Del lavoro di Arturo e Bazaar vi rammento le prime due puntate, che consentono di seguire il discorso in tutta la sua ricchezza e necessaria continuità:
Questa terza puntata ci consente di comprendere, nella sua matrice storica statunitense, il fondamento e gli scopi del federalismo "reale".
Come vedrete, le giustificazioni e il funzionamento di tale formula organizzativa della comunità politica sono sempre strettamente imparentati con quelli che Hayek pone alla base della (auspicata...da lui) "costruzione europea". Il problema è sempre quello di limitare la democrazia sostanziale e partecipativa; e il federalismo un modo di risolverlo.
Sempre affermando quel dirigismo dissimulato di un'oligarchia economica che "sa", curiosamente, quali siano gli interessi del popolo (cui nega la capacità di autodeterminarsi). E dunque, il bersaglio principale di ogni forma di federalismo nell'era contemporanea è invariabilmente la sovranità costituzionale democratica; in nome della paradossale libertà...(dei pochi).
http://www.globalresearch.ca/its-official-scientific-study-shows-that-the-u-s-is-an-oligarchy-not-a-democracy/5377987
La puntata precedente ha
avuto come obiettivo chiarire un punto: l’internazionalismo
dell’indistinto non può rivendicare nessuna “scontata” continuità con la
tradizione del socialismo. Anzi, perfino gli esponenti apparentemente più
“antinazionali”, come i marxisti, erano fautori dell’indipendenza nazionale
come momento essenziale di emancipazione del lavoro. (Prevengo una possibile
obiezione: sono stati ignorati gli anarchici. È vero, ma non ci pare siano in
molti a sostenere il “sogno europeo” in nome dell’anarchismo…).
Proviamo ora ad
affrontare la questione nazionale attraverso autori di segno ideologico
diverso.
1.
Da destra
Lasciamo la
parola a Carl Schmitt (Dottrina della costituzione, Milano, Giuffrè, 1984,
pagg. 75-76 e 114):
«Il potere costituente presuppone il popolo
come un'entità politicamente esistente; la parole "nazione"
indica in senso pregnante un popolo capace di agire, destatosi alla coscienza
politica. Storicamente si può dire che queste fondamentali raffigurazioni
dell'unità politica e della compiutezza nazionale sono sorte sul continente
europeo come conseguenza della compiutezza politica della monarchia assoluta,
mentre in Inghilterra il costante sviluppo di una formazione medievale
all'unità nazionale fu reso possibile per il fatto che "la posizione
insulare faceva le veci di una costituzione"»
Ancora più chiaramente:
“Nazione e
popolo sono spesso trattati come concetti aventi eguale significato, tuttavia
la parola ≪ nazione ≫ è più pregnante e meno equivoca. Essa indica cioè
il popolo come unità capace di agire politicamente con la consapevolezza
della sua peculiarità politica e con la volontà di un’esistenza politica,
mentre il popolo che non esiste come nazione è soltanto una qualunque unione di
uomini affine etnicamente o culturalmente, ma che non necessariamente esiste
politicamente. La teoria del potere costituente del popolo presuppone la
consapevole volontà di avere un’esistenza politica, ossia una nazione.”
Ovvero per
Schmitt esiste un legame diretto fra nazione e democrazia: la prima presuppone
la possibilità di esercitare un potere costituente di contenuto democratico.
Certo,
Schmitt è un autore molto lontano da Marx ed Engels, ma, a guardar bene, il
giurista di Plettenberg sta esprimendo un concetto di indipendenza nazionale
molto diverso da quello avanzato da loro?
Una curiosa
assonanza con le posizioni schmittiane la troviamo nel pensiero federalista.
Apriamo Mario
Albertini, successore di Spinelli alla guida del Movimento Federalista
Europeo e, a differenza di quest’ultimo, studioso (filosofo della politica) professionista.
Vediamo un po’ cosa ha da dirci su Stato e nazione:
“Da questo punto di vista possiamo affermare che
tra il secolo tredicesimo ed il secolo diciottesimo in alcuni paesi d’Europa l’evoluzione
della situazione di potere estese i rapporti di comando e di obbedienza a
gruppi i cui confini territoriali coincidono press’a poco con gli attuali
confini nazionali, e collegò allo Stato diversi comportamenti umani che
nella loro qualità specifica non hanno carattere politico”
(M. Albertini,
Lo Stato nazionale, Bologna, Il Mulino, 1997[1], pag. 100).
La ricostruzione di una nazione realizzata,
naturalmente non a partire dal nulla!, dall’azione degli Stati coincide con
quella schmittiana. Per essere più chiari, la nazione presa a bersaglio dai
federalisti non è un concetto etnico/culturale[2],
ma politico. Un punto di vista che,
esclusivamente sotto il profilo storico, ci pare fondato e che ha il pregio di
sottolineare, come Albertini fa a più riprese, il peso che ha riversato su
fette non piccole di popolazione questo processo di acculturazione dall’alto;
al prezzo si è però accompagnato un fondamentale guadagno, che lo stesso
Albertini, in termini in fondo non molto diversi da Schmitt, non intende
nascondere: la nazionalizzazione della vita statale ha prodotto “una situazione
di potere che tendeva a portare al primo posto nella scala dei valori politici tutto il gruppo, e non più i ceti
tradizionalmente dominanti […]” (op. cit., pag. 119).
Naturalmente,
sia ben chiaro, in una prima fase la funzione della sovranità nazionale fu di
sterilizzare quanto più possibile il concreto ruolo del popolo quale fondamento
del potere, relegandolo a una dimensione puramente
simbolica[3], che però costituisce il prius logico
e fattuale di un suo possibile ruolo
reale.
Apriamo un
classico come Vezio Crisafulli (La
sovranità popolare nella Costituzione, pubblicato in Rass. Giuliana di dir. e
giurispr., 1954 e in Studi in onore di Vittorio Emanuele Orlando, Padova, 1955,
ora in Stato, popolo, governo. Illusioni e delusioni costituzionali, Milano,
Giuffrè, 1985, pag. 97):
“Ma, a
nostro avviso, la vera differenza storica tra i due tipi di Stato [quello assoluto e quello successivo alla Rivoluzione
francese, che Crisafulli chiama “moderno”]
è data proprio dal fatto che, nello Stato moderno, la persona statale appare
come espressione, rappresentante, strumento
(adopero deliberatamente, per ora, termini generici e tra loro diversi) del popolo o della nazione. O in altri
termini, che, modernamente, sovrano diventa il popolo, e sia pure poi, concretamente,
una parte, anche ristretta, di esso, una determinata classe, la quale
peraltro tende a porre sé medesima —
almeno nominalmente — come
identica con il popolo tutto intero ed in nome di questo e della sovranità
popolare giustifica il proprio dominio politico.
Qui sta il senso profondo della rivoluzione segnata
dal passaggio allo Stato moderno, e non nella semplice circostanza formale
della sostituzione ad un soggetto sovrano, persona fisica, di un astratto
soggetto sovrano, persona giuridica.”
Scopriamo quindi
un pensiero federalista amico delle nazioni? Niente affatto, ovviamente. Riprendiamo
con Albertini (op. cit., pag. 141):
“Quando tutti i cittadini partecipano alla vita nazionale, ed un
numero sufficiente di attività umane importanti cadono sotto la competenza
dello Stato, l’interesse del gruppo considerato come bene supremo diventa per
tutti il criterio per giudicare tali attività (che legano anche psicologicamente
il cittadino alla nazione).
In tal caso queste attività non vengono più
giudicate soltanto per il loro valore specifico – ad esempio l ’attività
economica in termini esclusivamente economici – ma vengono valutate anche per i
servizi che possono rendere alla nazione, ossia per il loro valore nazionale. E
non basta.
In caso di conflitto tra il valore specifico di una certa attività,
ed il valore nazionale, il valore nazionale prevale (si manterranno ad
esempio mediante il protezionismo aziende non competitive ma necessarie per la
sicurezza o la gloria della nazione). Nella misura in cui lo Stato aumenta le
sue competenze, cresce il numero delle attività umane cui si applica tale scala
di valori."
Questo
passaggio risulta abbastanza strano.
A parte che non si capisce che cosa
sarebbe una valutazione “in termini esclusivamente economici” (capiamo solo che
sarà sganciata da interessi e valori collettivi), si sostiene che, quale che
sia la distribuzione del potere all’interno dello Stato nazionale, saranno
sempre i medesimi contenuti politici, bellicisti e minacciosi, a prevalere.
Come se gli artt. 3 e 11 della Costituzione e l’Impero
sui colli fatali fossero la stessa cosa.
Insomma, secondo tale visione, se
svolti in ambito nazionale totalitarismo e democrazia si equivalgono;
anzi, la seconda sembra risultare perfino più minacciosa quanto più la concreta
partecipazione dei cittadini alla vita nazionale, quella che Basso chiamava “socializzazione del potere”, si
diffonde. Stando ad Albertini, almeno, perché ho paura che di storici pronti a
sottoscrivere questa tesi strampalata sarebbe difficile riuscire a trovarne
qualcuno.
Soprattutto
queste considerazioni aprono a una serie di domande abbastanza inevitabili.
A meno che i federalisti considerino una contingenza occasionale, come dice
(sarcasticamente) Preterossi,
il nesso Stato-nazione-democrazia,
o si mostrino disponibili a pazientare per tempi dalla lunghezza
imprevedibile perché i popoli europei si avvicinino attraverso scelte
democratiche (visto però che Albertini, come ci
ricorda Castaldi, è stato il teorico di una moneta senza Stato quale volano
per l’unificazione[4],
la pazienza non sembra essere il suo forte), i nostri amici federalisti
europeisti dovrebbero rispondere ad alcune domande, fra cui le più urgenti mi sembrano
queste: pensano di intraprendere un’acculturazione dall’alto, cioè fare un
popolo europeo a colpi di regolamenti e di trattati?
Noi avremmo pensato che
simili metodi, oltre che poco propizi al mantenimento della pace in Europa, non
siano più accettabili oggi, però chissà: chiariscano.
O pensano
piuttosto a uno Stato senza nazione, cioè senza popolo?
O, sempre
meglio!, a un non-Stato senza popolo,
come in pratica propone Barroso,
cioè puramente e semplicemente all’ordine internazionale dei mercati? Se
di fatto è quest’ultima la
soluzione che si sta imponendo, vediamo come Albertini risolveva quella che
a questo punto è diventata una questione davvero enigmatica: quella della democrazia.
Bisogna
cercare bene, perché, oltre a quanto riportato, non è che dica granché: la sua
preoccupazione è la tutela della libertà individuale; di democrazia non
parla, se non per attaccarla (naturalmente attraverso il filtro della nazione:
certe cose non si potevano dire. Non ancora). L’unica pagina propositiva arriva
a fine libro (pag. 216). Eccola qui:
“Pochi europei si resero conto dell’importanza
delle istituzioni nate nel 1788 nell’America
del Nord. In genere gli europei non avevano compreso che era stato
collaudato un mezzo di governo capace di mantenere un potere politico democratico unitario su uno spazio molto più vasto di quello delle nazioni europee,
e di conciliare istituzionalmente l’unità con la diversità”.
Sopra ho
parlato di stranezza. Questo passo ne apre un intero filone. Sia chiaro, non per
l’ammirazione verso la
Costituzione americana. Questo è anzi un Leitmotiv di tutto
il pensiero federalista europeo. Basti citare il buon Spinelli (Il lungo monologo, Roma, Ateneo, 1968, pag. 135):
“Poiché
andavo cercando chiarezza e precisione di pensiero, la mia attenzione non è
stata attratta dal fumoso, contorto e assai poco coerente federalismo
ideologico di tipo proudhoniano o mazziniano che allignava in Francia o in
Italia, ma dal pensiero pulito, preciso e antidottrinario dei federalisti
inglesi del decennio precedente la guerra, i quali proponevano di trapiantare
in Europa la grande esperienza politica americana”
No, la
stranezza sta nella proposta in sé.
La
prima stranezza è ovvia, ed è l’assurdità del modello rispetto alla
situazione europea. Lo notava già un osservatore simpatetico come Bobbio nella
sua introduzione al Manifesto di Ventotene (Torino, Celid, 2001, pagg. XXV e
ss.):
“Il problema del superamento del vecchio Stato
nazionale in un nuovo Stato non più nazionale era, invece, una novità quasi
assoluta: uno dei pochi precedenti che si potevano invocare, quello della
formazione degli Stati Uniti d’America, era avvenuto tra gente dalle comuni
origini e dalla stessa lingua, e in una situazione storica così diversa da
essere incomparabile.”
Per essere più
chiari, in ragione dell’omogeneità culturale di cui gli USA godevano, e che i
paesi europei sono ben lungi dal condividere, la proposta della Costituzione
americana appare lo scenario democraticamente più roseo che i federalisti hanno
da proporci. Certo, per i lettori regolari del blog, memori della
serie di post di Riccardo Seremedi, poi così roseo questo scenario potrebbe
non risultare, ma tant’è.
Seconda
stranezza: ecco che dal banco degli
imputati su cui erano state trascinate tutte le nazioni, una può scendere,
assolta da ogni colpa: quella americana.
Evidentemente c’è nazione e nazione (ce l’hanno già spiegato Marx ed
Engels).
Terza
stranezza: questa meravigliosa
formula conciliatoria e democratica incarnata dalla Costituzione americana
tollerava la schiavitù e non impedì una guerra civile che fece 600.000 morti.
Sembra quasi surreale doverlo far presente, ma tant’è.
Quarta
stranezza: l’idea di unire federalismo e pace mondiale è di Kant, mentre non appartiene certo ai Founding
Fathers, che anzi la pensavamo molto diversamente, come non avevano imbarazzo
ad ammettere nel Federalist.
Vale la pena di citare dal numero 6. A proposito del mito del doux commerce, cioè di una
pace garantita dal libro dispiegarsi dei traffici commerciali, con onesto
realismo l’autore, John Jay, così si esprime (Il
Federalista, Pisa, Nistri Lischi, 1955, pag.
32):
“Ed il
commercio non si è forse, sino ad ora, limitato a creare nuove cause di guerra?
La brama di ricchezze non rappresenta, forse, una passione altrettanto tiranna
e prepotente del desiderio di potenza o di gloria? Non è forse vero, dacché il
commercio è divenuto il fulcro delle nazioni, che le ragioni commerciali
hanno dato l’esca ad un numero di conflitti armati, pari a quello fornito
dalla cupidigia di terre e di dominio? E lo spirito commerciale non ha forse,
in molti casi, fornito nuovi incentivi all’uno e all’altro appetito?”
Altro
che “peace through commerce”, come sostengono i federalisti europei (insieme
all’IBM)! Sentite poi cosa dice il Father della Gran Bretagna (Ivi, pag. 33):
“Il
commercio è stato per secoli l’attività dominante del paese. Purtuttavia, ben
poche nazioni sono state impegnate in più frequenti conflitti; e fu il
popolo stesso, in molti casi, a decidere delle guerre in cui il regno si è
trovato impegnato.”
(Per
“popolo” naturalmente sono da intendere i rappresentati presenti nella Camera
dei comuni).
In
effetti gli USA, da bravi second comers, non erano affatto liberoscambisti
*all’esterno*: gli interessi protezionisti ebbero anzi un ruolo importante
nell’approvazione della Costituzione.
Quanto
alla democraticità della
Costituzione americana, e qui arriviamo alla quinta stranezza, ci
sarebbero parecchie cosette da dire. Bastino le seguenti: i delegati di
Philadelphia erano stati nominati dagli Stati e non eletti, nemmeno a
suffragio maschile ristretto, né avevano un mandato per redigere una
nuova costituzione ma solo per revisionare gli Articles of
Confederation. Gli antifederalisti attaccarono duramente i delegati su
questo punto, che per bocca di Madison
così si giustificarono sul numero 40
del Federalist (Ivi, pag. 270):
“Essa [la Convenzione] avrà
anche certamente riflettuto che in tutti i grandi cambiamenti di forme di
governo ormai stabili, la forma deve cedere il passo alla sostanza, e che, in
quei casi, un rigido rispetto della prima renderebbe vano e privo di
significato il prezioso diritto sovrano del popolo di «abolire o modificare il suo
Governo come gli sembrerà più opportuno per ottenere la propria sicurezza e
felicità» [è una citazione tratta dalla
Dichiarazione di Indipendenza] dal
momento che per il popolo è impossibile adoprarsi spontaneamente e di comune
accordo per raggiungere il proprio scopo; e quindi è indispensabile che
questi cambiamenti siano originati da qualche proposta non formale e non autorizzata, fatta da un
cittadino o da un gruppo di cittadini rispettabili
e patriottici.”
D’altra
parte, il pericolo esterno, e interno, incombono:
“Non
poteva esserle ignoto, che le speranze e l’aspettazione della gran massa dei
cittadini di tutto questo esteso territorio [empire in originale] erano
rivolte, con la più acuta ansia, ai risultati delle sue deliberazioni. Inoltre,
essa aveva tutte le ragioni per credere che sentimenti contrastanti agitassero
profondamente l’animo di tutti i nemici
interni ed esterni della libertà e della prosperità degli Stati Uniti.”
Paese
che vai, "fatepresto" che trovi.
Che
rinfrescante soffio di democrazia! …come, non lo sentite? Dite che tira
piuttosto una certa arietta di paternalismo elitista? In effetti, a guardar
bene…
Almeno
si capisce un po’ meglio da dove saltano fuori alcuni celebri passaggi del Manifesto di Ventotene:
“Il popolo
ha sì alcuni fondamentali bisogni da soddisfa re, ma non sa con precisione
cosa volere e cosa fare. Mille campane suonano alle sue orecchie. Con i
suoi milioni di teste non riesce ad orientarsi, e si disgrega in una quantità
di tendenze in lotta fra loro.
Nel momento in cui occorre la massima decisione e
audacia, i democratici si sentono smarriti, non avendo dietro di sé uno
spontaneo consenso popolare, ma solo un torbido tumultuare di passioni. Pensano
che loro dovere sia di formare quel consenso, e si presentano come predicatori
esortanti, laddove occorrono capi
che guidino sapendo dove arrivare. Perdono le occasioni favorevoli al
consolidamento del nuovo regime, cercando di far funzionare subito organi che
presuppongono una lunga preparazione, e sono adatti ai periodi di relativa
tranquillità; danno ai loro avversari armi di cui quelli poi si valgono per rovesciarli;
rappresentano insomma, nelle loro mille tendenze, non già la volontà di
rinnovamento, ma le confuse velleità regnanti in tutte le menti, che,
paralizzandosi a vicenda, preparano il terreno propizio allo sviluppo della
reazione. La metodologia politica
democratica sarà un peso morto nella crisi rivoluzionaria.”
Come
sia possibile che personaggi legati a questa tradizione di pensiero e prassi
vengano a dar lezioni di democrazia, cioè di un pratica in cui palesemente non
credono affatto, risulta abbastanza misterioso.
Per
tornare alla storia americana, certo, la Costituzione fu
approvata da assemblee statali elette ad hoc. Con quali tempi, serenità di
dibattito e partecipazione, è un argomento molto interessante che posso solo
accennare: mi limiterò a riportare la conclusione di Charles
Beard (op. cit., pag. 250), che ha esaminato tutti i dati disponibili
all’epoca (e non è che studi successivi li abbiano modificati
significativamente):
“[…] sembra una stima prudente affermare
che non più del 5% dell’intera
popolazione in generale, o, in termini numerici approssimativi, 160.000
votanti, espressero la loro opinione in un modo o nell’altro sulla
Costituzione. In altre parole, è molto probabile che non più di un quarto o di
un quinto dei maschi bianchi adulti abbia preso parte all’elezione dei delegati
alle convention statali [chiamate a
ratificare la Costituzione]. Se mai, questa stima è per eccesso”.
A
questo punto l’accumulo di non sequitur
avrà prodotto un certo smarrimento nel povero lettore: la nazione
(americana), eccola lì; la democraticità, insomma, stendiamo un velo pietoso; la
pace, chi l’ha vista…si può sapere quale sarebbe il pregio di questa
Costituzione americana che la rende così appetibile ai federalisti?
Un
primo motivo è abbastanza ovvio e inevitabile, ed è stato spiegato sopra da
Bobbio: per dare una patina di realismo a una proposta palesemente assurda il
richiamo all’unico precedente vagamente simile diventa inevitabile.
Un
indizio per chiarire definitivamente il mistero lo fornisce forse un altro
grande ammiratore del federalismo americano: sempre lui, l’unico e il solo Giovanni Bognetti, che, novello de
Tocqueville, alla Costituzione a stelle e strisce dedicò una ponderosa fatica
in due volumi pubblicata da Giappichelli.
Che
ci dice il nostro costituzionalista preferito? Vediamo un po’ (Lo spirito del
costituzionalismo americano, vol. I, Torino, Giappichelli, 1998, pag. 28):
“La storiografia “progressista”
dell’inizio del nostro secolo (Beard, Parrington, Smith) ha denunciato con toni
vibranti [dove Bognetti abbia trovato
queste “vibrazioni” in un libro di elenchi e numeri come il Beard lo sa solo
lui, ma transeat] le “origini economiche”
della Costituzione federale del 1787-8, mettendo in luce gli interessi di
classe (della classe dei proprietari e dei commercianti) che avrebbero ispirato
le sue norme e perfino gli interessi personali che pesarono nelle azioni di
molti dei Padri Fondatori. Sulle
“origini economiche” della Costituzione la storiografia “progressista” ha, in
generale, piena ragione.”
Sento
un però in arrivo…
“Solo che essa non riesce a comprendere
che gli interessi di classe e quelli personali dei Fondatori coincidevano in
quelle circostanze con la loro adesione ideale al grande modello della economica liberale, con i suoi istituti
e i suoi principi di libertà, coniugato con una visione quasi profetica [su, ormai ai lirismi della prosa bognettiana
dovreste essere abituati :-)] del futuro
che poteva attendere una nazione abbracciante quel modello e davvero unita.
I
Padri furono, in quel momento, uomini politici di altissima statura come pochi
altri nella storia dei popoli occidentali. E le vicende dei popoli non possono
ridursi a meri, appiattiti scontri di interessi di classe: contano in esse
anche scelte di ideali civili, più o meno elevati, nella proiezione verso gli
sviluppi dell’avvenire”.
Oh,
finalmente! E la pace, la democrazia, la nazione…quante inutili chiacchiere:
meno male che alla fine è arrivato Bognetti a fare un po’ di chiarezza!
E
il federalismo? Che ruolo svolge in questo documento volto a garantire
“l’economia liberale” da interferenze statali? Bognetti, sempre generoso, ci
aiuta anche qui a sciogliere l’enigma: il nostro è infatti autore di un
capitolo in un manuale di storia delle dottrine politiche (Andreatta, Baldini
(a cura di), "Il pensiero politico nell’età contemporanea", Torino, UTET, 1999,
pp. 401 e ss.) che si intitola “Il pensiero federalista”. Sentite cosa
ci racconta:
“Se si tiene conto dei particolari
poteri sottratti agli Stati membri e dei limitati poteri attribuiti allo Stato
centrale nel campo della politica interna riesce facile intuire a quale tipo di
società e di economia il complicato meccanismo del sistema federale americano
finirà tendenzialmente per servire.
Ne sarà potentemente rafforzato e garantito
il modello di una società e di una
economia autogestitasi in modo unitario su tutto il territorio dell’Unione.
Gli Stati non potranno infatti interferire con le loro leggi nella libera circolazione di persone, merci e
capitali su quel territorio.
[Queste libertà mi ricordano
qualcosa…]. In base ai loro residui
poteri sovrani potrebbero ciascuno in qualche misura gravare di pesi e di
regole restrittive particolari l’iniziativa e la proprietà privata operanti nell’ambito
dei propri confini: ma col rischio di vedere le imprese produttive di ricchezze
emigrare in altro Stato (da cui del resto riesportare nel primo – per
diritto costituzionalmente garantito – le merci prodotte altrove a condizioni
giuridiche più vantaggiose). La sicurezza dei commerci sarà ulteriormente
assicurata, tra l’altro dall’impossibilità per gli Stati di manomettere il
valore della moneta e i vincoli dei contratti.
D’altronde lo Stato centrale può fare poco, data la ristrettezza delle sue
competenze interne, per dirigere a suo arbitrio le attività dei privati. Il suo
potere più largo – quello di regolare il commercio interstatale – avrebbe
dovuto soprattutto esercitarsi – nelle intenzioni dei padri fondatori – per
bloccare coperte manovre degli Stati membri a danno della libertà dei traffici.
Di conseguenza allo Stato centrale sarà al massimo data l’opportunità di
facilitare, con interventi necessariamente limitati, uno sviluppo economico del
Paese che dovrà tutto realizzarsi, invece, in sostanziale, larghissima autonomia”.
Mi
sembra che i contorni nebbiosi del federalismo vadano facendosi sempre più
nitidi.
Ancor
un passaggio ci consente di passare al prossimo paragrafo (ivi, pag. 409):
“In quanto
giustificazione ideologica e interpretazione di una complessa Costituzione, il Federalist può considerarsi un piccolo trattato
di teoria politico-giuridica, la ispirazione del quale è di stampo prettamente liberale-classico.
Data la
qualità dell’opera, esse deve annoverarsi tra i capolavori del pensiero
liberale, non inferiore ad opere in qualche modo ad essa comparabili quali, per
esempio, il Cours de politique constitutionelle (1818-19) di Benjamin Constant
(1767-1830), la Law
of the Constitution (1855) di Albert Dicey (1835-1922) e Ueber die Grenze der Tätigkeit
des Staates (Saggio sui limiti dell’attività dello Stato, Milano, 1965) di
Wilhelm von Humboldt (1767-1835).
Il cuore della giustificazione del
federalismo americano sta nel saggio n. 10, redatto da Madison”.
Vediamo dunque di che si
tratta…
2 – Il diritto alla
“felicità” dei Founding Fathers: federalismo repubblicano, “stabilità” e
democrazia... limitata per essere credibili.
Apriamo allora
il Federalist, n. 10 (Il Federalista, op. cit, pagg. 56 e ss.):
“TRA i numerosi vantaggi offerti da
una solida Unione, nessuno merita di essere più accuratamente esaminato di
quello rappresentato dalla tendenza di essa a spezzare e a controllare la
violenza delle fazioni. [ed ecco
comparire il “sezionalismo” che tanto
impensieriva Spinelli e Albertini]. Il fautore di governi popolari non si
troverà mai tanto imbarazzato nel considerare il carattere e il destino di
questi, come quando ponga mente alla facilità con cui degenerano quelle forme corrotte del vivere politico.
Egli,
pertanto, sarà propenso ad annettere gran valore a qualunque progetto, che pur
non violando i principi che gli son cari, rappresenti un efficace antidoto a
tale tendenza.
La mancanza
di stabilità [tenete a
mente questa parola: se ne chiarirà in futuro il significato],
l’ingiustizia, e la confusione che sovrintendono ai pubblici consessi, hanno
rappresentato, in verità, i mali mortali di cui i governi popolari hanno finito col perire ovunque; essi, poi,
continuano a fornire agli avversari della libertà le argomentazioni favorite e
più feconde, per le loro più speciose e declamatorie invettive.
Non si
loderanno, certo, mai abbastanza i notevoli miglioramenti che le costituzioni
americane hanno apportato ai vecchi e nuovi modelli popolari; ma sarebbe,
certo, insostenibile parzialità affermare che tali miglioramenti hanno ovviato
a pericoli del genere con l’ efficacia che ci si sarebbe potuto aspettare o
sperare.
Sentiamo
lamentare, da ogni parte, alcuni fra i nostri più considerati e virtuosi
cittadini [parole da tenere a mente per un confronto successivo con Einaudi],
— cui il pubblico interesse sta a cuore quanto quello del singolo, e così la
pubblica libertà come quella individuale — che i nostri governi son troppo
instabili, che il bene pubblico viene trascurato nel conflitto delle
parti contrastanti, e che vengono spesso prese delle misure, non in base a
principi di giustizia, o in considerazione dei diritti della minoranza, ma in
forza della superiorità numerica della maggioranza interessata e
prepotente.” Insomma, che non prevalgano gli interessi delle maggioranze!
A Madison era ben chiaro che anche in una società relativamente
omogenea sul piano etnico - escludendo neri e nativi americani, che non avevano
alcun peso politico- non mancavano tensioni sociali molto forti, legate a
interessi economici:
“Le fonti più
comuni e durature di faziosità sono, tuttavia, fornite dalla varia o ineguale distribuzione delle
ricchezze.
Coloro che posseggono e coloro che non hanno proprietà, hanno
sempre costituito i contrastanti interessi nella società.
Similmente, i creditori
da una parte ed i debitori
dall’altra.
Gli interessi dei proprietari agrari, quelli degli industriali, dei
commercianti, dei possessori di capitali liquidi insieme ad altri minori
crescono, di necessità, nelle nazioni civili e si ripartiscono in diverse
classi sollecitate ad agire da vari sentimenti e valutazioni.
Compito
primo della legislazione moderna è, appunto, la regolamentazione di questi
interessi svariati e delle loro reciproche interferenze, il che implica un
certo spirito di parte, fin nell’esplicazione delle comuni attività di
ordinaria amministrazione.”
Quale il
rimedio politico-istituzionale individuato in questa lucida analisi del
conflitto distributivo?
Presto
detto: “O si deve prevenire la
possibilità che la stessa passione o lo stesso interesse prevalgano nel
medesimo tempo in tutta una maggioranza,
o la maggioranza stessa, che fosse coinvolta nella medesima passione o nel
medesimo interesse, deve essere posta in condizioni vuoi numeriche, vuoi
ambientali, tali da non poter tramare o mettere in pratica delle misure oppressive. […]
Altro punto
di differenziazione è il seguente: che un regime repubblicano può
abbracciare un maggior numero di
cittadini ed un più ampio territorio di quanto non possa un regime
democratico ed è proprio questa circostanza che fa sì che le possibili manovre
delle fazioni siano da temere meno nel primo, che nel secondo caso.
Quanto più
piccola è la società, tanto minori saranno probabilmente gli interessi e le
parti che la compongono; quanto meno numerosi
questi singoli interessi e queste parti, tanto più facilmente si potrà formare
una maggioranza che condivida il medesimo interesse; e quanto più
piccolo è il numero dei cittadini che basti a costituire una maggioranza,
quanto più limitata la zona in cui essi agiscono, tanto più facilmente essi
potranno trainare ed eseguire i loro disegni di oppressione.
Allargate
la zona d’azione ed introducete una maggiore varietà di partiti e d’interessi,
e renderete meno probabile l’esistenza di una maggioranza che, in nome di un
comune interesse, possa agire scorrettamente nei riguardi dei diritti degli
altri cittadini; oppure, anche qualora esistesse una simile comunità di
interessi, sarà certo più difficile, a coloro che ne partecipino, il
riconoscere e il valutare la propria forza e l’agire d’accordo con gli altri.
Accanto ad altri ostacoli si può notare come, dove esiste coscienza di
propositi ingiusti o disonorevoli, la diffidenza reciproca esercita tanto
maggior controllo sulla possibilità di comunicare e di accordarsi, quanto
maggiore sarà il numero di coloro la cui complicità sarebbe necessaria.”
Quindi mentre in Europa si praticava la “nazionalizzazione delle
masse”, negli USA se ne teorizzava e praticava scientemente la frammentazione.
L'idea del
federalismo “divisivo”, ben
descritto nella sua intima connessione con la logica economica
liberista e liberoscambista da Hayek, trova radice direttamente nei Founding Fathers statunitensi (al
quale liberalismo il nostro austriaco preferito spesso si richiama) e, in
particolare, in Madison.
Hayek, riprenderà
appunto questo principio proprio per affermare esplicitamente l'ordine dei
mercati libero dalle sovranità democratiche
3
– Segmentazione sociale, salad bowl e... democrazia limitata.
Aggiungiamo
al quadro precedente l'arrivo di immigrati da tutto il mondo e l'emancipazione
degli schiavi e, più che un miscuglio, si avrà
quella che uno storico americano (Wiebe) ha efficacemente definito una “segmented
society” (società segmentata).
Nel senso
chiarito da questa pagina di Paggi (Americanismo e riformismo, Torino, Einaudi,
1989, pag. 39):
“I segmenti tendono a comporsi
fin dall'inizio nel mercato. Il contrattualismo diventa la forma dominante
della politica (che trova nel brokerage e nel payoff le
sue figure fondamentali), ma costituisce nello stesso tempo il linguaggio
paradigmatico a cui si uniforma la vasta gamma dei modi con cui i segmenti si
compongono in unità.
Il fenomeno raggiunge il suo culmine nel momento in cui, a
partire dai grandi flussi migratori della fine del XIX secolo, società di massa
e società dei consumi si saldano nella storia americana in un'entità
indissolubile: democracy of the cash
(Boorstin, 1974). D'ora in poi sarà il consumo a creare nuove loyalties
e a riarticolare le gerarchie sociali.
La descrizione che di questi fenomeni
Veblen dava già alla fine del secolo scorso può essere assunta come espressione
sintetica di una sistema di differenze con quanto sta avvenendo negli stessi
anni con il processo di "nazionalizzazione" delle masse, allora in
atto in Europa”.
4 – L'ideale “democratico” dei Padri Fondatori americani
analizzato dai teorici politici americani.
In ricordo di Sheldon Wollin, (Democracy
Incorporated, Princeton, N.Y., 2008, s.p.):
«Il dilemma dei Padri Fondatori statunitensi era che, mentre
temevano “il popolo”, riconoscevano che la cultura politica delle grandi
comunità, largamente auto-governantisi, anteriori alla Costituzione rendeva irrealistico
il tentativo di instaurare un sistema politico senza il consenso del potere di
cui in gran parte non si fidavano, quello del popolo [Il sistema idraulico sanitario!, ndt].
Modellarono così una serie di dispositivi volti a “filtrare” le espressioni di volontà popolare, sperando di
razionalizzare l'irrazionale.
Limitarono l’elezione popolare diretta a un solo organo, la Camera dei Rappresentanti,
e disegnarono un elaborato sistema di separazioni dei poteri, di controlli e
bilanciamenti per rendere il più difficile possibile a una maggioranza
controllare simultaneamente tutti i rami del governo. [Un
porcellum ante litteram, ndt]
Il presidente e il Senato sarebbero stati eletti indirettamente; i
giudici federali dovevano essere eletti dal presidente e confermati dal Senato,
mentre il personale del ramo esecutivo sarebbe stato designato dal presidente,
in parte con la necessaria approvazione del Senato.
Né la Costituzione
originale né la Carta
dei Diritti contenevano alcuna previsione a garanzia dell’elettività dei
funzionari nazionali.
Il “Grande Esperimento” non era volto a introdurre
l’auto-governo o la libertà individuale – questi erano già i pregiati traguardi di
diversi Stati – ma a tenere sotto controllo la democrazia.
Come scrisse Hamilton,
“Quando si presentano casi per i
quali gli interessi del popolo sono in contrasto con le loro inclinazioni, è
dovere delle persone che sono state designate come guardiane dei suoi
interessi, opporsi al temporaneo errore [come un governo tecnico, ndt], al
fine di dargli tempo e opportunità per una più fredda e spassionata riflessione”.
Quindi il popolo, come un branco di
bambini capricciosi, aveva bisogno di “guardiani” – non esecutori della sua
volontà, ma interpreti dei suoi veri interessi. Di conseguenza, il grande
proposito del sistema per cui politici e funzionari venivano eletti
indirettamente, era di legittimare una classe guardiana, un’élite con tempo libero sufficiente a dedicarsi al governo e
istruita in ciò che Hamilton chiamava “scienze
politiche”».
Continua Wollin: «I Padri Fondatori, se riponevano le loro
principali speranze di controllare il potere democratico nell’edificazione di
complesse barriere istituzionali, avevano anche scoperto che la grande
espansione geografica della nazione veniva includendo naturalmente una varietà
di differenze di interessi e credenze, rendendo
automaticamente difficile
l'organizzazione di una maggioranza democratica.
“Estendete la sfera”, scriveva
Madison, “e includete una grande
varietà di parti ed interessi; si rende meno probabile che una maggioranza
del dell’insieme abbia un motivo comune per invadere i diritti degli altri
cittadini; o, se questo motivo comune esiste, sarà più difficile per tutti
coloro che lo avvertono rendersi conto della propria forza e agire all'unisono
fra loro.”
Potremmo chiamare questa una visione della salvifica debolezza di
una “maggioranza disaggregata”. [Bello questo concetto, no? Facciamo
gli USE! Accogliamo gli immigrati!, ndr]. Si sarebbe poi ripresentata in
forme diverse. Una maggioranza disaggregata è una maggioranza a cui è
preventivamente impedito sviluppare la propria coerenza. Il suo carattere
maggioritario è costruito esternamente, dai suo oppositori, il cui obiettivo è
produrre una maggioranza che sia contemporaneamente manipolabile (ad es.,
elettorale), auto-giustificata (“maggioranza morale”), e per gran parte silenziosa. Richard Nixon si manteneva
fedele alla concezione originaria della maggioranza quando ha lanciato
l'appello “all'America dimenticata, quella che non si fa sentire, quella che
non dimostra nelle strade”.
La maggioranza disaggregata è costruita per appoggiare un
candidato o un partito per ragioni che tipicamente prestano solo un omaggio
formale alle esigenze fondamentali della maggioranza dei cittadini (sanità,
istruzione, ambiente non inquinato, minimo salariale) e ancor meno alle
disparità nel potere politico tra cittadini ordinari e interessi ben
finanziati.
La sua vuotezza ne fa l’equivalente politico dei prodotti che
promettono bellezza, salute, sollievo al dolore e la cura della disfunzione
erettile.
In seguito alle elezioni del 2004, il sistema politico e
dell'informazione ha scoperto o inventato la nozione per cui il problema
saliente era quello dei “valori” – non una guerra senza fine e sempre più
sanguinosa, non un'economia vacillante, non un crescente deficit e un
allargamento delle disuguaglianze di classe.
Qual era il valore dei “valori”?
Oscurare questioni molto più fondamentali e dividere la società intorno a
linee ideologiche piuttosto che ai conflitti di classe [I diritticosmetici, ndt]: il cattolico osservante, l'evangelica afro-americana,
l'ispanico orientato verso chiesa e famiglia, la famiglia bianca che ha
difficoltà a tirare avanti con un figlio nell'esercito perché vuole andare
all’università: tutti votano per un partito che strombazza valori che non
impongono praticamente alcun costo ai suoi abbienti beneficiari affaristi e ai
loro eredi.»
Insomma, in una grande e bella federazione, ricomporre in modo
unitario gli interessi di classe diventa
tanto più irrealizzabile quanto più ampia e diversa si presenta la realtà economica; se a ciò si
aggiungono differenze etniche, religiose, culturali, che separate dal fondamento solidarista della
democrazia sociale, lungi dal costituire momento di autorealizzazione diventano
una trappola diversiva (cosmetica), il quadro delle funzioni politiche che il
federalismo è chiamato a svolgere risulta desolatamente chiaro.
Avviamoci
verso la conclusione lasciando la parola al sempre candido Bognetti (Il
pensiero federalista citato, pag. 415):
“Ma almeno dal momento in cui
la Costituzione
fu adottata e in maniera via via più organica col procedere del tempo e con gli
sviluppi realizzati nell’Ottocento, la democrazia americana non può
comprendersi se non si tiene conto che essa è una democrazia limitata,
perché al suo fondo sta idealmente un robustissimo sospetto nei confronti
dello stesso potere popolare, secondo l’inflessibile denuncia che ne fa il
basilare n. 10 del Federalist.
Il limite maggiore della democrazia fu
costituito, nell’epoca del liberalismo classico, in quel paese, dalla
strutturazione federalistica del sistema politico, altamente dispersiva del potere tra enti statali
distinti. Una dispersione tutta ad arte mirata
a servire il modello individualistico della società e dell’economia propria di
quel liberalismo”.
Possiamo ora chiarire i
termini della contrapposizione rispetto al nostro modello costituzionale con
l’aiuto di un fine storico del diritto pubblico come Maurizio Fioravanti
(Costituzione e popolo sovrano, Bologna, Il Mulino, 1998, pag. 15):
“Lo schema di fondo [elaborato nell’Assemblea Costituente italiana] non
era dunque quello, presente soprattutto nella cultura costituzionale statunitense, del legislatore come
espressione della maggioranza, di cui, come tale, si poteva e si doveva
diffidare, che doveva essere accuratamente limitato in nome della costituzione
e dei diritti in essa radicati; era piuttosto quello europeo-continentale del legislatore come espressione del popolo sovrano, cui si poteva, e si
doveva, chiedere un impegno speciale e particolare per l’attuazione della
costituzione, per la realizzazione dei valori comuni espressi nella
costituzione. In una parola, la norma fondamentale diveniva concreta attraverso, e non contro, il legislatore.”
A questo
punto possiamo tirare le somme: quando i federalisti dicono “nazione” oppure “potere assoluto degli Stati” intendono prendere a bersaglio il costituzionalismo democratico europeo
continentale. L’europeismo è insomma il rifiuto di quanto di più avanzato
sia stato prodotto dalla cultura democratica europea continentale - nell’ambito
della quale la
Costituzione italiana merita un posto di assoluto rilievo -
per rimpiazzarlo col vetero-liberalismo americano.
E chi non condivide quest’insensata
e antistorica proposta neo-coloniale è nazionalista e antieuropeo. Ovvio, no?
[1] In realtà il libro è uscito nel ’58 in
un’edizione provvisoria e poi due anni dopo presso Giuffè nella “Nuova Collana
di Studi Politici” diretta da… Bruno Leoni,
guarda un po’ il caso! Sempre per caso, si constata che nel volume gli unici
economisti citati sono solamente il neoliberista Lionel Robbins e Maurice
Allais, uno dei fondatori della Mont Pèlerin Society. Il caso!
[2]
Anzi, sulla nazione in senso etnico
Albertini (op. cit., pagg. 187-8) non ha niente da ridire: “Una nazionalità, sinché non si fonde con uno Stato, può
effettivamente presentare l’aspetto di una comunità laboriosa, buona e solidale,
e mantiene in ogni modo rapporti pacifici, o almeno non bellicosi, con altre
comunità dello stesso genere. La ragione sta nel fatto che in tali comunità,
che non coincidono con il quadro di formazione del potere politico supremo e non
posseggono pertanto i mezzi materiali dell’offesa milita re, il lealismo verso
la «nazionalità» non può esprimersi, nella pratica come nella immaginazione,
attraverso le idee della forza e della violenza.” Basta insomma che la nazione stia lontana dal
potere politico. Che non sarà “nazionale” ma non per questo non esisterà.
[3] Essenzialmente, e in modo particolarmente
accentuato in Italia e Germania, attraverso il “dogma” della sovranità
statale.
[4]
Una linea fatta propria dal MFE e oggi apertamente sconfessata da Barbara
Spinelli
Bel pezzo.
RispondiEliminaQuindi quando gli anglosassoni parlano di "democracy" si riferiscono perlopiù alla democrazia formale liberale, che in concreto e in estrema sintesi è: libero mercato + elezioni.
Lontani anni luce dalla democrazia sostanziale delle costituzioni (soprattutto italiana).
Si potrebbe dire anche che il liberalismo avversa ogni sovranità che non sia quella del mercato (proprietari, operatori economici), quella del monarca è dannosa tanto quella popolare.
p.s. gli articoli a puntate (anche quelli di Seremedi) andrebbero messi in pdf e resi disponibili sul blog, altrimenti diventa difficile ritrovarli
Non avrei mai pensato che il mio futuro sarebbe stato quello di vivere in una dittatura di moralisti. Quella di Poletti è veramente l'ultimo capitolo della grande Saga degli italiani bamboccioni. Come possiamo nascondere le nostre colpe di non essere in grado, in quanto governanti, in quanto paese sottomesso al vincolismo esterno, di erogare un effettivo diritto allo studio, in grado di farci diventare paese sviluppato? Massì, colpevolizziamo le vittime, come al solito; tutti coloro, oramai sempre di meno, che per via della mancanza di borse di studio e della messa in pratica effettiva del diritto allo studio, sono in effetti costretti a lavorare come baristi fino a 28 anni per mantenersi gli studi, e che quindi si laureano in ritardo; e dopo la laurea con 110 e lode, per via del sistema industriale avviato verso modelli terzomondisti, saranno costretti a scaricare banane per le cooperative "sociali" degli amici e parenti di Poletti. Tanto vale studiare un cazzo fino a 21 anni, strappare un titolo appena sufficiente imparando due cosette a memoria, e poi via, subito a scaricare banane, tanto con la laurea ci possiamo pulire pure il sedere, sia che la si sia ottenuta con 97 che con 110.
RispondiEliminaPer contestualizzare le sparate di Poletti e lo scaricabarile di colpe è necessario studiarsi questo articolo:
http://www.lescienze.it/news/2015/11/13/news/universita_costi_studio_giannini-2845276/
"Dai dati contenuti nel rapporto sembra difficile concludere che l'università italiana costi poco, rispetto a quella di altri paesi europei. Soprattutto, sembra che in Italia si sia ancora lontani dal riuscire a garantire un effettivo diritto allo studio. Ne è una dimostrazione la diminuzione delle iscrizioni all'università che l'anagrafe degli studenti del Ministero registra da alcuni anni, soprattutto negli atenei del Sud. Questo in un paese in fondo alle classifiche europee anche per la percentuale di laureati nella popolazione, meno del 14%, a dispetto dei persistenti miti sui "troppi laureati". Del resto, se mancano le risorse per il diritto allo studio è perché, in generale, manca un adeguato investimento pubblico nell'università, e anche nel sistema della ricerca, che potrebbe costituire uno sbocco professionale per molti laureati in diverse discipline. Anzi, formazione universitaria e ricerca, come ricorda il giornalista scientifico Pietro Greco, sono tra i settori pubblici che negli ultimi anni hanno subito i maggiori tagli di spesa.
Perché, alla fine, tutto si tiene. Meno investimenti, meno diritto allo studio, meno laureati, più tasse e più spese per chi si iscrive. Se a questo si aggiunge il problema di "un sistema universitario che invecchia in maniera preoccupante", come afferma il Consiglio Universitario Nazionale commentando i provvedimenti dell'ultima legge di stabilità, si comprende come in queste condizioni sarà sempre più difficile per il sistema universitario italiano assolvere alla sua funzione principale: trasmettere e produrre conoscenza. E, in una società della conoscenza, essere il motore dello sviluppo sociale ed economico."
Nell italia che vogliono loro i laureati non devono esserci. Un 10% della popolazione è anche troppo. Ma che paghi 10 volte di più di oggi
Eliminahttp://www.sinistrainrete.info/finanza/4866-ldel-savio-e-mmameli-draghi-hamilton-e-i-creditori-contro-la-democrazia.html
RispondiEliminahttp://it.scribd.com/doc/127987118/Kleeves-John-Un-Paese-Pericoloso-Storia-Non-Romanzata-Degli-Stati-Uniti-D-America#scribd
RispondiEliminaIn sostanza, Bognetti, volendo giustificare un sistema economico che dal punto di vista dei suoi effetti sociali sulla gran parte della popolazione è fallimentare e ingiustificabile - quantomeno per chi abbia a cuore la parte empirica della materia (economica) -, tira fuori dal cilindro un sistema etico che non esiste [perché non può esistere, come abbiamo cercato di "spiegare" nella sezione dei commenti del blog nel corso delle ultime settimane], cosa di cui i Framers erano ben consapevoli, essendosi prefissi, nel loro progetto di redazione costituzionale, principalmente l'obiettivo di salvaguardare i loro interessi economici di classe, come lo stesso Bognetti riconosce apertamente.
RispondiEliminaDirei che gli Stati Uniti d'America, più che il Paese "leader del mondo libero", sono piuttosto il Paese "leader del mondo liberista" [gioco di parole interno alla lingua italiana, un po' come la distinzione crociana fra liberalismo e liberismo, ma tant'è: noi siamo ancora cittadini italiani, nonostante tutto].
In attesa dell'ultimo atto dell'opera, rivolgo il mio plauso ad Arturo e Bazaar (rigorosamente in ordine alfabetico), per un lavoro estremamente interessante e coerente col percorso sviluppato dal blog fin qui.
Mi associo all'apprezzamento.
EliminaGran mole di fonti e altrettanta capacità di semplificare lo smontaggio di un sistema artatamente complesso. Se non altro per la plurisecolare copertura mediatica delle intenzioni sottostanti.
Ancora oggi, per ricostruire il tutto dobbiamo affidarci a specialisti esponenti di quel pensiero : decisamente il "contrabbando" dell'idea oligarchica di libertà è un'attività impunita e del tutto alla luce del sole, proprio perchè inavvertita dai più grazie alla falsificazione mediatica.
Volevo aggiungere se posso - anche se in evidente ritardo, ma ho anche avuto un problema all'unico computer che posseggo, oltre ad essere sicuramente lento di comprendonio.
RispondiEliminaCerto ho apprezzato molto l'accenno alla famiglia che non solo io credo sia la base che mantenga una certa costanza e regolarità ai cambiamenti culturali.
Non per niente uno dei primi punti messi nel dimenticatoio fu quello degli aiuti alla famiglia, di cui solo ora possiamo coglierne la portata del danno.
Vero è anche che i cambiamenti culturali possono avere (ed hanno) cicli più brevi di quelli genetici, ma immancabilmente cambiamenti culturali che non siano accompagnati da una consapevolezza profonda, cioè da quella sorta di precomprensione spesso ricordata in ambito giuridico e che non può essere ricondotta alla sola sfera culturale prossima, portano, in un periodo successivo, ad una sorta di "crollo" culturale che; o distrugge quanto fatto fino ad allora ( in Africa esistono innumerevoli esempi ) o fagocita quel tipo di società indebolendola e disperdendone il capitale umano ( esempio meridione ieri e Italia oggi).
E aggiungerei una considerazione generale sul continuo rapporto tra nature/nurture.
Credo possa essere facilmente compreso come avvenga questo passaggio tramite una semplice constatazione logica.
Nel momento del concepimento i geni iniziano il loro lavoro, ma di molto più importante è l'ambiente che, pure se i geni fossero quelli di un guerriero ninja invincibile, se non fosse adeguato non permetterebbe a quelli di svolgere il loro lavoro, e così via per tutta la prima parte dell'esistenza di quell'organismo (per inciso noi uomini siamo quelli che dobbiamo accudire i nostri piccoli per più tempo di tutti, ecco perché l'ambiente è importante).
E' chiaro che l'ambiente, in quella fase è una condizione sine qua non.
Ora per converso spostiamoci in là nel tempo. Ogni organismo ha una data di scadenza massima (il che non vuol dire che verrà rispettata, ma sia come sia, se tutto andasse nel verso giusto lì si arriva) oltre la quale non si può andare. Siamo in una condizione nella quale l'ambiente non può fare più nulla, nemmeno se questo fosse il miglior ambiente possibile relativo a quell'organismo.
Dal che possiamo capire che dal concepimento alla morte vi è un rapporto continuo e variabile tra nature/nurture; all'inizio l'ambiente è prevalente, alla fine i geni la fanno da padrone. Nel mentre vi è un continuo passaggio di consegne da uno all'altro.
E uno potrebbe pensare..."Embèh, cosa centra ?".
Non intendo dire che sia una questione maggiore delle altre, però non è nemmeno superflua e provo a spiegare il perché.
Dato che le decisioni determinanti, in qualsiasi società esse vengano prese, è indubbio che siano prese da coloro che hanno una forte influenza sul sistema, e ben sappiamo che di norma ESSI sono coloro che detengono capitale - più capitale detieni, più determini gli eventi.
Quasi sempre Essi sono persone generalmente adulte e sovente anziane. Quindi possiamo constatare che le decisioni sostanziali concernenti ai sistemi contengono una grande influenza genetica ( la mia è solo una costatazione e non ha valore di merito ).
Come questo vada ad influire, in quelle società che hanno al loro vertice economico molti matusalemme è difficile capirlo - bisognerebbe fare uno di quei grafici coi puntini e una linea mediana per vederne l'effettiva l'incidenza.
E' chiaro però che i geni influenzano le politiche abbastanza spesso e abbastanza seriamente.
A questo punto; la lotta di classe è un problema culturale o genetico?
Paese che vai, "fatepresto" che trovi.
RispondiEliminaNo comment.