull’estero.

p.s.  Se interessa, qui (http://www.bankofgreece.gr/Pages/en/Statistics/externalsector/international.aspx ) ci sono i dati della Grecia, qui (http://www.bde.es/f/webbde/SES/Secciones/Publicaciones/PublicacionesAnuales/BalanzaPagos/13/Fich/bp2013.pdf) della Spagna, qui (http://www.bportugal.pt/EstatisticasWeb/(S(o1m0lbj3ze3kh355m2uwdk45))/SeriesCronologicas.aspx )del Portogallo. Compiendo la stessa simulazione i risultati sono totalmente differenti rispetto a quelli dell’Italia. 
L’evoluzione della loro PNE a seguito di una uscita unilaterale dalla zona euro non è proprio come la nostra. Per questa ragione, magari, il loro interesse potrebbe essere in futuro (http://www.cnbc.com/id/101637083#. ) quello di una ristrutturazione del debito piuttosto che l’uscita unilaterale. Se qualcuno sperasse in un asse dei Paesi periferici per forzare la rottura della zona euro, credo avrà qualche speranza delusa.

18 commenti:

  1. molto interessante.

    sarebbe anche interessante vedere uno studio simile anche relativo alla Francia.


    non so se ho capito bene ma....ma quindi Francesco Lenzi si è ricreduto rispetto al fatto che servisse un prestito ponte per l'uscita dall'euro dell'Italia? alla fine salta fuori che le passività in valuta estera aumenterebbero di meno di quanto si ridurrebbero le passività ripagabili in valuta nazionale giusto? ho capito bene?

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Suppongo che ti riferisca a questo passaggio
      "per “gestire” una posizione netta sull’estero di circa il 30% del Pil come quella italiana non è necessario focalizzarsi solo ed esclusivamente sulla necessità di accumulare consistenti avanzi di parte corrente per ridurre l’indebitamente netto verso l’estero. Al pari di un miglioramento dei saldi commerciali, la svalutazione della nostra nuova moneta ridurrebbe il passivo della posizione netta sull’estero"
      Ma temo che si trattidi due distinti problemi, rispettivamente di "breve" (come i relativi crediti commerciali e della provvista di riserve "pregiate" per pagarli in situazione valutaria in assestamento) e di sostenibilità nel "medio".
      Ma suppongo che il punto verrà chiarito dallo stesso Francesco...Hopefully

      Elimina
    2. esattamente a quello mi riferivo.

      Elimina
    3. Se l'Italia migliora del 20% circa il suo CLUP per effetto di un intervento sul sistema monetario-valutario, la posizione finanziaria sull'estero è gestibile senza il minimo problema, non ci sono dubbi. Tra l'altro il livello italiano di passivo netto sull'estero è in linea con USA, UK e Francia.

      Elimina
    4. Il CLUP migliora, ovviamente, quando si (ri)sfrutta la competitività di prezzo. Ma non sempre si è price-maker (finali) e non sempre i price-taker possono stabilire l'elasticità dei beni importati.
      In linea di principio per l'Italia dovrebbe esserci un vantaggio: la sua esatta quantificazione dipende però dalla effettiva struttura dell'offerta attuale, da cui ormai latitano alcune fondamentali filiere o, almeno, il relativo controllo.
      Siamo in grado di ribaltare il controllo della grande distribuzione alimentare e di riappropriarci della catena produttiva che gli è dietro?
      Siamo in grado di produrre e commercializzare ciò che ci riconverrebbe produrre di nuovo (le auto no di certo, come sappiamo, eppure sono la voce n.1 della partita commerciale)?
      Siamo in grado di fare comunque ciò basandoci, in un indispensabile ciclo temporale di nuovi investimenti, sull'offerta nazionale di beni strumentali e di relativo konw-how (incluse le competenze lavorative di ogni livello)?
      Minsky, Kaldor e Nuti ci avvertono della irrerversibilità delle fasi di output gap e consolidamento fiscale prolungate.
      Tutto questo non può desumersi da dati del passato che riproducono elasticità...passate e neppure da dati aggregati per "settore".
      Ovviamente non è una critica a quanto dice il post.
      20 anni di precarizzazione e di lavoro non-capital intensive, e di mancati investimenti IRS, hanno prodotto una situazione difficilmente stimabile, tenendo conto anche che l'apertura di un'economia, come quella prodottasi negli ultimi decenni, accentua aspetti di specializzazione che legano ancor più alla specializzazione...deflattivo-salariale.

      E questi problemi, in generale, bisogna porseli, proprio in relazione ai problemi di breve termine della posizione debitoria in caso di switch valutario.

      Elimina
    5. questa analisi riguarda gli aspetti patrimoniali (variazioni di valore di attivi e passivi) di una eventuale uscita dall'euro. Diverso è invece l'analisi sulla liquidabilità delle varie componenti. Nel senso che una eventuali linea di credito internazionale non serve a coprire i valori in essere, ma le fuoriuscite di capitali che si potrebbero verificare. Adesso infatti sto proseguendo l'analisi andando a vedere i movimenti di capitali che vi sono stati nel periodo 2010-2012, ipotizzando quanta liquidità aggiuntiva servirebbe al nostro sistema per tamponare un eventuale deflusso nel periodo del change-over.

      Elimina
  2. Gran bel lavoro
    Un Grazie di cuore a te e Francesco

    RispondiElimina
  3. SONO BASICO, QUINDI BASALE

    C’è da ringraziare Francesco per l’appassionante approfondimento che serve per la “nostalgia” di un futuro nel quale si abbia da ricordare perchè ciò non s’abbia più d’accadere.

    C’è da ringraziare la passione che anima le tante conoscenze civiche che necessitano e desiderano condividere la “nostalgia” del presente della Storia del Bel Paese.

    Sono basico, quindi caustico e anche acido quando apro e guardo i grafici di pagina 3 del supplemento n. 33 / 2014 dei bollettini statistici della BdI e leggo “escluse le passività connesse con i prestiti in favore di paesi dell'UEM, erogati sia bilateralmente sia attraverso l'EFSF (European
    Financial Stability Facility) (serie S452657M), e con il contributo al capitale dell'ESM (European Stability Mechanism) (serie S271668M).

    Escluse le passività? Cioè ulteriori interessi (pagati, a chi?) sul debito “pub(bl)ico”’?

    C’è poco da imparare da questa follia lisergica.
    C’è molto da raccontare al 13% di disoccupati del Bel Paese.
    C’è da mostrare al 42,3% di “bamboccioni, “sfigati”,“ciusi” e “inoccupabili” il pensiero e i volti dei sicari.

    Ps: a margine le intriganti suggestioni del “vuoto” che avanza tra gli ossimori della “popsophia” e grazie a Diego F

    RispondiElimina
  4. Interessantissimo, con tanti dati nuovi. Grazie Francesco. In sostanza lo studio ci conforta, ancora una volta, sulle conseguenze di una uscita dall'euro e svalutazione della nostra moneta che, chissa' non sia davvero vicina...non possiamo contare sui pigs, ma i principali attori geopolitici stanno litigando. Oggi c'e' un articolo di Raffone sul sussidiario, venerdi c'era questo http://www.ilsussidiario.net/News/Esteri/2014/7/11/SCENARI-Cosi-Germania-e-diventata-nemica-degli-Usa-e-dell-Europa-/512865/

    RispondiElimina
  5. Mi unisco ai complimenti a Francesco e anche io sono molto d'accordo sul fatto che la nostra posizione netta verso l'estero non è poi così brutta da farci temere chissà quali catastrofi in caso di svalutazione. Aggiungo che ci sono fondati motivi per ritenere che esista una fetta non trascurabile di attività sull'estero che sfugge alla rilevazione ufficiale. La stessa Banca d'Italia nel suo più recente ricalcolo dei dati di bilancia dei pagamenti e di posizione verso l'estero rileva una incoerenza tra entità dei flussi dei saldi di partite correnti e pne. Quest'ultima infatti appare "troppo" negativa rispetto a quello che sarebbe stato lecito aspettarsi cumulando la serie storica dei saldi delle partite correnti (http://www.bancaditalia.it/statistiche/rapp_estero/pimebp/pimebp11/sb31_11/suppl_31_11.pdf). L'ipotesi della presenza di attività sull'estero non dichiarate e quindi non rilevate sarebbe coerente con tale discrepanza. La BI tenta anche una stima dell'entità dei capitali "nascosti" all'estero (http://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/econo/quest_ecofin_2/QF_97) individuando come plausibile una forchetta tra i 124 e i 194 miliardi di euro a fine 2008. Certo, far emergere i capitali esteri non dichiarati non è cosa semplicissima, tuttavia si tratta sempre di patrimoni di italiani che un domani, in un contesto economico più favorevole e con un fisco meno aggressivo, potrebbero utilmente ritornare in gioco.

    RispondiElimina
  6. Ciao Francesco complimenti per il lavoro che hai svolto. Ti pongo una domanda il peggioramento sulla bilancia dei pagamenti del settore energetico che abbiamo riscontrato negli anni in cui l'Euro si apprezzava rispetto al dollaro, è imputabile all'aumento vertiginoso del prezzo del petrolio che in pochi anni è passato da circa 20 euro a 140 del 2007 ( vado a memoria) o al disposto combinato aumento del prezzo e aumento dell'importazione della materia prima?

    Poi ne approfitto per rivolgere una domanda a Quarantotto: pensi che sarebbe utile una volta usciti dall'euro una riforma sostanziale della scuola, professionale e tecnica per recuperare le competenze perse in questi ultimi 20 anni. Se siamo riusciti a ricostruire il paese dopo la devastazione della seconda guerra mondiale portando il paese ad essere la 4/5 potenza industriale del mondo perchè non dovremmo farcela questa volta? La cosa di cui dovremmo anche preoccuparci, una volta recuperata la Sovranità è di mettere in sicurezza le nostre menti migliori, in modo da evitare che facciano la fine di Mattei e di tanti altri. Spero di non aver fatto domande stupide.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Domande intelligenti.
      La istruzione-formazione è un motore che presuppone che esista ill meccanismo di accensione di investimenti-crescita e, ovviamente, della spesa pubblica connessa alla struttura pubblica coordinata con le politiche industriali (pubbliche).
      Con l'euro, e il conseguente fiscal compact, tutto ciò semplicemente non esiste più...e sarà sempre peggio

      Elimina
    2. Quindi, stavolta non abbiamo possibilità di farcela così scontatamente: la volta scorsa avevamo il quadro keynesiano recepito in Costituzione.
      Più alungo si rimane del paradigma attuale di "centennial depression" ordoliberista, più la desertificazione rischia di divenire epocale e irreversibile...Anche in caso di "cacciata" del nemico dal Tempio della Patria e della democrazia

      Elimina
    3. Forse intendevi da 20 $ a 140 $? ;-)
      Il prezzo in euro nel 2004 ha oscillato tra 30 e 40 euro, nel 2007 era tra 45 e 50 (nel gennaio 2007 era ancora sotto i massimi del 2004). Nel giugno 2008 poi è arrivato a 90 euro. Nel frattempo però, dal 2004 il saldo energia è sempre peggiorato. Nel 2007 il deficit era a 46 miliardi, contro i 29 del 2004. Nel 2008 -59 miliardi.

      Elimina
  7. Ottimo. Ma puoi esplicitare il dettaglio delle voci della PNE e i meccanismi in virtu' dei quali una svalutazione migliorerebbe la PNE? Anche per consentirci di valutare le hp sottostanti...

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Grazie. Il modello che ho usato è lo stesso che si applica per stimare il valuation effect nel caso di oscillazioni dei cambi. In questo tweet ho postato il modello (ripreso dallo studio di Nordvig), in quest'altro i dati di partenza, che non sono altro che la riclassificazione per strumento e settore dei dati di Banca d'Italia.

      Elimina
  8. Ho l'impressione che Tsipras questi dati (differenza tra situazione italiana e greca) li abbia presenti. Temo che la Spinelli non li abbia visti...

    RispondiElimina
  9. Tre risposte:
    -qui trovi le varie classificazioni (secondo la distinzione ATECO 2007)
    - i concetti infatti son quelli esposti nel "tramonto". Ho cercato di darne una prima (e comunque semplificativa) quantificazione numerica. Il discorso dev'essere allargato, come cercherò di fare, andando ad analizzare il conto capitale (nella vecchia definizione). Quanto all'ipotesi di tutti i debiti privati sotto legislazione estera, si tratta certamente di un'ipotesi worst-case. Ma non è che la differenza sia molta, mi pare che Nordvig stimasse i debiti sotto legislazione estera a 714 miliardi.
    - non è una contrapposizione euroexit-default. E' piuttosto evidenziare quale possa essere l'interesse principale che il Paese voglia far valere unilateralmente. Nel senso che la Grecia, avendo una posizione netta estera molto peggiore della nostra, il debito pubblico e gran parte dei debiti privati sotto legislazione estera, ha molto più interesse a vedersi ridotto il debito piuttosto che a vedersi fuori dall'euro. Si tratta di priorità e di potere negoziale.

    RispondiElimina