domenica 13 marzo 2016

L'EURO E L'IRRISOLVIBILE DEFLAZIONE: I SACCENTI E IL METODO DELL'AGGRESSIONE POLEMICA NELLA PROFEZIA DI CAFFE'**


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1. Niente. Deflazione, insolvenze diffuse delle famiglie, fallimenti seriali di imprese e deindustrializzazione non contano nulla.
Quello che conta è mantenere la moneta unica.


(ringraziamo Fabio Dragoni per la "selezione").

L'euro, lo diciamo in altre parole rispetto a quelle che abbiamo tante volte detto, è una scelta politica volta a eradicare definitivamente la possibilità di redistribuzione del potere sociale al di fuori dell'oligarchia.
L'euro è infatti il presupposto e il fine ultimo (in un processo circolare inavvertito dalle masse anestetizzate dai media) che conferisce la legittimazione per poter adottare misure come quelle cui fanno riferimento le dichiarazioni sopra riportate.
In assenza del vincolo dell'euro, la necessità di quanto preannunciato da Nannicini non avrebbe nè la priorità assoluta nè l'intensità che gli viene, variamente ma costantemente attribuita, da quando l'Italia ha intrapreso il cammino della convergenza dettata da Maastricht, aderendo poi alla moneta unica.

2. Accettiamo pure quello che non appare affatto così scontato, cioè che l'Italia debba essere una economia fortemente "aperta", in modo massimizzato rispetto all'area UE, e in modo negoziato "in crescendo", in base alla intensificata apertura prevista da altri trattati rispetto al resto del mondo.
Il free-trade non è infatti una condizione "naturale" delle comunità sociali che, non ne subirebbero, ove possano saggiamente autogovernarsi, la potenziale spinta all'asservimento politico, e spesso militare, di chi prevale in questo free-trade; quello che esso determina è una competizione che si instaura INEVITABILMENTE tra comunità sociali politicamente autonome
Per "autonome", intendiamo sia territorialmente e organizzativamente distinte fra loro, sia caratterizzate, in base alla loro identità linguistica e culturale, dall'aspirazione al benessere collettivo; aspirazione, a sua volta, basata su un alto e spontaneo grado solidarietà interna al gruppo complessivo. Una solidarietà che, come ben sapevano i fondatori del federalismo europeo, è, in base all'esperienza millennaria della Storia umana, assente tra comunità politiche diverse.

3. Dunque se il trade internazionale è un fenomeno storicamente naturale per l'umanità (pure sulle piroghe del paleolitico, passando per i fenici e per i Danaos dona ferentes), è il "free" che non funziona: cioè la formalizzazione mediante un trattato (spesso imposto con la guerra) del fatto giuridico che non ci si possa in alcun modo difendere dai problemi di aggressione socio-politica derivanti dalla supremazia commerciale raggiunta da un altro gruppo. Per il benessere della comunità.

Quel "free", dunque, non è mai la libertà del gruppo sociale che - chissà come e perchè- è finito nella maglie dell'altrui trade, ma è, immancabilmente, una "free-competition" industriale e poi commerciale che impegna i sistemi sociali apertisi reciprocamente ad uno sforzo collettivo contrastante gli interessi dell'altro gruppo, sforzo del tutto omogeneo a quello espresso durante la guerra. 
Pure il conflitto armato, come tutti dovrebbero sapere, è essenzialmente vinto attraverso uno sforzo industriale: sia per produrre le armi, sia per supportare e finanziare l'azione bellica dei propri, tesa ad eliminare e ad uccidere abbastanza soldati e cittadini "nemici" da indurli alla resa, cioè alla sottomissione.
L'apertura delle economie al free-trade - lo abbiamo tante volte detto, come pure Bazaar- è dunque un vincolo (da trattato) allo scontro permanente.
Nella guerra vera e propria muoiono i lavoratori delle classi economiche subalterne divenuti soldati. 
Nello scontro industrial-commerciale fra "economie aperte", sono sempre i lavoratori a subire le perdite; sia con la disoccupazione, cioè con la miseria, sia con la costrizione all'emigrazione, sia col subire la propaganda dell'oligarchia del proprio regime che, comunque, riduce il loro benessere e la rappresentatività generale dello Stato, come pure le loro aspettative di vita e persino di riprodursi, mettendo su famiglia in condizioni di dignità e sopravvivenza.

4. Ma riprecisato questo, l'Italia non era, fino all'irrompere del "vincolo esterno", un paese così "debole" da essere destinato a soccombere in ogni scontro industriale e commerciale con altri sistemi-paese (come si dice oggi, in tecno-pop, per dissimulare la conflittualità inesorabile che deriva dalla "apertura delle economie"...per trattato free-trade, cioè un trattato free-fighting one-against-each-other, che è poi esattamente l'opposto di quello che ammette l'art.11 Cost., come saprà ormai chiunque abbia letto "La Costituzione nella palude"...o anche solo abbia veramente seguito questo blog).

Per porlo in condizioni di debolezza, cioè per far sì che la situazione divenisse tanto sfavorevole, per il popolo italiano, - e tanto favorevole per l'elite capitalista (nazionale e sovranazionale: in ciò naturalmente solidali) che vede sempre con favore questa situazione (per i motivi che vedremo, ben indicati da Kalecky e Caffè), si è dovuto inventare il vincolo esterno: al suo meglio, l'euro. Che ha epigraficamente gli effetti che segnala più sopra la frase di Padoan.

5. Dunque, per Costituzione, questo non si sarebbe potuto fare: in realtà, governanti che intendano fare gli interessi del proprio popolo e mantenerne il consenso, non avrebbero avuto nemmeno bisogno del precetto inderogabile di una Costituzione (rigida) per concepire, con la logica della democrazia sostanziale, di non intraprendere una strada del genere.
Governanti saggi, coscienti che l'opposta logica della massimizzazione del potere di pochi sull'intera società che dovrebbero governare non porta mai al benessere collettivo e alla stabilità sociale, dovrebbero tendere piuttosto al pieno impiego e propugnare, di fronte all'insorgere, sempre possibile, dei problemi di bilancia dei pagamenti determinati dal fenomeno "naturale" dello scambio internazionale, la condizione dell'equilibrio dei conti con l'estero come unico limite al perseguimento del "pieno impiego" democraticamente accettabile.
Ma è qui che, dove la logica democratica non avrebbe consentito spazi di manovra (sorretti dal consenso), subentra la scelta politica di forzare le cose col trattato free-trade e di indebolire ogni capacità di resistenza democratica (cioè del lavoro) attraverso il cambio fisso-moneta unica.

6. Ce lo disse (anzi, lo profetizzò analizzando il pensiero economico in trasformazione degenerativa), in sostanza, Federico Caffè, ricostruendo la visione politica di Keynes e le problematiche non molto dissimili su cui pone attenzione Kalecky (in uno scritto del 1942-43 a noi ben noto):
L'analisi storico-economica di Caffè ("Introduzione all'economica della piena occupazione", in "La dignità del lavoro", pag.336 ss.), ve la riporto per punti essenziali, incorporandovi direttamente le interessantissime note:

"Nell'indagine sui tre modi mediante i quali raggiungere il pieno impiego (ndr: tre modi che sono null'altro che i controlli cui fa riferimento l'art.41 Cost. e che furono indicati da Lord Keynes, Lord Beveridge e da Kalecky con alcune differenze di visione politica: controlli sul commercio con l'estero, controlli sui prezzi, controlli sulla localizzazione delle industrie), Kalecky si mantiene su linee keynesiane sia nel presupporre un'economia chiusa (ipotesi da lui criticata nella recensione della "Teoria Generale"), sia nell'evitare espliciti accenni a quelle preoccupazioni per il mantenimento di condizioni di pieno impiego, a motivo della forte ostilità degli "uomini d'affari", che egli aveva analizzato in uno scritto del 1943: scritto attualmente considerato come individuazione iniziale della natura politica delle fluttuazioni cicliche.
...La caratteristica e (se si vuole) il limite del pensiero di ispirazione keynesiana (ndr: nella presunta, secondo Caffè, contrapposizione di Kalecky, e in generale) è il costante, irrinunciabile impegno a riformare il sistema capitalistico, non a eliminarlo. In questo senso, gli ostacoli di natura politica sono tra i tanti da superare con perseveranza e acume, ricercando progetti adatti e accorgimenti opportuni.
Nel delineare "gli aspetti politici del pieno impiego" si possono dire cose acute e presaghe, come quelle esposte da Kalecky in tale scritto: oppure si può scadere in ovvie banalità.

Nota al testo di Caffè: "Alternanze di spinta e freno, tra l'agire in forma drastica troppo tardi e/o in modo disordinato, concentrando l'attenzione nella cura di uno specifico male economico che abbia già raggiunto proporzioni serie e intollerabili (per esempio uno squilibrio della bilancia dei pagamenti in uneconomia aperta), sono una conseguenza diretta dell'aver fatto troppo poco ed essersi mossi lentamente in precedenza
Questo non deriva soltanto dalla ben nota difficoltà nel diagnosticare e adottare una misura adatta ai precetti keynesiani, ma è in gran parte dettato da considerazioni politiche (e spesso elettorali). Per esempio, con il basare la propria piattaforma sul crescente malessere popolare motivato dalla spirale prezzi-salari, un partito di opposizione può essere eletto per moderare il processo inflazionistico in atto. Il nuovo governo assume allora misure deflazionistiche. Allorché gli effetti di questa politica di rendono evidenti con l'aumento della disoccupazione, si accresce lo scontento generale; si delinea il pericolo di essere sconfitti nelle future elezioni e interviene una brusca sterzata nella politica economica (ndr: oggi questa autocorrezione è solo una questione di forma ma non di sostanza, e ai nostri giorni ciò è particolarmente evidente, sia in termini di effettiva reflazione che di tasso di occupazione correttamente calcolato. Ma questo è appunto il paradosso dell'euro, basato su contraffazioni propagandistiche e doppie verità, all'interno di una salda stabilità di politiche economiche neo-liberiste)."

7. Prosegue, il testo "principale":
"Ma quello che va in ogni caso precisato è che nè in Keynes, né nei keynesiani rimasti più strettamente aderenti al suo pensiero (!...siamo nel 1979!), il mantenimento di condizioni di pieno impiego è stato considerato un compito privo di ostacoli e di difficoltà.
Autorevolmente Lord Kahn ha portato di recente la testimonianza di alcune lettere di Keynes, del 1943 e del 1944, da cui traspaiono evidenti la sua preoccupazione per le conseguenze del pieno impiego e, al tempo stesso, il suo convincimento del carattere politico, anziché economico, di tale problema.
Nota: R.Kahn "Some Aspects of the Devolpment of Keynes's Thought", in "Journal of Economic Literature", n.2, 1978, p.557. In una lettera del 1943, Keynes scriveva a Benjamin Graham: 
"Il compito di mantenere ragionevolmente stabili i salari di efficienza (sono certo che tenderanno a salire nonostante i nostri sforzi) costituisce un problema politico, anziché economico"...."Non ho dubbi che sorgerà un serio problema circa il modo in cui i salari debbano essere contenuti quando saremo in presenza di combinazione di negoziazioni collettive e di pieno impiego. Ma non sono sicuro che il tipo di analisi da voi proposto possa arecare molta luce su questo che è essenzialmente un problema politico".

8. Raccordandoci al tema del post - cioè alla istituzionalizzazione del controllo del mercato del lavoro come missione politica da raggiungere mediante l'imperativo della "economia aperta" e del free-trade e l'imposizione di una moneta a cambio fisso e, anche, "unica" a gruppi politico-territoriali posti inevitabilmente in competizione tra loro, in nome dei presunti benefici del federalismo tra questi Stati-, riportiamo questo significativo passaggio del commento di Caffè:

"Non è privo di significato che possibilità di controlli durevoli sui movimenti di capitali fossero previste dagli accordi di Bretton Woods e che, proprio di recente (ndr: cioè nel 1977, alle soglie della contro-rivoluzione restauratrice monetarista e, in connessione, dell'ideazione del vincolo esterno con lo SME; anticipatore dell'euro), gli uffici legali del Fondo monetario internazionale abbiano creduto di dover ribadire la validità giuridica di un principio completamente disatteso nella prassi operativa dell'istituzione (Ndr: alla faccia delle lamentele di Hayek che si stava allora godendo il Nobel in piena fase di restaurazione ma non desisteva dall'atteggiamento vittimistico, suggerito alle oligarchie finanziarie e industriali, in nome di un passato...che non si era mai attuato nella forma da essi lamentata).
Nulla di più estraneo alla logica della "programmazione e ingegnosità" cui una politica di ispirazione keynesiana non avrebbe mai dovuto rinunciare, che l'ingigantirsi, privo di freni e di remore, del mercato delle eurovalute; della libertà di azione lasciata alle più sfrenate speculazioni di Borsa...; della stessa intensificazione dei traffici internazionali, quando essi non riflettano una più efficiente soddisfazione di bisogni basilari, ma si risolvano in un artificioso travaso reciproco di prodotti resi indispensabili dalle tendenze imitative tipiche delle situazioni di concorrenza oligopolistica.

Nota, particolarmente eloquente ed attuale in riferimento ai nostri giorni:
"Keynes, considerando come presupposto di un "capitalismo intelligente" l'allargamento delle funzioni e degli scopi dello Stato, includeva tra le decisioni più importanti della politica pubblica quelle riguardanti "ciò che dovrà essere prodotto nel Paese e ciò che dovrà essere ottenuto in cambio dall'estero". 
Nel lamentare la scomparsa delle "secolari tradizioni legate all'agricoltura" nello stigmatizzare "la nostra capacità di chiudere la porta in faccia al soile e alle stelle, perché non pagano dividendo", egli sempbra quasi anticipare il lamento per la "scomparsa delle lucciole" che in poeta muoverà molti anni dopo.
Ma non erano estranee a Keynes né una visione singolarmente anticipatrice, nè una capacità di espressione che andava ben oltre il tecnicismo economico. 
Del resto anche D.H. Robertson, uno dei più saggi economisti di ogni tempo, contrappone alla stabilità  dello "scambio di ghiaccio contro carbone tra Nordlandia e Infernia" le "oscillazioni confuse" di "scambi soggetti a particolareggiate modificazioni tecniche" (cfr; "Saggi di teoria monetaria", Firenze, 1956, pp.237 e ss.). 
Coloro che non siano esaltatori acritici dello sviluppo degli scambi internazionali, per motivi da collegare appunto alla loro composizione o alle conseguenze interne...formano di frequente oggetto di addebiti saccenti
In quanto questi addebiti rivelano, in coloro che li manifestano, un'insufficiente conoscenza della storia del pensiero economico,...non può sorprendere che gli addebiti stessi si traducano in forme di aggressione polemica di pretenziosa arroganza".

E abbiamo così il quadro preciso non solo di cause e finalità delle politiche imposte dall'euro, ma anche del clima politico e culturale che la sua ideazione avrebbe inevitabilmente apportato.
Basta accendere la televisione o aprire un giornalone....

10 commenti:

  1. Così l'Italia potrà' ripartire con la retromarcia...lo dice perfino il vicepresidente della BCE che le riforme strutturali servono a tutto tranne che a favorire la crescita effettiva: Le riforme strutturali sono essenziali per la crescita potenziale di lungo periodo, ma è difficile vedere come potrebbero stimolare la crescita in misura significativa nell’arco dei prossimi due anni, soprattutto se il problema è al momento la debolezza della domanda mondiale.
    Tratto da qui: https://www.ecb.europa.eu/press/inter/date/2016/html/sp160311_1.it.html

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    1. Grazie, l'avevo già "attenzionato" su twitter. Come si può evincere dal post, la questione della essenzialità delle riforme strutturali persino per la crescita di lungo periodo è altamente controversa.

      Anzi, come dimostra Chang, sugli effetti delle politiche imposte in tutto il mondo da WB e FMI, è piuttosto riscontrabile il contrario:
      http://orizzonte48.blogspot.it/2015/08/ma-dove-si-va-puntando-sulla-domanda.html

      Ma il fatto è che siamo a dei livelli di follia così elevati che persino all'interno delle (il)logiche deflazioniste che stanno stragovernando l'UEM si ha "orore di se stessi". Solo che non c'è neanche più un degno erede di Petrolini a stigmatizzare questi flaneurs della distruzione sociale di massa...

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    2. La questione del 'lungo periodo' è uno stratagemma argomentativo che permette di proteggersi il deretano dal momento in cui si usa al momento in cui le 'previsioni' si sarebbero dovute avverare. Nel lungo periodo in pochi si ricorderanno di quanto detto e, anche nel caso, si potranno sempre evocare eventi imprevisti che hanno fatto deviare la previsione verso direzioni imprevedibili.

      A riguardo segnalo:
      http://ilpedante.org/post/terapie-tapioco-le-apologie-del-fallimento#lungo-termine

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  2. Il problema dei cólti, è che non lo sono.

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    1. Un problema già noto a Voltaire, che nel suo "Dizionario filosofico", ammoniva chi sapeva di sapere in questo modo: "[...]E tuttavia hai fatto i tuoi studi, e indossi cappa e berretto d’ermellino, e ti chiamano professore. E questo [...] crede di essersi comprato il diritto di giudicare e condannare ciò che non è in grado di comprendere!
      Il motto di Montaigne era: Che cosa so? Mentre il tuo è: Che cosa non so?" (cit.)

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  3. Sì, una gran bella raccolta di articoli di Caffè. La cosa che mi ha colpito di più leggendola è stato, come avevo detto, trovarvi l'eterno ritorno dell'identico: l'Italia brava se lo dice il cancelliere tedesco o il FMI, la flessibilità, la strategia dell'allarmismo economico, la centralità dell'impresa, i governi tecnici, eccetera eccetera. Per tacere dello SME.

    Son sicuro che non mancheranno molte altre citazioni, ma visto il tema del post penso meriti riportare qualche passo da "Il mito della deflazione" del...'49!

    "Ora, come avvenne a suo tempo con la formula «che i prezzi dovevano scendere e i consumatori astenersi dalle compere» (1946); e successivamente con quella «che le banche dovevano far credito nella misura in cui ricevevano credito dai depositanti» (1947); così – mutata la situazione – avviene oggi con la formula della «deflazione risanatrice». Non si nega, cioè, che la depressione economica provochi dei sacrifici, ma si afferma che essi sono necessari per una pretesa funzione di risanamento della struttura economica che la depressione stessa assolverebbe.
    Questo è il mito della «deflazione benefica e risanatrice», alimentato dalla corrente più autorevole (o comunque più influente) dei nostri economisti, e pedissequamente ripetuto dai politici, sia pure con la consueta riserva, di carattere del tutto retorico, che esclude una loro adesione «a una politica di deliberata deflazione». In realtà non occorre che uno stato di deflazione si manifesti in quanto deliberatamente voluto dalle autorità politiche; se esso, comunque, si manifesta, una eventuale inazione delle autorità di governo implica una loro grave responsabilità, in quanto la deflazione, non meno e forse ancor più della inflazione, è uno stato patologico che non si sana attraverso l’azione spontanea delle forze di mercato.”


    “Alla deflazione pretesa «risanatrice», non meno che all’inflazione, sono legati interessi particolari che si avvantaggiano della situazione che ne risulta, a danno della parte più estesa della collettività. L’azione di questi interessi particolari è tanto più subdola in quanto – mentre l’inflazione suscita reazioni morali sfavorevoli, a causa della speculazione che favorisce e delle conseguenze sociali che determina – la deflazione viene presentata in luce favorevole, come condizione per la valorizzazione del potere di acquisto della moneta e per la difesa di modesti percettori di redditi fissi. In realtà, queste categorie modeste servono di copertura agli interessi ben più cospicui dei grossi redditieri, alla stregua che le esigenze e le difficoltà delle «piccole e medie aziende» vengono frequentemente messe innanzi per ottenere delle misure di cui si avvantaggiano in concreto i grossi gruppi monopolistici. La deflazione, aperta o larvata, favorisce in definitiva l’elemento redditiero della vita economica, cioè chi vive più o meno parassitariamente della ricchezza accumulata e del lavoro passato.”

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    1. La "concorrenza monopolistica" dell'offerta per consumi del tutto estranei ai "bisogni fondamentali", raggiunge il suo apice nella "apertura" al free-trade con vincolo esterno: il trionfo di una struttura dell'offerta per definizione deflazionista, che procede sugli oligopoli multinazionali.

      Questi ultimi, ieri, e ancor più oggi, nel più trito e rudimentale dei ribaltamenti propagandistici, trionfano sulla piccola e media impresa nazionale, solleticando la loro complicità nella propria autodistruzione...

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  4. Saccenteria e aggressione polemica sono direttamente proporzionali al vuoto pneumatico di idee. Sono il rumore "marrone" per coprire l'inconsistenza delle soluzioni proposte. Queste persone non possono umanamente tollerare un dialogo o una conversazione, non solo perché ne emergerebbe l'inconsistenza degli argomenti, ma prima ancora perché una conversazione, per definizione (dal latino, "trovarsi insieme"), implica un'interazione, una cooperazione tra i partecipanti che ne presuppone la parità di rango (e loro non possono tollerare uno stato di uguaglianza coi sudditi).

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  5. Il capolavoro della bce: I tassi negativi favoriscono la fuga di capitali verso gli Usa http://www.rischiocalcolato.it/blogosfera/i-soldi-che-stampa-draghi-finiscono-in-prestiti-agli-americani-149156.html

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