Questo lungo articolo di Francesco Maimone richiede una pubblicazione in due parti per una migliore ponderazione da parte del lettore.
Ho aggiunto taluni links e taluni passaggi ulteriormente esplicativi, sempre in dialogo con l'autore, per rendere ancor più coerente il post con l'analisi economica del diritto pubblico svolta in questa sede. Il risultato è di estremo interesse, storico ed anche in termini di bilancio complessivo del discorso qui svolto (e la lettura dei links agevola questo aspetto essenziale).
Le note saranno "visibili" integralmente - per motivi di format - solo a pié di pagina della seconda parte.
Ma l'invito è a "concentrarsi" sugli snodi del discorso e a farne tesoro per pervenire ad una consapevolezza sempre più diffusa e dettagliata della gravità della crisi in cui ci troviamo: a partire dalle possibilità di tutela costituzionale dei fini "sovrani", democratici, che caratterizzano la nostra Costituzione "del lavoro".
CORTE COSTITUZIONALE E TUTELA DEI
DIRITTI FONDAMENTALI SOCIALI – ASPETTANDO GODOT?
“Al posto degli uomini abbiamo sostituito i numeri
e alla compassione
nei confronti delle sofferenze umane
abbiamo sostituito l’assillo degli equilibri
contabili”
Federico Caffè
1. Allorché i diritti fondamentali
sociali non ricevano in prima battuta la dovuta tutela dell’azione integratrice
ed obbligatoria del “legislatore” (per mancata o parziale attuazione degli
stessi), si pone il problema della loro concreta “giustiziabilità”, intesa come
effettiva tutela in sede processuale
[1]. Nel nostro ordinamento, tale
compito è affidato in ultima istanza alla Consulta, organo deputato ad
esercitare, tra l’altro, il sindacato (accentrato) di conformità delle leggi
ordinarie e costituzionali alla Carta fondamentale (art. 134 Cost.).
Orbene,
per evitare di incorrere in troppi infingimenti, bisogna sin da subito
avvertire, come ha fatto autorevole dottrina, che “… la Corte Costituzionale non ha speso molte energie in proposito; e
non perché non le siano capitate le occasioni favorevoli…”, nella
convinzione pessimistica che “… il
capoverso dell’art. in esame (N.d.R., art. 3, comma II, Cost.) esprime un principio le cui probabilità di
realizzazione sono direttamente proporzionali alle probabilità di mutamento
della classe egemone…” [2] (così Romagnoli nel "lontano", ma significativo, anno 1975).
Concetti
analoghi erano stati espressi con toni alquanto severi già nel 1955 da Lelio
Basso allorché, senza giri di parole e con la radicalità di pensiero democratico
che ne hanno contraddistinto la figura, aveva paventato che la Corte
Costituzionale, da organo di propulsione democratica, potesse “diventare un organo di freno ed elemento di
conservazione” [3].
La
storia non avrebbe purtroppo smentito i due insigni giuristi. Ciò in quanto in
materia di concreta tutela dei diritti sociali la Corte Costituzionale sembra
essersi avvalsa nel tempo di diverse tecniche argomentative e decisionali che, sotto
diversi profili, non possono che destare le gravi perplessità di cui si
cercherà di dar conto.
Nella
materia che ci occupa, infatti, ed anche in tempi non ancora caratterizzati dal
pieno dispiegamento egemonico del diritto eurounitario, è possibile individuare
una serie di pronunce della Corte contenenti “indicatori patognomonici” che, nella loro concettualizzazione, hanno
subìto negli anni una definitiva consacrazione. Se ne riportano di seguito, de jure condito, gli esempi più significativi
che hanno scandito gli ultimi cinque decenni della vita repubblicana, per poi
cercare di trarre alcune conclusioni de
jure condendo.
2. Ad un anno dalla dalla sua prima udienza, con la
sentenza n. 3/1957, l’obbligo a carico dello Stato di veder applicata una
politica di pieno impiego previsto dall’art.. 4 Cost. veniva degradato dalla
Corte Costituzionale a mera “affermazione
sul piano costituzionale della importanza sociale del lavoro che, senza creare
rapporti giuridici perfetti, costituisce un invito al legislatore a che
sia favorito il massimo impiego delle attività libere nei rapporti economici”.
L’esordio non era francamente dei più felici.
2.1 Con la successiva pronuncia n. 78/1958,
invece, dichiarata l’illegittimità costituzionale del c.d. imponibile di
manodopera a carico dei conduttori di aziende agricole o boschive, la Corte ha
sancito il carattere prevalente delle ragioni della libertà di iniziativa economica
privata di cui all'art. 41, comma I, Cost., rispetto a quelle “ineffabili”
del diritto al lavoro di cui all'art. 4, comma I, Cost., le quali, nella
relativa ratio decidendi, non
venivano di fatto nemmeno prese in considerazione.
2.2 Forse anche sulla scorta dell'apodittica
affermazione secondo cui “il concetto di
limite è insito nel concetto di diritto” [4], in materia di diritto di sciopero (art. 40 Cost.), con le
sentenze nn. 123 e 124 del 28 dicembre 1962 la Corte Costituzionale ha limitato
il diritto al solo sciopero c.d. economico e nel solo ambito del rapporto
di lavoro privato, escludendone i dipendenti pubblici. In quella occasione
Lelio Basso vedeva purtroppo confermato il timore espresso nel ’55, tanto da aver
affermato senza mezzi termini che
“… La Corte Costituzionale ha sempre
rivendicato a sé la natura di corpo politico prima ancora che di corpo
giudicante e, come tutti i corpi politici, è soggetta a subire l’influenza
del momento politico. La Corte Costituzionale … oggi sembra a poco a poco
orientata verso quella che è la funzione tradizionale delle Corti
Costituzionali che è funzione nettamente conservatrice…” [5].
2.3 In merito al diritto all’istruzione
obbligatoria, ancora, la Corte, se ha riconosciuto la immediata precettività
dell’art. 34 Cost. ove rende obbligatoria e gratuita l’istruzione
inferiore per almeno per 8 anni, con la sentenza n. 7/1967 (il cui
principio sarebbe stato rinsaldato con la sent. n. 106/1968), ha però
affermato che la gratuità si esaurisce nella messa a disposizione dei locali e
del personale insegnante, mentre lo stesso diritto non si estenderebbe sino
alla pretesa di avere forme di assistenza dirette a facilitarne il godimento
(come, per esempio, la fornitura di libri di testo, i mezzi di trasporto etc.) [6].
Per
proseguire, in materia di licenziamenti individuali, con la sentenza
n. 81/1969, attraverso il rinvio a “fattori
di equilibrio economico-sociale che … consigliano, nel determinato momento,
l’adozione, nell’interesse generale” di leggi che riservano ai lavoratori
occupati nelle piccole aziende un trattamento peggiorativo rispetto agli altri,
la Corte non ha ritenuto di poter estendere la disciplina della tutela reale in
favore dei dipendenti impiegati presso aziende con meno di 35 dipendenti.
A
voler essere estremamente clementi, ed a parziale discolpa della Corte, si può
forse ritenere che le pronunce citate possano aver rappresentato solo “errori
di gioventù” di un organo divenuto operativo solo nel 1956 e che è stato posto a presidio della legislazione di uno Stato
italiano il quale, con la Costituzione del ’48, si presentava radicalmente
trasformato nelle sue strutture istituzionali e, soprattutto, nel concetto
inaudito di democrazia che si proponeva di realizzare.
3. E’ però negli anni ’70 che la Corte Costituzionale, adottando il c.d. principio di gradualità anche in tema di
tutela e realizzazione dei diritti sociali [7],
ha iniziato ad immettere nell’ordinamento concetti non qualificabili più come
casuali e la cui eco che si sarebbe via via protratta ed aggravata.
Con
riferimento al diritto all’assistenza e alla previdenza (art. 38, commi I
e II Cost.) [8], le “effettive disponibilità finanziarie” e
le “esigenze di bilancio” sono state
assunte per la prima volta in modo esplicito come presupposto della necessaria
gradualità degli interventi legislativi [9].
Tali diritti soggettivi, godendo di copertura costituzionale, sarebbero sì
tutelati, ma solo con riguardo al loro “contenuto
essenziale” [10].
Paradigmatica,
al riguardo, risulta la sentenza n. 125/1975 sempre in tema di diritto
all’istruzione (per bambini non vedenti), con la quale la Consulta, pur di
fronte a interessi di indubbio rango primario, ha sostenuto che l'adempimento
degli obblighi di cui all’art. 34 Cost. “… come dei principi della scuola aperta a tutti e di gratuità
dell'istruzione elementare e media ... debbono essere adempiuti nel quadro
degli obblighi dello Stato secondo una complessa disciplina legislativa e nell'osservanza
dei limiti del bilancio”.
3.1 Le pronunce citate ed i concetti di cui sono
intrise, a quasi trent’anni dall’entrata in vigore della Carta fondamentale, evidentemente
non potevano più imputarsi ad un “rodaggio istituzionale” della Corte.
Come ha infatti
rilevato Massimo Luciani, iniziava a porsi proprio in quegli anni, sul
declinare dei “Trenta Gloriosi” (succedutisi alla seconda guerra mondiale...):
Non
bisogna dimenticare, in proposito, che si tratta degli anni in cui si innestano
“i prodromi delle svolte epocali”:
le direttive chiave, antesignane della “suggestione manipolatrice del monetarismo di matrice
friedmaniana”, diventavano la lotta all’inflazione e l’orientamento
alla competitività estera.
Il
vento dell’ideologia neo-ordoliberista, trainato nel vecchio continente dal “sogno
europeo”, cominciava semplicemente a spirare sulle democrazie sociali del
secondo dopoguerra. E la Corte Costituzionale non si faceva trovare impreparata all’appuntamento.
4. Gli anni
’80, pertanto, hanno visto il giudice costituzionale continuare nel proprio
trend allo scopo di limitare il
ricorso a “sentenze di spesa”, finendo così per privilegiare le esigenze di
bilancio pubblico a scapito dei diritti fondamentali.
In
tal senso, con la sentenza n. 142/1980, ed in relazione agli
artt. 36, comma I, e 38, comma II, Cost., la Corte affermava che “la progressiva esclusione dal computo
dell'indennità del punto di contingenza, ad un triennio dall'entrata in vigore
della normativa del 1977 che l'ha sancita, non arreca offesa in misura
censurabile da questa Corte”, avvertendo al contempo che “nel futuro l'esclusione stessa, in difetto
di congrue compensazioni, rischierebbe di determinare squilibri più gravi di
quelli già in atto”.
Ciò avrebbe dovuto persuadere “i reggitori della cosa pubblica a por mano in un domani anche non
mediato ad adeguati bilanciamenti”.
In
materia di diritti sociali, nel frattempo, si fece strada in via generale - attraverso
assunzione implicita della regola del “ragionevole”
e del “possibile” di matrice tedesca [12] - una giurisprudenza che
ribadiva una gradualità delle riforme le quali comportino oneri per la finanza
pubblica, e tanto in modo da consentire il contemperamento tra le opposte
esigenze e secondo i criteri rimessi alla “discrezionalità”
del legislatore [13].
4.1 Non bisogna dimenticare che in quel frangente
storico si rafforzava sempre più la falsa convinzione secondo cui, a dire di Giuliano
Amato, si sarebbe “… andati troppo in là
nell'entità delle spese e in quella degli apparati di governo preposti alla
loro erogazione…” [14]. Giudizio
nel quale sembra riecheggiare il rimprovero rivolto agli italiani di aver
vissuto “al di sopra delle proprie possibilità”, anticamera di quel necessario
ritorno “alla durezza del vivere” che
T. Padoa Schioppa avrebbe anni dopo ricordato al Paese.
Insoddisfacenti
dovevano perciò rivelarsi i rimedi apprestati dalla Corte alla mancata (ed
improbabile) risipiscenza dei “reggitori
della cosa pubblica”. Pertanto, sempre in tema di taglio della contingenza
e dell'indennità integrativa speciale, con riferimento all'art. 36, comma
I, Cost., la Corte non solo non metteva più in discussione la legittimità della
misura, ma con la sentenza n. 34/1985 avvertiva che “i lavoratori dipendenti non sono … i passivi spettatori della vicenda
in esame, in quanto incisi da una disciplina che si limiti a privarli di una
parte – sia pure esigua – delle loro spettanze; ma
risultano cointeressati alla soluzione dei problemi del costo del lavoro in
genere e della "scala mobile" in particolare”.
4.2 Allo stesso tempo, in occasione della
sostituzione di un meccanismo di perequazione automatica delle pensioni con uno
meno favorevole, sempre in relazione agli artt. 36, comma I, e 38, con la sentenza
n. 349/1985 la Corte affermava che “nel
nostro sistema costituzionale non è interdetto al legislatore di emanare
disposizioni le quali modifichino sfavorevolmente la disciplina dei
rapporti di durata, anche se il loro oggetto sia costituito da diritti
soggettivi perfetti”.
I favolosi anni ‘80, all’insegna di quelle che la
dottrina [15] (Pegoraro) ha definito “catene monitorie” - cioè sentenze
di rigetto limitate a rivolgere ammonimenti anche accorati al legislatore (si
veda la sentenza n. 534/1989), oltre che agli stessi lavoratori, come si è
visto – hanno contribuito in modo decisivo al consolidamento
dell’ordoliberismo e all’affermarsi del vincolo esterno dispersivo della
sovranità.
5. Negli anni ’90, e senza soluzione di continuità sino alla situazione
odierna, le condizioni di perenne
urgenza finanziaria non potevano che indurre la Corte costituzionale ad
adottare un ovvio e sistematico self restraint in materia di sentenze
additive di prestazione, nonché ad autolimitare ulteriormente le “sentenze onerose”.
Il tendenziale equilibrio finanziario dei bilanci dello
Stato ai sensi dell’art. 81 Cost. (già nella versione ante riforma) è stato
perciò promosso a valore costituzionale da assumere come autonomo
parametro di bilanciamento nella
giustiziabilità dei diritti fondamentali sociali [16].
Ne
doveva conseguire che, pronunciandosi in tema di diritto alla salute
(art. 32 Cost.), con la decisiva sentenza
n. 455/1990, la Corte cogliesse l’occasione per inaugurare la stagione dei
c.d. “diritti finanziariamente
condizionati”, ritenendo che “… al
pari di ogni diritto a prestazioni positive, il diritto a ottenere
trattamenti sanitari, essendo basato su norme costituzionali di carattere
programmatico impositive di un determinato fine da raggiungere, è garantito a
ogni persona come un diritto costituzionale condizionato dall'attuazione che
il legislatore ordinario ne dà attraverso il bilanciamento dell'interesse
tutelato da quel diritto con gli
altri interessi costituzionalmente protetti, tenuto conto dei limiti
oggettivi che lo stesso legislatore incontra nella sua opera di attuazione in relazione alle risorse organizzative e finanziarie di
cui dispone al momento…” [17].
Il bilanciamento, come si vede, è, per implicito ma scontato presupposto, consentito dall'accettazione definitiva, apodittica e priva di ogni riflessione sul suo fondamento economico, dell'idea della scarsità delle risorse "monetarie" dello Stato: questa in effetti era sì una condizione congiunturale in concreto sostenibile, ma era resa operante solo previa adesione incondizionata, - da parte della stessa Corte (siamo ormai nel 1990 e nella fase "acuta" del vincolo monetario del c.d. SME "ristretto")-, a teorie economiche e, più che altro, a istituti giuridici (vincolo di fissità del cambio e "indipendenza" della banca centrale), che, sul piano costituzionale risultavano clamorosamente extratestuali e evidentemente derivanti da fonti europee: quelle che avevano imposto i relativi istituti e che derivavano strettamente dalla sovrapposizione dell'ordoliberismo al sistema socio-economico costituzionale, oggettivamente orientato alle teorie di Keyens e Kaldor, nella testimonianza dei lavori preparatori e dello stesso "consulente" Caffè.
Si era cioè compiuta una "costituzionalizzazione sovrappositiva", rispetto al modello costituzionale, che aveva fatto di teorie economiche estranee al modello del 1948, un alveo di principi ormai ritenuti "supremi" al di fuori non solo del processo di revisione costituzionale, ma dello stesso filtro dell'art.11 Cost.
Gli economisti non si sono avveduti di questa "sovrapposizione", e probabilmente non disponevano degli strumenti e della predisposizione a rilevarlo, ma, di fatto, la Corte aveva operato una scelta di tipo tecnico-(macro)economico che è potuta passare per mera "dichiarazione" e "rilettura" di principi costituzionali fondamentali che, invece, proprio tecnicamente, erano connotati da incompatibilità economica con le affermazioni (di merito tecnico) su cui la Corte andava costruendo la costituzionalizzazione del "vincolo esterno".
5.1. Tanto per far intendere il
clima di incomprensione in cui allora (come oggi) versava la
giurisprudenza costituzionale, l’allora Presidente della
Corte, G. Conso, ebbe modo di affermare che “la copertura finanziaria [è] una
garanzia globale, a tutela com'è di tutti i princìpi, di tutti i valori, di
tutte le norme costituzionali, perché, se salta tale copertura, va in crisi
l'intero sistema, con il baratro del dissesto di bilancio che finirebbe per
travolgere tutto” [18],
aggiungendo con tono grave che “se …
la situazione si fa drammatica perché è
cambiato il panorama di fondo, si impongono risposte diverse dal
consueto: non si può, cioè, continuare tra polemiche e discussioni,
senz'altro accettabili in una situazione normale, non quando essa diventa tale
da mettere in crisi l'intero sistema. In un contesto così minaccioso l'art. 81 deve riprendere la posizione
centrale che gli compete: in
qualsiasi modo lo si voglia intendere, la contingenza attuale impone di
interpretarlo nel modo più rigoroso”.
5.2 Di conseguenza, in tema di perequazione dei
trattamenti di previdenza sociale, con la sentenza n. 99/1995 la Corte continuava
a ribadire che “esiste il limite delle
risorse disponibili, e che in sede di manovra finanziaria di fine anno
spetta al Governo e al Parlamento introdurre modifiche alla legislazione di
spesa, ove ciò sia necessario a salvaguardare l'equilibrio del bilancio dello
Stato e a perseguire gli obiettivi della programmazione finanziaria. Spetta al
legislatore, nell'equilibrato esercizio della sua discrezionalità e tenendo
conto anche delle esigenze fondamentali di politica economica (…) bilanciare
tutti i fattori costituzionalmente rilevanti”.
5.3. Un siffatto orientamento era stato anticipato
da una parte della dottrina giuspubblicistica che, con F. Merusi, si era spinta a
sostenere che “le prestazioni de[bba]no essere erogate nei limiti della spesa
prevista e i diritti alle prestazioni debb[a]no essere compatibili con le disponibilità di spesa dell'ente erogatore
del servizio” [19].
E ciò in una più ampia dimensione dell’ordinamento legata
al riconoscimento del “valore” costituzionale della stabilità monetaria [20], di cui avrebbe costituito
l’espressione più importante l’art. 3A (oggi art. 3, par. 3,
TUE) del trattato di Maastricht, volto a specificare che l'obiettivo principale
della politica monetaria e di cambio era quello “di mantenere la stabilità dei prezzi
e, fatto salvo questo obiettivo, di sostenere le politiche economiche generali
nella Comunità conformemente al principio di un'economia di mercato aperta e in
libera concorrenza”.
5.4. Lo stesso orientamento si era
fatto strada negli studi di diritto costituzionale con la svolta del Convegno AIC del 1991 nel
corso della quale spiccavano le relazioni di G. Amato e di G. Bognetti aventi ad oggetto
la “costituzione economica”. Entrambi gli studiosi, infatti, erano pervenuti ad
un esito volto a giustificare una presunta centralità
costituzionale del mercato [21].
5.5 Poste tali premesse assurte ad autentici dogmi,
riduzioni in materia pensionistica [22],
“necessità di influire sull’andamento tendenziale
della spesa previdenziale al fine di stabilizzare il rapporto tra di essa e il
PIL” [23], blocco
della rivalutazione delle pensioni fondato sulla “più complessa manovra correttiva posta in essere di volta in volta dal
Parlamento, nel quadro degli equilibri di bilancio…” [24], ragionevole bilanciamento “dinamico” di
valori ed istanze contrastanti con riferimento alla dimensione economica [25] sono diventati un martellante refrain sempre all’insegna della sottoprotezione dei dirittisociali, riflesso di una cultura sempre più orientata ad additare acriticamente
il Welfare come “causa” della spesa pubblica (ritenuta per definizione sempre
eccessiva) e quindi, della “crisi” permanente [26].
Di recente, ed a seguito della modifica dell’art. 81 Cost., con la sentenza n. 10/2015
(anticipata dalla pronuncia n. 88/2014), la Corte Costituzionale ha promosso il c.d. pareggio
di bilancio da limite esterno, utilizzato in sede di bilanciamento, a vero e
proprio vincolo (e norma, agli effetti pratici, alla pari con quelle "supreme" della stessa Costituzione) cui le proprie decisioni devono ritenersi addirittura soggette.
6. Non bisognerebbe, peraltro,
entusiasmarsi troppo per alcune formule utilizzate dal giudice costituzionale al
fine di dimostrare che una tutela dei diritti sociali (e fondamentali tout court), al fondo, debba pur sempre essere
garantita. Formule che, forse pregevoli nelle intenzioni, si sono rivelate però
sterili all’atto pratico e sintomo di una battaglia di retroguardia.
Ci si riferisce da un lato al concetto di tutela dei diritti sociali nel
loro nucleo essenziale considerato
come irrinunciabile e, dall’altro, alla c.d. teoria dei controlimiti.
La ratio nonché la funzione
della formale nonché (ad oggi) apparente “endiadi garantista” sono identiche e quantomeno
coevo è “stranamente” il loro conio, seppur in contesti istituzionali non
ancora del tutto definiti come quelli attuali.
6.1 Quanto alla tutela del nucleo essenziale del diritto [27], sussistono infatti enormi
incertezze circa l’individuazione dei casi in cui ricorre una violazione di
tale principio, dal momento che la Corte non
ha mai specificato in concreto (né mai, si ritiene, avrebbe potuto farlo prendendo
le mosse da un ragionamento “atomistico”) quale sia il contenuto minimo della
situazione giuridica protetta.
Al
riguardo, si può concordare con la dottrina (Modugno) sul fatto che “… se la enucleazione del contenuto essenziale delle disposizioni
costituzionali … è opera soprattutto, ma non solo, della giurisprudenza
costituzionale, si potrebbe ritenere che essa rientri in genere nell’operazione
di interpretazione degli enunciati normativi e di ricostruzione delle norme.
Persiste tuttavia una notevole differenza…L’operazione ermeneutica è rivolta a
cogliere il significato essenziale degli enunciati costituzionali; ma il
giudizio che fa assorgere quest’ultimo a principio supremo è un giudizio
qualificativo e valutativo che va oltre la semplice interpretazione, è prodotto
di un intuitus mentis. Non v’è dubbio che nella enucleazione del “contenuto
essenziale” di un enunciato costituzionale si ha una riduzione del suo
contenuto semantico. Ma l’enucleazione di questo contenuto essenziale non si
esaurisce in tale riduzione, ma presuppone un articolato processo di
costruzione …” [28].
Difatti,
con l’ancoraggio della tutela nei limiti del nucleo essenziale, non rappresentando
quest’ultimo qualcosa di predeterminato, si corre il pericolo che lo stesso vada
determinato di volta in volta dalla Corte persino oltre i propri compiti
interpretativi, tanto da poter essere l’irragionevolezza - tecnico-economica, dando la "teoria" per scontata e acquisita, e nonostante le evidenze della scienza economica sui limiti di tale "teoria"- dello stesso bilanciamento cui il
giudice partecipa, a poter cagionare la lesione dello stesso contenuto
essenziale che si vorrebbe costituzionalmente garantire [29].
Ancor
più chiaramente, sul versante della (forse inconsapevole) assunzione di responsabilità della Corte in ordine alla validità di teoria economiche controverse e soggette a profonde critiche che percorrono l'intero arco della storia della scienza economica:
“… il bilanciamento della Corte non può che risolversi essenzialmente, anzi esclusivamente, in una valutazione della situazione economica presente e in una previsione di quella futura: un bilanciamento quindi decisamente orientato da considerazioni di “fatto”, anziché da canoni di controllo “tipizzati”. E dunque sensibilmente lontano dall'essere ben temperato...” (O. Chessa) [30]. Insomma, al fondo, da considerazioni prettamente di carattere politico.
ADDENDUM: Sorge anzi una domanda: ha mai la Corte verificato le previsioni contenute nei "titoli" delle leggi di "bilanciamento" sacrificale dei diritti fondamentali (previsioni enunciate di crescita, di "risanamento fiscale", di sostenibilità dei limiti di indebitamento da parte del sistema sociale e industriale) - e pertanto l'attendibilità delle proprie affermazioni- nella loro inesattezza reiterata rivelata dal PIL e dagli stessi conti dello Stato?
Si è mai posta il problema dell'ormai conclamato fallimento delle politiche di "austerità" predicate da decenni ed accompagnate dalla sistematica contraddizione di un rapporto debito pubblico/PIL che si accresce con l'intensificazione di questi "risanamenti" e di queste "riforme" dovute alla fedeltà agli impegni presi con l'Unione €uropea?
Non scorge il parallelismo tra quanto accade in Italia e gli esiti dei "salvataggi" che si svolgono in Grecia, condotti con la stessa "ideologia" economica che è ostinatamente applicata in Italia?
“… il bilanciamento della Corte non può che risolversi essenzialmente, anzi esclusivamente, in una valutazione della situazione economica presente e in una previsione di quella futura: un bilanciamento quindi decisamente orientato da considerazioni di “fatto”, anziché da canoni di controllo “tipizzati”. E dunque sensibilmente lontano dall'essere ben temperato...” (O. Chessa) [30]. Insomma, al fondo, da considerazioni prettamente di carattere politico.
ADDENDUM: Sorge anzi una domanda: ha mai la Corte verificato le previsioni contenute nei "titoli" delle leggi di "bilanciamento" sacrificale dei diritti fondamentali (previsioni enunciate di crescita, di "risanamento fiscale", di sostenibilità dei limiti di indebitamento da parte del sistema sociale e industriale) - e pertanto l'attendibilità delle proprie affermazioni- nella loro inesattezza reiterata rivelata dal PIL e dagli stessi conti dello Stato?
Si è mai posta il problema dell'ormai conclamato fallimento delle politiche di "austerità" predicate da decenni ed accompagnate dalla sistematica contraddizione di un rapporto debito pubblico/PIL che si accresce con l'intensificazione di questi "risanamenti" e di queste "riforme" dovute alla fedeltà agli impegni presi con l'Unione €uropea?
Non scorge il parallelismo tra quanto accade in Italia e gli esiti dei "salvataggi" che si svolgono in Grecia, condotti con la stessa "ideologia" economica che è ostinatamente applicata in Italia?
6.2 Quanto invece al secondo corno della
citata endiadi garantista, è noto che, una volta spalancata la porta dell’art. 11 Cost. alle
“termìti comunitarie” [31] mediante l’ormai tralaticia affermazione del c.d. primato del diritto comunitario su
quello nazionale [32], l’esigenza
delle Corti Costituzionali di delimitare i rapporti con la Corte di Giustizia
Europea si è fatta via via più pressante.
Dal
canto suo, la Corte costituzionale italiana con la sentenza n. 183/1973
(nota come sentenza Frontini) ha
rivendicato a sé il compito di verificare la compatibilità del diritto
comunitario con i principi fondamentali dell'ordinamento italiano e con i
principi inalienabili della persona umana. La pronuncia, tuttavia, è stata
foriera anche di un clamoroso e stratificato equivoco (v. infra) dal quale non poche conseguenze
ne sarebbero purtroppo derivate a danno della nostra sovranità popolare.
Si
tratta, in sostanza, di una pronuncia il cui principio può dirsi ormai
consolidato [33] e che si ricollega
a quella che è stata definita appunto teoria
dei controlimiti, per indicare la frontiera invalicabile oltre la quale
non potrebbe spingersi il processo di integrazione del nostro ordinamento in
quello comunitario (muovendo dalla strana ipotesi, dal punto di vista squisitamente macroeconomico, che i "rapporti economici" siano un mondo magicamente separato dai "rapporti etico-sociali, civili e politici"!). La Consulta ha ammesso (troppo a cuor leggero) la
prevalenza dell’ordinamento comunitario su quello statale, a patto che quest’ultimo
non violi i principi fondamentali e i diritti inalienabili garantiti dalla
Costituzione italiana.
Tuttavia,
anche con riferimento a detta teoria, ancor più che per la problematica del contenuto
essenziale dei diritti fondamentali, di fronte alla gravissima compressione di
sovranità democratica subita dal Popolo italiano a causa degli ingravescenti vincoli
europei, i principi enunciati si arrestano alla pura forma: una teoria, così
come storicamente elaborata, che per Massimo Luciani sarebbe “… bella da enunciare, ma difficile… da applicare…”, in breve “una sorta di arma finale, che c’è per non essere mai
utilizzata” [34].
Articolo favoloso. Meriterebbe di essere dato alle stampe.
RispondiEliminaComplimenti all'autore.
M.
Sì ma "quali" stampe?
EliminaDi certo, in questa sede sarà letto da molte più persone, appartenenti a diversi ambienti e livelli "culturali", rispetto a qualsiasi altra forma di pubblicazione di tipo ufficialmente scientifico (cioè classificato...et transeat).
Quanto ai grandi media, mi parrebbe impensabile, per le ragioni tante volte esposte: il tacchino non si mette in forno da solo (tranne che non sia un elettore italiano frastornato dalla grancassa mediatica. Appunto).
Grazie, Francesco.
RispondiEliminaDirei che Lelio Basso sullo storico ruolo reazionario della Corte Costituzionale è definitivo.
Possiamo forse desumere un'incompatibilità strutturale tra il parlamentarismo di genesi liberale con il secondo comma del terzo articolo?
Proprio definitivo non si può dire: dato che Basso come giurista e attento osservatore potè anche assistere a una certa evoluzione della giurisprudenza costituzionale. Che condusse ad una significativa apertura proprio sul punto da lui criticato nel 1955, cioè sui "titoli" del legittimo diritto di sciopero (aperture peraltro riviste in senso restrittivo dal legislatore negli ultimi anni).
EliminaSe poi l'istituto delle "corti costituzionali" in sè abbia funzione sempre "nettamente conservatrice" è questione argomentabile e piuttosto complessa: sono delle forme avanzate di garanzia, tipicamente a presidio di democrazie che si pongono il problema del limite intrinseco del gioco elettorale e della formazione delle maggioranza. In tal senso indispensabili per la democrazia sostanziale.
Ma sono al tempo stesso "al livello" del gioco degli interessi politici, tipicamente espressi nella legislazione.
E questo porta infiniti problemi che sono connessi alla matrice squisitamente politica delle nomine: una soluzione non inevitabile (e che risente, in parte qua, dell'influenza dei sistemi di nomina delle democrazie "liberali" anglosassoni. Cioè un non completo sganciamento genetico del giudice dal "monarca", legiferante e governante in proprio nome).
Nel caso di una Costituzione così avanzata come la nostra, non paradossalmente, una funzione "conservatrice" (non "reazionaria") sarebbe addirittura benvenuta in linea logico-istituzionale: il problema è stato qui l'opposto, cioè la funzione adeguatrice e evolutiva è stata condotta in base a considerazioni di fatto (da "intuitus mentis", più che indicazioni testuali e sistematiche della Carta), in un quadro di "novità" costituito dalla enorme pressione dei principi espressi via via dai trattati.
Insomma, il problema è l'aderenza all'art.11 Cost., quale concepito nei lavori preparatori della Costituente, unito alla normale tendenza dei giuristi a non padroneggiare i principi economici se non "per sentito dire" del mainstream politico di volta in volta dominante.
Rammento al riguardo le parole di Barcellona citate da Arturo e riportate ne "La Costituzione nella palude":
"quando il potere è saldamente in mano alle potenti lobby degli affari e della finanza, dei circoli mediatici e della manipolazione delle informazioni, i giuristi si abbandonano al cosmopolitismo umanitario e si arruolano nel "grande partito" delle buone intenzioni e delle buone maniere; magari fornendo una inconsapevole legittimazione al mantenimento dello stato di cose esistenti".
NON SONO UN GIURISTA MA ..
EliminaIntrigante l'esposizione documentale di Francesco che focalizza il ruolo storico della Corte Costituzionale nel Bel Paese che – non dimentichiamo – ha eletto il “luigino” primo presidente effettivo della nascente Repubblica che - oltre la nomina a senatore a vita di Trilussa e quella di Toscanini, che ne rinunciò la carica – nella scrupolosa osservanza di tutte le istituzioni ha determinato qualche paradosssale problema ad “una Costituzione così avanzata come la Nostra” quale – solo un esempio – l'inaugurazione dei “GOVERNI DEL PRESIDENTE” di Giuseppe Pella, allevato a liberismo e monetarismo, nel 1953 di trasversale unità nazionale.
Saranno forse stati gli ingenui ed evangelici sentimenti di assoluzione e redenzione espressi da qualche dossettiano nei passi verso l'urna e nelle votazioni parlamentari ..
Ai posteri quale sentenza poco oltre la celebrativa titolazione toponomastica di strade e piazze e di qualche istituto scolastico a eminenti statisti.
Ma una domanda sgorga selvaggia: come può una Costituzione, ripeto, così avanza come la Nostra - e mi viene da aggiungere profondamente economica - essere amministrata, coltivata, applicata da cittadini che tutto conoscono tranne l'abecedario algebrico dell'economia e in primis la “teoria dell'indipendenza delle banche centrali”?
Risposta superflua, come i peli tranne quelli che dovrebbero stare sulla testa, con la potente arma della zia T.I.N.A.
Tiremm innanz !!
La domanda è legittima.
EliminaIn realtà non è la "non conoscenza" dei principi economico-scientifici il problema, ma la loro accettazione, implicita e mai verificata, secondo un'unica "scuola" di pensiero.
In realtà, - come dimostrano gli scritti di Luciani e, a suo tempo, Giannini e Mortati, ovviamente Basso, in seguito Guarino (per citare i più eminenti)-, volendo attenersi ai canoni interpretativi giuridici rigorosamente "normali", le soluzioni ottenibili sarebbero, e sono, ben altre e più aderenti alla visione chiaramente espressa dai Costituenti.
A cominciare dalla natura meramente enfatica dell'effettività del diritto al lavoro, escludendo l'esistenza di un obbligo di politiche di pieno impiego.
La riprova? Le dichiarazioni di Carli degli anni '70.
Persino un economista che più istituzionale non si può, poi divenuto il formulatore del "vincolo esterno", si rendeva conto che cambiare il concetto di moneta e teorizzare la "scarsità di risorse" (quello che Ciampi chiamerà "statuto monetario" e gli ordoliberisti direttamente "ordine"), avrebbe innescato "un meccanismo che tenda a relegare verso il fondo della scala gli obiettivi dello sviluppo e della piena occupazione, cioè ad invertire le scelte accettate dalla generalità dei popoli e dei governi in questo dopoguerra".
Il che è un clamoroso paradosso giuridico, ma NON politico.
Alla Corte,composta di giuristi che conoscevano quale fosse la volontà dei costituenti e quindi l' interpretazione autentica della Costituzione ,è mancato " il rispetto e la fedeltà alle istituzioni che si manifesta attraverso il dissenso""importante per il progresso dell' Umanità" .Con una Corte Costituzionale ,che ha agito nel modo descritto nel post,il non poter "fare come" la Germania ,portando all' esame della Corte trattati e provvedimenti sospetti confliggere con la Costituzione,è stata quasi una fortuna :avremmo corso il rischio di aggiungere al danno dei trattati pure la beffa d' una loro "santificazione"tramite una sentenza
RispondiEliminaTragicamente realistico, purtroppo...
EliminaOltre alla citazione di G. Conso, mi pare interessante quella di un altro ex presidente della Corte in relazione ai rapporti tra costituzionalismo e democrazia:
RispondiElimina“Un equivalente del ‘colpo di Stato’ si verificherebbe se i giudici pretendessero di imporre un proprio indirizzo politico o se gli organi di garanzia non adottassero il metodo del bilanciamenti dei valori e dei principi corrispondenti e dessero tutela illimitata ad uno di essi . Invece della ‘tirannia della maggioranza’, si affermerebbe il ‘governo dei guardiani’ o la ‘tirannia dei valori’, ugualmente in contrasto con l’essenza del costituzionalismo…” [G. SILVESTRI, Popolo, populismo e sovranità. Riflessioni su alcuni aspetti dei rapporti tra costituzionalismo e democrazia, in Scritti in onore di Lorenza Carlassare, a cura di G. Brunelli, A. Pugiotto, P. Veronesi, Napoli, 2009, 1998].
Il discorso mi pare che faccia il paio con l’osannato pluralismo sezionalista, anticamera del relativismo.
L’essenza del costituzionalismo (art. 3, comma II, Cost.) non potrebbe essere più chiaro. Eppure si parla di “governo dei guardiani” con riferimento al ruolo della Corte e addirittura di “tirannia dei valori”. Sul punto, mi pare che Bazaar si sia espresso…
La citazione mi sembra un buon viatico per il prosieguo
Purtroppo mi pare escano pienamente confermate le osservazioni di Andreoni, ossia da un lato la presunta scarsezza delle risorse, che sarebbe “il presupposto fattuale del bilanciamento” (A. Giorgis, La costituzionalizzazione dei diritti all’uguaglianza sostanziale, Jovene, Napoli, 1999, p. 171), non viene accertata, tanto meno con una qualche attività istruttoria; dall'altro il bilanciamento non viene compiuto.
RispondiEliminaSemplicemente, quando il legislatore gioca questo jolly, “nulla di preciso aggiunge la Corte su come vadano individuate ed apprezzate le esigenze finanziarie. Esse possono essere tanto “generali”, riferite cioè al bilancio dello Stato, che “particolari”, condizionate dalle dotazioni delle singole strutture amministrative. Qualche accenno alla regola della copertura finanziaria, oppure alla “giusta tendenza ad un equilibrio economico-finanziario”, sembra esaurire l’argomento. Il fatto è che la Corte appare del tutto passiva rispetto alle scelte del legislatore, al punto di accreditare una presunzione di legittimità basata sull’ipotesi che tali scelte “hanno presumibilmente tenuto conto delle effettive disponibilità finanziarie delle diverse gestioni e dell’esigenza d’un graduale sviluppo del sistema previdenziale ce ne garantisca la copertura”. […]
“Gradualità” e “esigenze di bilancio” non sono dunque test di giudizio ma, tutto all’opposto, valgono da giustificazioni stereotipate delle scelte che il legislatore può compire: il richiamarle serve di solito alla Corte per chiudere il giudizio, con una formula che fa salvo l’uso, da parte del legislatore, di un margine di discrezionalità particolarmente ampio nel determinare l’erogazione delle prestazioni pubbliche”. (R. Bin, Diritti e argomenti, Giuffrè, Milano, 1992, pagg. 111-12).
Insomma, mi pare siamo davanti a un fiat autoritario, una dichiarazione di stato di eccezione, che la Corte non intende sostanzialmente discutere. La cosa curiosa è che anche la dottrina che in pratica ne condivide le soluzioni denuncia questa prassi, con l’illusione che siano separabili. Poi vengono ad agitare lo spettro di Schmitt in relazione alla Brexit. Ah, già, ma ora ci sono il nuovo art. 81 e il “rispetto dei vincoli europei” a esorcizzare certi demoni. A crederci.
Un ringraziamento a Francesco anche in previsione della seconda parte. :-)
Grazie per aver segnalato "anche" Bin (ma sempre del 1992: poi ha firmato per il sì http://www.ilfoglio.it/politica/2016/05/24/news/professori-e-costituzionalisti-tutti-i-184-nomi-che-hanno-firmato-il-manifesto-del-si-alle-riforme-96478/)
EliminaGrazie a te Arturo. In effetti Bin non l'ho nemmeno considerato date le sue attuali posizioni.
EliminaUn nutrito gruppo di costituzionalisti (il discorso vale anche per gli economisti), tra cui si potrebbe - come sappiamo - annoverare anche Zagrebelsky, da un certo momento in poi hanno subito un qualche strano shock qualificato dal Presidente come "strabismo".
Potenza del liberismo
A onor del vero "l'eurostrabismo" è anch'esso un contributo concettuale-sintetico dovuto allo stesso Arturo e da me riportato senza il relativo link in questo post:
Eliminahttp://orizzonte48.blogspot.it/2014/07/napoli-11-luglio-2014-riscossa-italiana.html
Forse Arturo, l'impareggiabile filologo, può ritrovare l'originale più "efficientemente" di me all'interno del blog...
Et voilà. ;-)
EliminaAllora a Cesare quel che è di Cesare :-)
RispondiEliminaIn merito ai "controlimiti", mi permetto di segnalare il commento di Francesco Farri sulla recente ordinanza n. 24 del 26 gennaio 2017 della Corte Costituzionale:
RispondiEliminahttp://www.rivistadirittotributario.it/2017/02/06/principi-supremi-dellordinamento-italiano-prevalgono-sul-diritto-europeo-dalla-corte-costituzionale-italiana-pronuncia-storica-sulla-effettivita-dei-controlimiti/
Naturalmente, chiedo scusa in anticipo se sono troppo "fuori tema" o se per caso dell'ordinanza in questione si è già discusso in altro post.
Buonasera, sono uno studente di economia e seguo solo da poco il suo lavoro, due ottimi motivi per cui posso già premettere che la domanda che le farò é alquanto dilettantesca, ma ho già divorato molti dei suoi articoli e video sulla rete e la ringrazio preventivamente per il prezioso lavoro di Informazione (maiuscolo non casuale) che fa. Mi sono appunto, nel mio autonomo approfondimento in ambito economico, addentrato nella questione euro ed Europa. L'approfondimento economico mi ha anche portato inevitabilmente, dopo aver maturato l'idea che le istituzioni e le convenzioni sono elementi definitori di un sistema economico, a sentire un bisogno di guardare al lato giuridico della faccenda. Nel caso del tema Europa questo significava leggere i trattati e cercare di capirli. Insomma mi sono imbattuto tramite il blog di Bagnai nel suo, e l'ho sentita sostenere in modo preciso i vizi di illegittimità costituzionale dei trattati, alla luce dei principi fondamentali e del loro intento social- keynesiano, così come desumibile dai lavori della costituente. Personalmente credo che, una volta stabilito tramite tali fonti quello che era il significato reale degli articoli fondamentalissimi, il resto venga da se in modo intuitivo per chiunque riconosco la natura mercatista di questa Europa. Il punto su cui sono confuso quindi é in un certo senso secondario: i trattati europei vanno considerati diritto internazionale o diritto interno? Ero sicuro di aver letto in un suo articolo (che pensavo fosse questo) che la risposta é la seconda, il che per me avrebbe avvalorato ulteriormente l'idea che i trattati avrebbero dovuto essere sottoposti a verifica costituzionale prima di essere firmati. Ma poi ieri ascoltando una sua conferenza mi é sembrato di capire che la risposta é la prima. Probabilmente ho capito male la prima volta. Al di la di ciò che credevo di aver letto il dubbio nasce dal fatto che, se sembra ovvio che formalmente un trattato tra paesi sovrani non può che essere un accordo internazionale, dall'altro lato c'è il fatto che in questo caso si é costituita una comunità che almeno in teoria dovrebbe funzionare come un ente unitario (anche se poi lei ci ha spiegato bene che a livello giuridico non é assolutamente ciò che i trattati prevedono), il che farebbe automaticamente rientrare la firma del trattato in un atto di rilevanza interna, in un certo senso come se fosse una legge interna si potrebbe pensare, specialmente perché si tratta di trattati esplicitamente sovraordinati alle costituzioni. Insomma, da pagano del diritto, la creazione di una comunità non mi sembra proprio la stessa cosa di firmare l'abolizione di un dazio, un trattato internazionale credo che non dovrebbe mai essere sufficiente a modificare la costituzione (non so se storicamente é mai accaduto prima), solo una legge costituzionale nazionale potrebbe, anche se sempre con il benestare della corte. Anche perché una domanda, forse sciocca, che mi pongo é: che bisogno c'era altrimenti di una corte di giustizia europea, diversa dalla corte internazionale?. Voglio dire che, anche se quelli europei sono trattati internazionali, il fatto stesso di avere un organo giurisdizionale distinto a me fa pensare che si intende far vivere il diritto europeo come qualcosa di separato dal diritto internazionale.Chiarire se i trattati europei sono da considerarsi trattati internazionali o norme "interne" rileva credo per quanto riguarda la questione del famoso referendum. Per il resto é chiaro che dovrebbe essere questione assolutamente irrilevante ai fini dell'applicazione del filtro di costituzionalità: qualsiasi fonte giuridica, interna o internazionale che sia, deve essere compatibile (in modo sostanziale, non formale) coi valori fondamentali della costituzione; possiamo pure impazzire e decidere che adesso ci piace il liberismo, ma se davvero sono questi i valori che i cittadini abbracciano dobbiamo fare comunque una nuova assemblea costituente, eletta con proporzionale puro.
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