sabato 21 novembre 2015

DEMOCRAZIA. FEDERALISMO. INDIPENDENTISMO. E ORDINE INTERNAZIONALE DEI MERCATI - 1

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Inizia con questo post, una lunga trattazione del tema "Democrazia. Federalismo. Indipendentismo" che nasce dalla cooperazione tra Bazaar e Arturo: l'argomento è stato frazionato in quattro puntate e risulta di grande importanza per comprendere il nostro "punto-nave", nelle procellose acque dell'internazionalismo-mondialista imperante. O meglio, mai così aggressivo e disastroso nei suoi esiti.

Fare, con una riflessione socio-economica e storico-istituzionale, il "punto-nave", non ci fornisce solo informazioni su come e perchè la rotta effettiva sia stata quella finora seguita, ma ci consente anche di capire quale rotta di "salvezza" potremmo (almeno) tentare di intraprendere
E questo vale per ogni genere di azione politica, dandoci utilmente la direzione e la misura delle correzioni che occorrerebbe apportare: se lo si volesse.
E lo si può "volere", solo se si abbia chiaro il quadro dei fattori e degli elementi di spinta a cui si è stati, e si è, tutt'ora soggetti: magari a propria insaputa. O magari non lo si può volere perché non si è (più: dopo tanto stordimento inconsapevole) in grado di afferrare tali fattori. O perché, infine, non "conviene": in termini di ammissione delle responsabilità accumulate nel portarci fino a questo punto.
(Consiglio vivamente di non tralasciare le preziose note a pié di pagina).

P.S.: mi accorgo che la lunghezza della nota che mi sono permesso di aggiungere "a chiarimento", finisce per portare lo scritto praticamente a 6 mani. 
Mi perdonino i due illustri co-autori di questo blog: ma, in fondo, non è questo il metodo con cui, di regola, procede la parte più fruttuosa e "divertente" dell'approfondimento che riusciamo da compiere?


1 – Introduzione
«Intervenendo nel dibattito sulle riforme o controriforme istituzionali chiamate a consacrare e consolidare i risultati della marcia su Roma, il grande sociologo [e celebre economista neoliberale Vilfredo Pareto, ndr] chiarisce con lucidità l’ obiettivo reale da perseguire e da non perdere di vista nell’accavallarsi di proposte disparate e spesso contraddittorie: 
La presente dittatura, tosto o tardi, metterà capo ad una riforma costituzionale. Meglio tosto che tardi. "Conviene che la riforma rispetti quanto è possibile le forme esistenti, rinnovando la sostanza” (Pareto, 1974, voi. 2, p. 796)
I modi sono infiniti, lo scopo è unico ed è di evadersi dalle ideologie democratiche della sovranità della maggioranza. A questa rimanga l’apparenza, ma vada la sostanza ad una élite, poiché è per il meglio oggettivamente” (Pareto, 1974, voi. 2, p. 800)», cit. da Losurdo, "Bonapartismo e democrazia", 1993, pp. 182-183

Si riporta, in relazione all'articolo sulle rivendicazioni indipendentiste, la sintesi di una discussione tra me ed Arturo attraverso un lungo scambio epistolare in cui ci si è confrontati su diversi temi, tra cui, quello principale, è stato proprio il rapporto tra democrazia sostanziale, sovranità, ed indipendentismo. Inutile aggiungere che gran parte del lavoro filologico e di ricostruzione documentata del pensiero storico e della dialettica intorno a questi temi, è stata fornita da Arturo. 

http://www.treccani.it/export/sites/default/Portale/resources/images/pensiero_antropologico_02_nel_testo.jpg
2 – Stato nazionale, identità e sovranità: il rapporto tra ethnos e demos fra valori relativi ed assoluti.

"Per quasi tutti i caratteri ereditari troviamo che le differenze fra singoli individui sono più importanti di quelle che si vedono fra gruppi razziali" - L. e F. Cavalli Sforza, Chi siamo, Milano, Mondadori, 1995, pag. 333
Parliamo di razze, proprio nel senso di race usato dagli angloamericani, che, di razzismo, se ne intendono: bene, è notoriamente impossibile identificare in modo discreto, ovvero discriminare per via genetica, l'appartenenza di un individuo ad un gruppo razziale rispetto ad un altro. 
Questo assunto è condiviso nella comunità scientifica da almeno i primi anni del XX secolo, tanto che curiosa è la constatazione per cui, chi si interessa di genetica e magari si arroga il diritto di proporre politiche volte ad un miglioramento del genoma umano (generalmente darwinisti sociali o malthusiani...), dovrebbe partire da presupposti (scientifici) condivisi che oggi non ci sono. Cioè, se non è possibile isolare una razza, non è possibile individuare chi, ad esempio, possa vantarsi di essere “ariano”.
Insomma, se si crede che l'intelligenza sia un valore irrinunciabile, è difficile che  facendo accoppiare tedeschi biondi con gli occhi azzurri, si generino figli con la logica di Hegel o l'arte letteraria di Goethe.

Più interessante risulta il presupposto di chi, come il fondatore di Paneuropa Coudenhove-Kalergi, fa parte di coloro che si attribuiscono il diritto-dovere di proporre processi eugenetici tramite la selezione dovuta all'istinto sessuale: chi decide cosa è “eu” – εὖ – ovvero “bene”, “buono” nei cromosomi dell'essere umano così che il totalitaristico uomo nuovo sia più funzionale alla nuova (grande) società?

3 – Affinità elettive tra eugenetica e funzionalismo sociologico.
Comprendere le premesse etiche e le finalità politiche del  funzionalismo in sociologia equivale a comprendere quelle insite nel liberismo economico[1]: “mirabile”, stando con il prof. Bagnai, è l'analisi sull'eurozona di Streeck, che fa notare come il celebre funzionalista strutturale Talcott Parsons abbia promosso l'idea liberale, tipica della scuola neoclassica, per cui la moneta sia neutrale, niente di più che un mezzo tecnico. 
Sociologia ed economia, guarda un po', trovano un punto di incontro[2]: insomma, esiste un modello sociale che è naturalmente – quindi obiettivamente – efficace, efficiente, ed economico... o no? Ovvero, funzionale a...? A cosa? Agli interessi generali?
 No.
Non secondo l'etica – e le scienze sociali che la supportano – della nostra Costituzione che definisce bene gli interessi generali che devono essere perseguiti. Interessi generali che non corrispondono all'evoluzione attuale della società descritti dal funzionalismo, ma che si compiono effettivamente – attraverso gli organi rappresentativi – con la rimozione degli ostacoli economici e sociali che le teorie funzionaliste in vario modo giustificano. Ovvero, si parte, nell'ottica della democrazia costituzionale, dal presupposto che le strutture sociali non siano “naturali”, ma risultato di un rapporto di forza storicamente determinato che oppone materialmente resistenza al perseguimento del programma costituzionale abbracciato da tutte le forze politiche.

Se la struttura sociale è determinata dai rapporti economici, la presenza in Costituzione dell'art.3 – e a maggior ragione in forza degli artt. 35 e ss. –  dimostra l'intenzione effettiva dei Costituenti di non affidarsi alla “spontaneità” del mercato che esprime questi rapporti: si rigetta il liberalismo economico.

Quindi, tornando a bomba: se non sono univocamente identificabili le razze, e la razza è parte più o meno fondante nell'individuare un'etnia che, per come si definisce genericamente, dovrebbe essere altrettanto identificabile indipendentemente da confini  naturali geografici o politici, anch'essi “relativi”, può essere che ci si trovi di fronte a differenze “formali” - “istituite” - ma non “sostanziali”, ovvero obiettive, “naturali” e storicamente immutabili? 
Insomma, anche l'etnia è, in definitiva, un'invenzione culturale umana, che, come per tutte le ipostatizzazioni sociali (cioè le sintesi assunte come "certezze di giudizio"), è facilmente rappresentabile come espressione di rapporti di forza: l'identità etnica è genericamente riferibile, più che ad omogeneità razziali, culturali o linguistiche –  che, come abbiamo visto, sono scientificamente non discriminabili –  a omogeneità di carattere “contrappositivo”. Il gruppo sociale trova i propri confini e, quindi, la propria identità, nel momento in cui condivide un “nemico” – un competitor! – comune: come le classi sociali sono prodotte dal conflitto distributivo, così lo sono anche le sovranità nazionali e le entità politiche autonome in genere.

- Nota di Quarantotto: va peraltro aggiunto che il conflitto distributivo è (comunque, in ogni periodo storico: per lo meno successivo all'instaurarsi della civiltà "agricola") il naturale esplicarsi delle dinamiche di gruppi sociali coesistenti in modo continuativo su un territorio avente caratteri geo-morfologici tendenzialmente comuni, o, volendo essere precisi, "accomunanti": e, dunque, naturalisticamente interagenti fra loro, al punto da potersi riscontrare un comune patrimonio linguistico e culturale.
Infatti, la prossimità  e la conseguente interconnessione di insediamenti, appunto caratterizzati da vicinanza fisica, rileva in funzione della consistenza del periodo storico in cui si struttura un "vincolo geografico" tra gruppi
Ovviamente ciò vale a certe date condizioni storiche di struttura economica e di conoscenze scientifiche (che determinano i mezzi di trasporto disponibili e la tipologia ed estensione di infrastrutture comuni come strade, ponti, centri di accoglienza e di stoccaggio per i mercanti in viaggio, etc): queste condizioni promuovono l'ampiezza e la stessa omogeneità del vincolo goegrafico tra gruppi sociali. 
Inoltre, pur ottusamente trascurate, nei nostri giorni di predominio dell'irrazionale neo-liberista e antistatalista, fondamentali risultano le condizioni organizzative e istituzionali comuni, da cui, in definitiva, dipende lo stesso avvio di ogni processo sia di avanzamento scientifico che di infrastrutturazione (si pensi alla cesura tra medio-evo e epoca dell'Impero romano d'Occidente, in termini di crescita delle condizioni di benessere generale e di diffusione di conoscenze e tecnologie, poi andate perdute durante l'antistatalista anarchismo feudale).

Questo insieme di caratteri, storicamente contigenti, possono tuttavia risultare percepibili come costanti, in termini di memoria collettiva, per varie generazioni vissute all'interno di quel territorio, plasmando i contatti e la comunicazione intragruppo.
Si generano così prassi o "costumi", che, attraverso lo spontaneo rafforzamento del mezzo di comunicazione per eccellenza, il linguaggio -divenuto segno identificativo attraverso la "lingua"- fa assurgere naturalmente il frequente spostamento di "contatto"  a autorappresentazione di una comune memoria culturale. 
Lingua e interazioni condivise, divengono memoria collettiva attraverso forme di narrazione culturale: musiche, canti, balli, credenze e celebrazioni ritualizzate, si sedimentano rispetto al gruppo che vive su quel territorio, fino alla elaborazione di una "letteratura" che codifica quella lingua e gli eventi "significativi" di quella memoria collettiva.
La precisazione appena fatta è un richiamo alla "effettività" del legame linguistico-culturale.
Le "date" conoscenze scientifiche e tecnologiche, influiscono, in modo direttamente proporzionale alla loro velocità di mutamento, sul tipo di struttura economica e di comunicazione, che caratterizzano un gruppo territoriale: e questo include la (progressiva modificazione della) lingua
Le predette condizioni e la loro (variabile) velocità di cambiamento, quindi, influiscono sui caratteri sociali aggregativi in precedenza caratterizzanti un certo territorio "omogeneo": ma influiscono, appunto,  evolvendole in forme la cui portata può sfuggire all'interno della percezione propria di una vita umana
Questo mismatching o "time-lag", tra percezione dei singoli individui (interna alla durata della singola esistenza) e portata "sfasata" del ciclo di mutamenti strutturali, può dar luogo a forme "identitarie" coesistenti e, spesso, confliggenti tra loro, in funzione di fattori psicologici collettivi: il "nuovo" crea e distrugge e il bilancio (di benessere) dei più può risultare negativo. 
La spinta "conservativa" della memoria linguistico-culturale precedente, può essere tanto più forte quando più una forma "unificatrice" di struttura economica, tipicamente il capitalismo, si manifesta con la sua straripante capacità produttiva e di innovazione.
Questa forma di organizzazione sociale e politica "capitalista" (che oggettivamente ci troviamo oggi a fronteggiare, nella sua stessa evoluzione e contraddittorietà) è per definizione fortemente capace di instaurare assetti sociologici di produzione ben definiti (con la divisione del lavoro), dando luogo a forme politiche a sé convenienti, che contrassegnano il territorio, qualunque territorio, in funzione delle esigenze dei rapporti di forza dominanti così instaurati. 
Ma questi rapporti di forza, dovrebbe essere intuitivo, non necessariamente, anzi quasi mai, coincidono con quelli delle precedenti comunità territoriali caratterizzate dalle diverse, e più antiche (obsolete, secondo il nuovo paradigma) condizioni sociali comunitarie: variano in modo decisivo le condizioni di conoscenza scientifica (sistema di istruzione e formazione), di produzione e scambio (organizzazione del lavoro e infrastrutture) e le modalità di insediamento conseguente (polarizzazione su centri produttivi pianificati, rispetto all'insediamento agricolo "diffuso"). 

Questa precisazione ci è parsa utile per meglio comprendere il passaggio del post che segue, relativo alla generazione di un carattere contrappositivo (autodifensivo) del demos, una volta instaurate certe condizioni di forte e incompatibile mutamento strutturale (e culturale).
Non ultimo, in questa fenomenologia, è il dato della ben più lenta evoluzione del fattore linguistico, rispetto ad altre condizioni di mutamento strutturale della vita di una comunità territorialmente identificabile (nei termini sopra definiti).
Il fattore linguistico, va subito detto, è però di per sè un (per quanto inevitabile) fattore di resistenza peculiare; infatti, esso è indifferente, o meglio apparentemente neutro, se non contraddittorio, rispetto agli istinti di preservazione che fronteggiano il "nuovo" assetto dei rapporti di forza. 
Il "nuovo", quindi, riflette l'affermazione di interessi prevalenti e normalmente contrapposti a quelli della maggioranza, all'interno della comunità. ciò anche quando, come spesso, anzi per lo più, si verifica, nascano da un'azione "innovativa" che si produce dall'interno della comunità "linguistica" medesima.  
Da questa disomogeneità di interessi ed effetti, interni alla comunità "etnica" precedentemente identificabile, e promossa da forze espresse dalla stessa comunità, va naturalmente eccettuato il caso eclatante del mutamento indotto dalla guerra di conquista coloniale, in tutte le sue forme, "moderne" e più recenti.
Riservandoci un maggior approfondimento, la conquista coloniale è quella operata da un gruppo vivente su un distinto territorio, avente una distinta lingua e tradizione culturale, e tesa ad instaurare uno stabile e unilaterale assetto predatorio delle risorse del gruppo territoriale assoggettato, che viene controllato da un governo che: 
a) è situato, nel suo vertice decisionale, nel territorio del gruppo dominante
b) esclude istituzionalmente la partecipazione di esponenti del gruppo assoggettato a ogni forma di governo e di determinazione dell'indirizzo politico
Insomma, (al di fuori del caso del colonialismo, e peraltro solo tendenzialmente), parlare una lingua o un dialetto comuni non elimina il fatto che alcuni - pochi e autoproclamatisi "legittimati" al di sopra delle vecchie "prassi e usanze"-, in quanto divenuti capaci di dirigere l'assetto sociale, si avvantaggiano a danno di altri che, pur condividendo lo stesso idioma (e una certa tradizione territorial-culturale), subiscono le decisioni dei primi. -
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Quindi le etnie che formano un demos, nel senso di popolo sovrano, non sono un prodotto “naturale”, ovvero, più empiricamente, una semplice evoluzione sociale in funzione della geografia, del patrimonio genetico e culturale, ma sono anche – e soprattutto!  il prodotto della rivalità tra demoi ed ethnoi che non sono altro che gruppi sociali che hanno interessi contrapposti.
Questi interessi sono “statici”? Sono spontaneamente conciliabili in modo funzionale, ovvero armonico, ad una pacifica convivenza internazionalista?
No! Cambiano in funzione dello sviluppo storico.

4 – Il federalismo sovranazionale come aggressione alle sovranità nazionali: il matrimonio tra destra e sinistra come vero problema gender.
Per iniziare a focalizzare le dinamiche dietro alle arcinote narrazioni ideologiche sul Fogno della Federazione unica mondiale per cui esisterà una sola moneta , iniziamo a guardare da “sinistra” il problema. Ci si soffermerà da questo “lato” per una semplice constatazione: una sinistra politica e culturale che non è consapevole di essere espressione della storica “destra economica” – il cui paradigma sociale è stato rigettato dalle democrazie costituzionali – svolge un ruolo nefasto per la coscienza di classe necessaria a tener viva la carta costituzionale e le conquiste sociali che rappresenta.
I valori della Sinistra politica trovano storicamente le proprie radici nei principi della tutela del lavoro, della giustizia sociale e, in ultimo, nella diffusione del potere politico alle classi subalterne: ha gettato le fondamenta per lo sviluppo della democrazia sostanziale.

Ci chiediamo: ma come è possibile che il federalismo europeo sia da decenni bandiera politica e ipostatizzazione culturale di chi si dovrebbe richiamare storicamente alla lotte laburiste? Dove nasce questo fervore antinazionale?

Confrontiamo allora il socialismo marxista delle grandi lotte operaie con la moderna Sinistra cosmopolita, che scambia indifferentemente l'internazionalismo con l'anazionalismo; sì, quell'ideologia diffusasi dalla comunità dell'esperanto, di cui il celebre esponente socialista Eugéne Lanti, discutendo con la sua compagna – zia di George Orwell  contribuì involontariamente all'idea distopica della neolingua in 1984...

(1- Continua...)


[1]      I tratti reazionari del liberalismo e le sue illegittime pretese rispetto alla nostra Carta dichiaratamente progressiva, possono benissimo essere ricondotti tanto al liberismo economico quanto al funzionalismo sociologico: in particolare, di quest'ultimo, con buona pace della “teoria dei giochi”, si notano l'implicito “interclassismo” (inteso come mero desiderio solidaristico o falsa coscienza e retorica tout court) e “internazionalismo irenico” alla base della coscienza identitaria di classe. Non a caso, infatti, tutti i moderni totalitarismi sono stati “interclassisti” (negando l'esistenza conflittuale tra i diversi gruppi sociali, e, quindi, la violenta oppressione delle classi subalterne): per certi versi e in senso improprio (“improprio” perché la Costituzione sovietica era “classista” - la dittatura del proletariato! - a differenza della Costituzione Italiana, “pluriclasse” e informata del naturale conflitto distributivo) anche quello stalinista: «lo strangolamento del partito, dei soviet e dei sindacati comporta l'atomizzazione politica del proletariato. Invece di essere superati politicamente, gli antagonismi sociali vengono soppressi per via amministrativa.» 
Degno di nota, in rif. alla Russia degli anni'90 e alla secessione imposta ad una parte importante del territorio, segue:  «Sotto tale pressione essi si accumulano nella stessa misura in cui scompaiono le risorse politiche per risolverli in modo normale. La prima grande scossa sociale, esterna o interna, potrebbe gettare la società sovietica atomizzata in una situazione di guerra civile. [...] Il disfacimento del sistema troverà naturalmente un'eco violenta e caotica nelle campagne e si ripercuoterà inevitabilmente sull'esercito. Lo stato socialista crollerà, cedendo il posto al regime capitalistico o, più esattamente, all'anarchia capitalista.» Lev Trotskij, 1933
[2]      Si noti come la locuzione marxiana di “rapporti di produzione” riassuma in sé un connotato sia economicistico che sociologico: la prospettiva del conflitto troverà proprio in Marx la paternità nella scienza sociologica, e, come ricorda Streeck, un contributo fondamentale anche in Weber. Pare che i tedeschi, si pensi anche a List, per riuscire ad arrampicarsi “sull'albero delle olive” su cui gli anglosassoni si sono arrampicati per primi, siano stati più motivati a sgretolare tanto il liberoscambismo quanto il funzionalismo sociologico del liberalismo english-speaking.

8 commenti:

  1. Bazaar e Arturo hanno scritto: una sinistra politica e culturale che non è consapevole di essere espressione della storica “destra economica” – il cui paradigma sociale è stato rigettato dalle democrazie costituzionali – svolge un ruolo nefasto per la coscienza di classe necessaria a tener viva la carta costituzionale e le conquiste sociali che rappresenta.


    Infatti per molti della base della sinistra il lavoro non è più un Diritto Collettivo da perseguire con politiche tese alla piena occupazione, attraverso la Banca Centrale come organo dipendente e strumentale del Tesoro, una programmazione industriale, un intervento deciso dello Stato in economia attraverso una Industria Pubblica. Esso deve essere solo un privilegio individuale da esercitare attraverso le proprie abilità individuali. Insomma non più un diritto, ma un premio da attribuire ai più bravi.

    PS: Complimenti sinceri per il vostro lavoro, grazie.

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  2. Appena iniziato e già trovo un fondamentale: "Insomma, anche l'etnia è, in definitiva, un'invenzione culturale umana, che, come per tutte le ipostatizzazioni sociali (cioè le sintesi assunte come "certezze di giudizio"), è facilmente rappresentabile come espressione di rapporti di forza"

    Il racconto della cultura occidentale come susseguirsi di invenzioni (radicali, non adattative) non diventerà vulgata ma averlo ben presente sarà di grande aiuto al momento del crollo (se non allora, quando mai?)

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  3. """ ...anche l'etnia è, in definitiva, un'invenzione culturale umana,... """

    La parola etnia se intesa come differenza di razza non rappresenta correttamente il processo evolutivo dell'uomo. Tra uomini non esistono differenze di razza, a meno che non si voglia intendere razza come normalmente la si intende per i cani, cioè relativa alle differenze di caratteri quali; grandezza, morfologia, tipo di pelo, o caratteri mentali quali aggressività, socialità, senso della gerarchia etc etc.
    Certamente non esistono differenze di razza, il cane sostanzialmente è "uguale" agli altri cani. Ciò che fa la differenza SOSTANZIALE tra animali è la capacità di potersi riprodurre.
    Ma questo non significa che non esistano differenze. Da un punto di vista sostanziale i cani sono cani e gli uomini sono uomini (anche se l'idea di cane o di uomo, nell'arco di una vita resta uguale mentre nella realtà c'è un impercettibile cambiamento che si manifesta in un arco di tempo che è fuori dalla nostra capacità comprensiva) ma esistono differenze di grado che NON sono una invenzione umana.
    Difatti è possibile risalire ad alcune di queste differenze dalla lettura del genoma umano ( ma certamente solo dal genoma non è possibile stabilire con certezza la cultura di un uomo).
    Nonostante questo, i diversi gradi di sviluppo umano ( che portano con se alcuni passaggi culturali generali in senso ampio: per es. dimensione dei gruppi, strutture sociali complesse, burocrazia, religione, basi giuridiche tra classi etc etc) possono essere spiegati dall'aiuto di alcune scienze; la genetica, la biologia molecolare e la biogeografia applicate allo studio delle colture alimentari; più l'ecologia e l'etologia applicate agli animali domestici e loro antenati; aggiungendo la biologia molecolare di virus e batteri, l'epidemiologia, la linguistica, l'archeologia e la storia della tecnica, la scrittura e lo studio dell'organizzazione politica.
    E' vero che l'uomo di "base" è stato lo stesso, ma ottomila anni c.a. di evoluzione nelle differenti circostanze naturali hanno accelerato o rallentato, o addirittura messo in stand-by i diversi gruppi sociali creando delle differenze ( che viste da un'altro angolo le chiamiamo somiglianze) più o meno marcate anche a livello culturale.
    Ecco che le differenze dell'immaginario ontologico (e quindi anche dei riferimenti giuridici) dei gruppi è dettato ANCHE dalla natura e dai suoi cicli e non solo dal (ir)raziocinio umano.

    Non vorrei, come a volte è successo, che si voglia leggere tra le righe cose che non ho affermato.
    Non intendo avvallare in alcun modo le basi del liberismo darwiniano, anzi, sono stato io tra i pochi, in questo blog, ad aver portato all'attenzione vostra il bisogno di smontare, proprio dalle basi, la filosofia a cui si ispira l'ideologia fondante del liberismo.
    La qual cosa non è assolutamente semplice, ma è improbabile riuscire a farlo formulando paradigmi che risultano "incompleti" ad un'analisi anche solo puramente intuitiva.

    Se per Etnia intendiamo: In etnologia e antropologia, aggruppamento umano basato su caratteri culturali e linguistici. Ecco che il risultato non è """...in definitiva, una (sola) invenzione umana."""
    L'insieme delle scienze dimostra che non vi è nulla di superiore nella "nostra" civiltà occidentale classica, ma più semplicemente (eufemismo) la "fortuna" di trovarsi quì e non là. Anche questo fatto aiuta a smontare il darwinismo sociale con l'aiuto della natura e della sua continua evoluzione.
    Un saluto.

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    1. Dunque, ne desumo che concordi con la nota integrativa che ho apportato.

      Il punto, peraltro, è la transitorietà dell'etnia se riferita a "un" territorio.
      Il che non fa dedurre che sia comunque irrilevante.
      La transitorietà, infatti, concerne la percepibilità in termini di singola vita umana, inclusiva della memoria diretta delle precedenti generazioni: questa può costituire un'identità etnica abbastanza estesa nel tempo; dipende da fattori culturali evidenti: ad es; dal tipo di famiglia allargata e custode di una più ampia narrazione intergenerazionale, peraltro in sè naturalmente autorefenziale. E anche dal sistema di istruzione e eventualmente di comunicazione mediatica...Cose, queste ultime, che nei nostri tempi, agiscono in senso inverso alla continuità inalterata dell'identità etnica "tradizionale".

      Insomma, l'identità trascende la vita umana nei suoi tempi di consolidamento e può essere al tempo stesso, ed è ai giorni nostri, prevedibilmente instabile: ma comunque è pur sempre limitata, almeno all'interno dell'epoca che viviamo attualmente (ma anche in passato, gli eventi della Storia caratterizzano questa instabilità in vari modi, mutevoli nelle diverse aree geografiche).

      E questo un bene o un male, in sè?
      In altri termini, conservare un'identità nazionale può considerarsi sempre negativo o sempre positivo?
      La risposta è obiettivamente ardua: in termini contrappositivi, peraltro, abbiamo un pointer operativo.
      Qualsiasi gruppo in grado di solidarizzare in base al fattore linguistico e a comuni istituzioni (normalmente, o tendenzialmente, compresenti) ha il diritto di autodifendersi quando è posto in pericolo il benessere comune.
      Quel benessere comune che, oggi, nel mondo capitalista e tecnologizzato (sintetizzando), facciamo coincidere nella democrazia sostanziale (cioè pluriclasse e non tesa a conservare-promuovere il potere di un'oligarchia, comunque si voglia legittimare): se non altro perchè non abbiamo traccia di metodi migliori per massimizzare il benessere collettivo (e senza parafrasare Churchill...).
      Questa è la situazione in cui ci troviamo oggi: e questo, in fondo, ci interessa indagare.

      Di pari passo al suddetto processo di "continuità instabile", peraltro, si modifica e si altera, sempre in tempi eccedenti la singola esistenza umana, il suo codice di trasmissione più forte: cioè quello linguistico.
      Il che tra l'altro, ci indica come la difesa di una lingua, in condizioni di minaccia alla democrazia, sia un mezzo di difesa della democrazia stessa.
      Beninteso, ciò non implica affatto di non voler apprendere altre lingue, tutt'altro: solo di opporsi alla "sostituzione" autoritativa, da stato di eccezione, della lingua che esprime i fondamenti solidaristici di una democrazia.

      Segnalo ancora che un codice linguistico, peraltro, può rimanere costante anche per lunghissimi periodi; ma ciò è di solito riscontrabile in gruppi sociali che vivono in modalità di caccia e raccolta, cioè per milieu socio-culturali estremamente divergenti dal nostro. O meglio: da quello affermatosi con la globalizzazione occidentale: che è roba che risale all'espansione mercantilista coloniale europea, e non alla forma finanziaria di liberoscambismo attuale, ovviamente.

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    2. Credo che il terzo segmento risponderà ad alcune questioni.
      In ogni caso: certamente le scienze biologiche sono utili a spiegare determinate vicende sociali (nessuno, credo, intende proporre l'idea dell'essere umano come tabula rasa). Però: in primo luogo i cambiamenti culturali sono rapidi, quelli genetici lentissimi; in secondo luogo l'ambiente influenza direttamente l'attività dei geni, in particolare del cervello (si parla a questo proposito di neuroplasticità); d'altra parte, il nesso causale può andare anche nella direzione opposta, cioè vicende sociali possono avere conseguenze biologiche: "Human teeth, lack of body hair, digestive processes, malaria resistance, and manual dexterity certainly cannot be understood without realizing that genes responded to the cultural transmission of the use of clothing, fire, agriculture, and tools". qui la fonte.
      In sintesi, credo possiamo genericamente concordare che l'elevata plasticità dell'essere umano consente uno studio autonomo della società e il riconoscimento che i comportamenti sociali, anche quelli filogenetici, sono comunque sempre culturalmente mediati.

      Sono anche d'accordo a sdrammatizzare i rapporti di forza (comunque presenti) nella formazione di quelle che Albertini chiamava "nazionalità spontanee". C'è però un salto di qualità che mi pare difficilmente negabile (fonte, per esempio, Charles Tilly, L'oro e la spada, Milano, Ponte alle Grazie, 1993) fra le nazionalità spontanee e la nazione collegata allo Stato nazione: in quest'ultimo caso c'è una selezione e generalizzazione di alcuni elementi culturali e identitari, attraverso un processo di acculturazione e politicizzazione dall'alto, di cui fette non piccole di popolazione si sono trovate a pagare il prezzo. Prendiamo l'esempio della lingua: per andare fuori dall'Italia, non è certo un fatto spontaneo se oggi tutti i francesi parlano francese o se, più in particolare, il dialetto alsaziano fra i giovani è praticamente scomparso. Tutta la modernità, a ben vedere, è segnata da pesanti processi di acculturazione dall'alto (anche la Controriforma può esserne considerato un esempio: penso ai fondamentali studi di Carlo Ginzburg). Al prezzo, nel caso della nazione si è accompagnato il guadagno di un'attribuzione del fondamento del potere legittimo.

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    3. Sulla questione identitaria trovo molto persuasive queste considerazioni di Geminello Preterossi: "In questa linea, anche l'intento, in sé condivisibile, portato avanti nelle analisi del pensiero femminista e negli studi post-coloniali, volto a combattere, o comunque a criticare, una politica e un diritto identitari, corrono sempre il rischio di negare il problema rovesciandolo, ovvero di sottovalutare la funzione sociale che la 'costruzione' delle identità svolge, il fatto che comunque certe dinamiche coesive, differenzianti si producono iterativamente anche quando le identità tradizionali sono revocate in dubbio, e soprattutto che anche prassi 'critiche' non possono certo affermarsi nel vuoto di un globalismo senza spazio simbolico e senza progettualità giuspubblicistica, ma solo riqualificando la democrazia, con tutto ciò che questo significa in termini di risignificazione e ridefinizione politica - per quanto in chiave non essenzialistica ed 'etnocentrica' - di nozioni 'istituzionali' come potere legittimo, rappresentanza, mediazione, appartenenza, ordine."

      Il popolo delle costituzioni pluraliste è *già* un concetto identitariamente non pericoloso, aperto, pluralista, ricco. La stessa unità della comunità è presentata dalla Costituzione in termini problematici, come un programma da realizzare attraverso l'attuazione dei diritti nel quadro di una pratica democratica emancipante (qui sto citando, in ordine vario, oltre ai classici, Luciani, Ferrara e Patruno). *Purché* naturalmente ci sia una certa condivisione diffusa di valori e una piena operatività degli strumenti di partecipazione e intervento pubblici che assicurano la composizione delle differenze.
      Mi pare evidente che si attaccano le identità nazionali per colpire la politica democratica, sostendo che l'unica politica buona è quella sottratta a qualsiasi dimensione collettiva, anzi, quella che non c'è (o, meglio, che non si vede). "Una neutralizzazione del politico che scava il terreno sotto l'edificio del diritto", come dice Preterossi, ossia che prepara nuovi disastri. Di cui sicuramente incolperanno il "fattore umano". Ne riparleremo.

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  4. Molto interessante penso anche al ruolo della lingua italiana e tedesca nel processo di unificazione nazionale. Entrambe le lingue sono state create a tavolino nei secoli passati e hanno iniziato a diffondersi solo dal 1970 su scala nazionale. Prima ogni land o regione parlava il suo dialetto. La lingua italiana attuale e' molto simile al formato letterario parlato nel 1500

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