domenica 23 febbraio 2020

IL PLURALISMO NELL'ERA POST-COSTITUZIONALE: SI PUO' ANCORA NON ESSERE "LIBERALI"?

Questo contributo di Bazar si riallaccia a un interessante articolo di Andrea Zhok e ne sviluppa gli interrogativi, ancorando alcune risposte alla fenomenologia dell'attuale assetto istituzionale liberal-globalista.
Il discorso è, si può sperare, un punto di partenza: come prima soluzione proposta, presuppone la condivisione, auspicabilmente tra tutte le aree di pensiero socio-politico che non si riconoscono passivamente in tale assetto, di una prospettiva storica che incorpori alcune conoscenze che, non casualmente, sono tenute ai margini delle "unità cognitive" considerati rilevanti nel discorso del mainstream: conoscenze trascurate anche da ogni angolazione del campo di opposizione all'ordine internazionale del mercato (ovvero, istituzionalmente, al diritto internazionale privatizzato retrostante alle sue, sempre più intense e multiformi, manifestazioni autoritarie).

Queste conoscenze attengono essenzialmente: 
a) alla consapevolezza dell'esatta genesi della "rivoluzione liberale", nelle sue premesse e nei suoi sviluppi
b) all'inefficacia oppositiva di qualsiasi riflessione che non sia legata ad un'attenta ricostruzione della storia dell'economia (estesa, possibilmente, all'incirca agli ultimi due secoli); 
c) alla conseguente capacità di compiere un cammino a ritroso che dipani il groviglio dei condizionamenti culturali e propagandistici di massa che, con accorti ma limitati adattamenti, sono stati disseminati, nel tempo, dai "centri di irradiazione" delle timocrazie del mercato. 
Questi condizionamenti si connettono alle cicliche criticità di consenso e di "effettività" che, per i suoi esiti sulla crescita economica e sulla giustizia sociale, il modello liberale di mercato ha costantemente cercato di superare, per non perdere il controllo politico-istituzionale.


Destra, sinistra e le 50 sfumature gender di liberalismo.

Prendendo spunto da questa analisi equilibrata, chiara e condivisibile di Zhok sulle questioni ideali oggi sul tappeto, proviamo a sviluppare qualche riflessione intorno alle chiosa finale dell’autore: «Due secoli di evoluzione politica su binari paralleli ha creato dei ‘pantheon’, negativi e positivi, costruiti per essere mutuamente incompatibili.

Ora, fino a quando le prospettive antiliberali di destra e di sinistra si incontrano sul terreno dell’analisi del presente e sulla progettazione di prospettive future, non vi sono ragioni sostanziali perché esse non possano conciliarsi, creando anzi una sintesi assai più potente delle sue parti. Ma nel momento in cui esse confrontano le proprie narrazioni storiche e i relativi ‘pantheon’, lo scontro è sempre latente. (Questa insidia è peraltro ben presente anche all’interno della stessa storia della ‘sinistra’, dove il ‘pantheon’ socialista e quello comunista sono ben lontani dal coincidere.) Ci sono figure e personaggi storici costruiti in modo da suscitare la semplice immediata repulsione in un gruppo mentre magari sono stimati, o almeno giustificati, nell’altro. Ci sono letture degli eventi articolate e consolidate che confliggono senza scampo. Per quanto la freddezza dell’analisi storica possa in linea di principio restituire ragioni e torti, riconfigurare luci ed ombre di qualunque figura del passato, è dubbio che tale differenza di retroterra possa essere liquidata con facilità. La nascita di una prospettiva politica che superi destra e sinistra in una chiave critica del modello liberale è una necessità storica, ma l’esatta forma in cui ciò potrà avere luogo appare ancora piena di incognite.»

1. Premesse: consumismo, identità e classe.

Una riflessione andrebbe fatta, innanzitutto, sui risvolti di quel tratto fondamentale della società occidentale del secondo dopoguerra, ossia sulla società dei consumi.

Un chiarimento preliminare: spingere le persone a consumare non significa garantire a tutti la possibilità di farlo. La domanda aggregata non dipende dalle volte in cui i nostri occhi incrociano cartelloni pubblicitari o dal numero di fastidiose interruzioni che dobbiamo subire mentre guardiamo un video caricato su YouTube. Il consumismo ha una sua caratteristica peculiare: gli acquisti vengono generalmente indirizzati tramite modelli in cui il consumatore è spinto a identificarsi. Modelli che per status o per valori simbolicamente manifestati sono perlopiù “borghesi”, se non proprio elitari ed esclusivi. Durante il secolo scorso queste spinte identificative – supportate da una massificazione dei consumi dovuta ad una effettiva espansione della domanda aggregata – producono un’enorme differenza tra la società liberale ottocentesca e quella della seconda metà del novecento: i ceti subordinati perdono qualsiasi coscienza di classe.

Già lo stesso ritorno dell’uso diffuso del termine «ceto», associato a un’idea pluriclasse della democrazia moderna, porta ad un allentamento dell’identità di gruppo sociale – classe – legata al proprio rapporto coi fattori della produzione.

Si noti poi che, sotto traccia, la società occidentale inizia a incubare il neoliberalismo  già da prima della Guerra Fredda.

Con i prodromi del neoliberalismo vengono omologati totalitaristicamente interi continenti secondo la logica delle «aree di influenza». Ovvero vengono disintegrate identità personali, sociali, etniche, nazionali: di classe. Per la prima volta nella storia gli oppressi – con la società consumistica – cominciano a identificarsi in massa con gli oppressori.

Questa è una novità assoluta rispetto al quadro sociologico ottocentesco e del primo novecento. Pasolini, citato da Zhok, sottolinea come il fascismo non riuscì – nonostante la propaganda e il controllo totalitario delle istituzioni – a ottenere un risultato sulla psicologia delle masse così clamoroso.

(E questo primato negativo vale anche – e soprattutto – per il ceto intellettuale che, stando con Preve, per la prima volta nella storia esprime dotti che dicono più scemenze del non erudito.)

2. Destra e sinistra come fascismo e antifascismo (in assenza di fascismo).

Nel 1974, a controrivoluzione liberale già in essere, Pier Paolo Pasolini scrive sul Corriere della Sera: «L’omologazione culturale che ne è derivata riguarda tutti: popolo e borghesia, operai e sottoproletari. Il contesto sociale è mutato nel senso che si è estremamente unificato. La matrice che genera tutti gli italiani è ormai la stessa…». E questa è «Una mutazione della cultura italiana, che si allontana tanto dal fascismo che dal progressismo socialista». Quindi, in merito alle violente polemiche “studentesche” tra sinistra “antifascista” e destra “fascista”, scrive: «È inutile e retorico fingere di attribuire responsabilità a questi giovani e al loro fascismo, nominale e artificiale. La cultura a cui essi appartengono è la stessa dell’enorme maggioranza dei loro coetanei».

E ammonisce senza mezzi termini: «Non c’è più dunque differenza apprezzabile, al di fuori di una scelta politica come schema morto da riempire gesticolando, tra un qualsiasi cittadino italiano fascista e un qualsiasi cittadino italiano antifascista. Essi sono culturalmente, psicologicamente e, quel che è più impressionante, fisicamente, interscambiabili»

«Fascista» e «antifascista» sono le categorie con cui il nuovo potere liberale ha sezionalizzato il medesimo gruppo sociale; potere divisivo e disgregante «il cui fine è la riorganizzazione e l’omologazione brutalmente totalitaria del mondo».

Pasolini – comunista – con rara onestà intellettuale, ammette:

«In realtà ci siamo comportati coi fascisti (parlo soprattutto di quelli giovani) razzisticamente. Non nascondiamocelo: tutti sapevano, nella nostra vera coscienza, che quando uno di quei giovani decideva di essere fascista, ciò era puramente casuale, non era che un gesto, immotivato e irrazionale… Ma nessuno ha mai parlato con loro o a loro. Li abbiamo subito accettati come rappresentanti inevitabili del Male. E magari erano degli adolescenti e delle adolescenti diciottenni, che non sapevano nulla di nulla»


3. Complexio oppositorum e divide et impera nella società dello spettacolo.

Il consumismo ha spianato completamente – tramite un’omologazione culturale senza precedenti – qualsiasi coscienza di classe: quindi sono state create “ingegneristicamente” una serie incredibile di «identità», con il fine unico di creare conflitti tra sezioni di società di cui, quello fondamentale, che porta un carico emotivo ed identitario maggiore, è proprio quello tra “destra” e “sinistra”.

Queste contraddizioni e lacerazioni, politicamente adialettiche, e quindi distraenti dalla dialettica reale, sono create e moltiplicate dai media di massa: i media decidono i temi della discussione, propongono le tesi e le antitesi con cui identificarsi, sentire appartenenza e parteggiare. Quindi, dopo averle caricate di significati simbolici ed emotivi, fomentano violente discussioni sul modello dei talk show, riversate per suggestione nella sfera psicologica di ogni possibile dimensione di confronto.
Ovvero discussioni sul nulla, senza alcun contenuto intellettuale: nient’altro che energia emotiva dispersa irrazionalmente invece di essere sintetizzata in una prassi maggiormente edificante. Dinamica che mira alla cristallizzazione di una sociologia artificiale (in cui è assente ogni preoccupazione di autodefinirsi rispetto a un concetto attuale e realistico di "classe dirigente")  che spiana la strada alle riforme neo-liberali e neo-malthusiane che non trovano alcuna forza antagonista.

Il bias di qualsiasi scelta di campo, su qualsiasi tema di attualità, rimane l’appartenenza all’essere di destra o di sinistra, la quale comporta un coinvolgimento emotivo secondo forse solo alla fede per la squadra del cuore.
Il sistema maggioritario, a livello istituzionale, non fa altro che rafforzare questa reductio ad circenses.

Promuovere discussioni e confronti veramente dialettici quando si contrappongono null’altro che posizioni caratterizzate da irrazionale emotività, non è banale.  Gli ingegneri sociali, gli spin doctor, sanno fare il loro mestiere che, come insegna Gramsci, non è certamente quello di promuovere l’unità di classe e la democrazia.

Nota: la logica degli «opposti estremismi» non è che miri a raggruppare vacue forze «centriste» per contrastare l’altrettanto vacuo concetto di estremismi di destra e sinistra. Piuttosto, mira a squalificare qualsiasi espressione di pensiero politico non liberale e a conquistare il cosiddetto voto «moderato» che, non a caso, è in gran parte dei paesi del mondo quello meno sensibile alle tematiche democratiche. Ovvero questo frame ribalta il dato di realtà che il neoliberalismo è proprio contraddistinto da un fanatismo estremo e una radicale avversione della democrazia sociale. Va sa sé che ancora oggi l’antiliberalismo viene etichettato come una sorta di antidemocratico “estremismo”.


Un aspetto da prendere pure in considerazione è il differente atteggiamento morale che si può immaginare nell’umile uomo ottocentesco, scarsamente istruito, e quello che constatiamo nell’individuo metodologicamente atomizzato, egotico, bombardato d’informazioni inutili o fuorvianti, e magari iper-scolarizzato, della società contemporanea. L’umiltà è il fondamento del pensiero critico: l’individuo del XXI secolo, cresciuto con slogan del tipo «usa la tua testa», «fatti una tua opinione», e via, sollecitato a coltivare sterile narcisismo e un inane solipsismo, come può accogliere una visione del mondo diversa dalla propria?

Una buona prassi fenomenologica, ovvero di spoglio di tutti i preconcetti, i pregiudizi e di tutte le precomprensioni, dovrebbe consistere, prima di qualsiasi confronto con l’alterità, nel chiedersi: quando, in che contesto, ho formato questa “mia” opinione? Ecco: se non si conosce dettagliatamente come e da dove è nata questa “mia opinione” significa che la propaganda ha funzionato bene.

Ora: se è vero che il clero religioso nell’Ottocento condizionava ideologicamente le masse oppresse e manipolava l’emotività del fedele, la quantità di panzane ideologiche spacciate dal clero neoliberale, e che affollano la testa degli individui del XXI secolo, è oltremodo più ridondante e deleteria. Il clero giornalistico e il sistema universitario indottrinano l’uomo del terzo millennio affinché “sappia di sapere”. In un regime totalitario liberale ognuno è depositario di una verità che ha una sua assoluta validità al di fuori di qualsiasi dimensione intersoggettiva e confrontativa.

Il paradosso di questa “società aperta”, dove l’unica morale è il relativismo morale, e l’unica opinione è quella bipolare/dualista degli spin doctor, è che la maggior coscienza morale e la maggior possibilità di acquisire coscienza politica e di classe, è non essere istruiti
Più si è istruiti (cioè formati all'interno di un sostanziale sistema di controllo sociale) e informati (cioè in costante ed esteso contatto col flusso di proposizioni selettive diffuse dai "centri di irradiazione"), più si è indottrinati (cioè incanalati a considerare acriticamente una serie di rationalia che non possono/devono essere rimessi in discussione). Non si vuole arrivare ad affermare l’assurdità per cui l’incolto sia, in qualche modo, più colto: semplicemente si sostiene che è meglio possedere un piccolo orto coltivato con verdure povere, ma sane, che un campo sterminato coltivato con una monocultura ogm e, di fatto, essere dei fittavoli.

Inoltre, da un punto di vista di mera elaborazione intellettuale, chiunque si scrolli di dosso l’ideologia totalitaria liberale, si trova a confrontarsi con persone che – su qualsiasi tema di pubblico interesse – percepiscono sistematicamente invertito il rapporto di causalità degli eventi e del divenire politico-sociale, a partire dalle motivazioni della loro particolare condizione sociale, nel bene e nel male.

Ora: quando la cognizione di tutti i rapporti causali è invertita, riassemblare la percezione della realtà sociale diventa un problema logico-emotivo che dovrebbe contare sul supporto di... epistemologi? Psicologi? Sciamani? … Accettare di aver visto fino all’età matura il mondo sottosopra è una impresa cognitiva estremamente ardua. E questa non è l’eccezione, è la regola.

I pensatori neoliberali hanno innanzitutto creato in tutti i campi del sapere e della cognizione una sorta di epistemologia con i rapporti di causa-effetto invertiti rispetto a quelli del pensiero dei grandi autori da cui è nata la democrazia moderna. E questo si riflette su qualsiasi idea-del-mondo che viene propagandata dai media di massa e dal sistema scolastico e universitario.

Uscire dagli schemi mentali incisi così profondamente nella carne viva delle persone è un esercizio che ben difficilmente può raggiungere una qualsiasi massa  critica senza la proprietà di media di massa e una qualsiasi influenza sul sistema scolastico e universitario.

E l’appartenenza identitaria alla destra o alla sinistra è la madre di tutte le divisioni ideologiche insensate.

(Per una colta ricostruzione storica si rimanda ancora all’articolo di Zhok).

5. Il progresso.

La dialettica destra e sinistra, anche nella sua variante piccolo-borghese «conservatori versus progressisti», è di per sé insensata.
Prendiamo la questione del progresso e poniamoci la domanda: il progresso inseguito a sinistra è «sociale» – ovvero orientato alla giustizia distributiva e all’equa possibilità di accesso alla proprietà – oppure viene inteso come il mito illuminista prima, e positivista poi, del progresso come forza naturale e inarrestabile potenza rivoluzionaria della scienza e della tecnica proprie del capitalismo? Il «progresso sociale», come ci ricordava Pasolini più sopra, è ambizione socialista, tensione volta all’emancipazione dei lavoratori, alla giustizia sociale e alla democrazia effettiva. Il «progressismo borghese» – liberal – ovvero tipico dei liberali di sinistra, promuove invece l’egualitarismo nominale come da tradizione liberale, glissando sul problema della disuguaglianza di classe e della relativa ingiustizia sociale.

Anzi, l’uguaglianza nominale è proprio la scusa usata per aizzare qualsiasi tipo di conflitto sezionale utile ad evitare di discutere politicamente dell’eguaglianza sostanziale, obiettivo delle democrazie sociali: l'eguaglianza sostanziale viene semmai convertita e alterata, in un tambureggiante processo normativo che alterna giurisprudenza e pressione mediatica (con l'intermediazione dell'agenda creata dai gruppi organizzati, creati e finanziati dalle elites), ad essere lo strumento per "rimuovere gli ostacoli", non alla piena esplicazione delle potenzialità vitali della maggioranza, ma per la prioritaria esplicazione di diritti speciali, erga omnes, di gruppi minoritari, la cui situazione emergenziale viene deliberatamente creata dal sistema mediatico-culturale per segmentare e relegare sullo sfondo i rapporti di potere. 
Si ottiene così l'occultamento, o quantomeno l'offuscamento programmatico, di questi stessi rapporti di potere, che, nel modello normativo dei Costituenti, sono proprio il fattore che ostacola l'eguaglianza sostanziale, programma di emancipazione generale ascrivibile a ogni persona umana non appartenente all'elite, in tutte le sue proiezioni e orientamenti nella vita sociale: proiezioni e orientamenti personali che, viene fatto dimenticare, non sono peraltro problematici per gli appartenenti all'elite, che tende implicitamente ad affermarsi a priori come legibus soluta.

Le categorie destra e sinistra sono interessanti se e solo se sono relative a qualche oggetto politico-ideologico specifico. Oggi queste categorie non sono solo inutili, ma sono dannose perché viviamo in un patente quanto sfuggente totalitarismo liberale, paludato nella descritta falsa dialettica occultante e che si segnala come il primo obiettivo minimo da focalizzare per un ritorno alla fisiologica dialettica democratica entro la comunità nazionale. Ed è sfuggente perché la propaganda e il sistema di controllo economico, politico e mediatico sono praticamente globali; non emerge, non si autopalesa dal contrasto con altri sistemi politici, se non – ça va sans dire – con quelli colpevoli di essere ancora «sovrani», di autodeterminarsi, e quindi tacciati di essere «Stati canaglia», «illiberali», ovvero – nel lessico della propaganda neoliberale – «antidemocratici». (E quindi bisognosi di importare democrazia...).

6. Linguaggio, cognizione e media di massa.

Una delle inversioni cognitive fondamentali del neoliberalismo a fini manipolatori è quella di far coincidere il significato di «democrazia» con il significante «liberalismo», «società di mercato»: in definitiva, con «capitalismo». (Funzionò molto bene durante la Guerra Fredda, oggi molto meno visto la tragica esperienza del “liberalismo reale” edificato dopo l’89…)

Nota: la categoria «illiberale» ha un senso compiuto solo nella sfera del privato. Quando è usata in politica ha solo un significato: viene generalmente stigmatizzata una collettività che non piega la testa di fronte ai desiderata del mercato e di chi lo controlla. In pratica, come accennavamo sopra, queste «collettività» sono tutti gli Stati-nazione che non si sottomettono al processo imperialista di mondializzazione.

Oggi siamo giunti all’assurdità per cui si paventa il problema del «risorgere delle nuove destre», come se sedersi, o desiderare di sedersi, nell’ala destra del parlamento fosse in sé un atto eversivo. Viviamo un soffocante totalitarismo in cui destre e sinistre sono liberali, però la propaganda deve terrorizzare gli elettori paventando il risorgere di qualche partito fascista che sottragga una democrazia e una libertà che già non ci sono più ad opera degli stessi liberali. Chi non vota come vuole le élite viene così insultato, minacciato di censura, o di azioni legali se non si esprime pubblicamente nei contenuti e nei toni desiderati dal padrone.

(«Non osare a mettere in dubbio la parola del tuo signore: non ti fidi dei farmaci che distribuisco? Ti faccio un TSO e ti vaccino coattivamente. E magari ti porto via i figli.» Ed è così ormai in tutta l’area di influenza imperiale chiamata Occidente.)

7. Su quale principio solidaristico fondare l’unità resistenziale.

Ora: la situazione economica, sociale e politica è grave oltre ogni misura: la Costituzione viene costantemente disattesa ed è stata praticamente resa carta inerte. Come unire un popolo al di là delle infinite divisioni appositamente create, a partire da quella tra chi si sente di appartenere alla destra o alla sinistra? La risposta la dà ancora la Carta. Ma, per farla “parlare”, per estrarre senso dal suo testo è necessario essere coscienti di ciò che era in larga parte condiviso dagli italiani e dai loro rappresentanti, i Padri costituenti: la sopravvivenza dell’inevitabile dimensione comunitaria della vita umana non può che essere garantita dalla giustizia sociale. E la giustizia sociale, nel senso socioeconomico dell’espressione, diventa così il pilastro della democrazia effettivamente realizzata.

A chi vaneggia di metanoie palingenetiche collettive – ovvero per chi crede che l’origine di tutti i mali sociali e culturali sia di ordine morale – va ricordato che il nostro ordinamento non è fondato su qualche virtù cardinale, ma su uno dei fattori produttivi: il lavoro. E c’è un motivo. Motivo che ha a che fare col materialismo storico e col socialismo scientifico.

Quindi: quando Zhok giustamente fa notare il fatto che alla cultura di destra mancano gli strumenti di analisi marxiana, contrapponendolo al problema della confusione che a sinistra si è fatta, e si fa, tra internazionalismo (cioè coordinamento delle istanze perseguite dai lavoratori all'interno dei rispettivi ordinamenti nazionali, in funzione difensiva e simmetrica all'azione, mondiale e concertata, del capitalismo finanziarizzato e istituzionalizzato) e cosmopolitismo (sistema di valori ad aspirazione normativa territorialmente illimitabile, adottato dalle elites per superare le difficoltà frapposte, alla prevalenza dei loro interessi economici, dall'esistenza delle organizzazioni statali nazionali democratiche, basate sul suffragio universale), per cercare una qualche sintesi ideologica tra destra e sinistra, probabilmente non fa emergere a sufficienza qual è il problema di non aver interiorizzato proprio la lezione marxiana
Ovvero che è proprio tramite la lezione marxiana – del Marx economista e sociologo, ovvero del Marx scienziato sociale – che si arriva a rinsaldare una coscienza collettiva disintegrata, a partire dalla frattura tra tifoserie di destra e sinistra. E questa coscienza collettiva si chiama coscienza di classe.
(E prontamente aizzato dai media, l’anticomunismo in assenza di comunismo – con magari la scusa delle giornate della memoria – finisce di distruggere la coscienza sociale e politica che ancora l’antifascismo in assenza di fascismo non ha finito di radere al suolo).

Se è vero che tendenzialmente a sinistra è mancata coscienza nazionale (almeno in Italia), ed è altrettanto vero che a destra è tendenzialmente mancata coscienza di classe, è necessario sottolineare che la coscienza nazionale è subordinata, funzionale, alla coscienza di classe. E che quest’ultima è funzionale alla democrazia.

8. Conclusioni.

Oggi mancano sia coscienza nazionale che coscienza di classe, in quanto i riferimenti politico-ideologici sono entrambi di matrice liberale, tanto a sinistra quanto a destra; e il liberalismo si presenta come cosmopolitismo irenico e interclassista alle nazioni e alle classi oppresse, poiché ha l’ovvia necessità di cosmetizzare il suo violento imperialismo e il suo feroce classismo: a sinistra tramite il politicamente corretto, a destra tramite la retorica etnico-religiosa, di taglio securitarista.
La resistenza a questo totalitarismo, ovvero la creazione di una forza autenticamente antiliberale, non può semplicemente solidarizzare in funzione di un sincretismo ideologico: come insegna l’analisi marxiana – se non bastasse l’esempio storico dei Padri costituenti – idee e valori sono perlopiù sovrastrutture. Ciò che conta è ritrovare l’unità intorno alle riforme di struttura. I liberali coscienti hanno tendenzialmente acquisito l’analisi marxiana – a partire dai banchieri – e, sicuramente, almeno a livello intuitivo, ne padroneggiavano i fondamenti teorici ben prima dell’elaborazione teorica dello scienziato sociale di Treviri.

Ovvero: quali riforme di struttura vogliono gli antiliberali o, in altri termini, gli oppositori al totalitarismo del mercato? (L’aggettivo “illiberale” lo lasciamo ai promotori, consapevoli o inconsapevoli, dell'opera di occultamento dei rapporti reali di potere). Ovvero come vogliono incidere su quelle riforme sociali ed economiche studiate dall’economia politica e messe in atto dalla politica economica?

A questo punto le risposte non sono multi-gender: le riforme di struttura non possono che essere che keynesiane, kaleckiane. Socialiste.

Nel capitalismo o si è liberali o si è socialisti. Tertium non datur.

Si può discutere come percorrere una delle due direzioni, ma la proprietà privata o la concentri oligopolisticamente, assecondando dinamiche secolari irresistibili (e auto-istituzionalizzate) dello pseudo-libero mercato, o ne socializzi l’accesso, riconoscendo il ruolo dello Stato nel perseguire un razionale grado di mobilità sociale: o distribuisci la ricchezza prodotta, promuovendo la crescita, o la lasci in poche mani, predicando la deflazione e ottenendo la stagnazione e crisi recessive ricorrenti.

La socializzazione (democratica: cioè rappresentativa e partecipativa) del potere economico è condizione necessaria (anche se non sufficiente) per la socializzazione del potere politico, ovvero per la realizzazione della democrazia sociale.

Quella che viene chiamata democrazia liberale è nella forma, e nella sostanza, una dittatura di un’oligarchia plutocratica, una timocrazia.

Le istituzioni che naturalmente tendono a sovrastrutturarsi su questi due ordini contrapposti sono direttamente influenzate dai rapporti economici che esprimono: e queste istituzioni sono in primis la morale e la cultura.

Non sono necessari quindi – almeno per noi italiani – chissà quali sincretismi ideologici à la Dugin.

Serve semplicemente mettere in soffitta qualsiasi appartenenza ideologico-politica, e riconoscere che il proprio antiliberalismo ha un nome e che questo rimanda a concrete prassi politiche incentrate su riforme di struttura di carattere socialista.

I finti antagonismi destra-sinistra, fasci-antifà, i conflitti intergenerazionali, tra sessi, tra etnie, regioni e religioni, e tutta la fuffa divisiva fomentata dai media di massa, non possono che trovare una ricomposizione su un tema fondativo da cui – nel capitalismo – tutto il resto discende: la giustizia sociale.

E questo fu il principio etico su cui tutti i costituenti, e con loro gli italiani, solidarizzarono.

(A parte, non a caso, quel pasdaran del liberalismo di Einaudi…)


2 commenti:

  1. Aggiungerei tre piccoli flash storici e uno teorico che credo aiutino ad allungare lo sguardo e quindi a dissipare gli equivoci intorno al concetto di “democrazia liberale” (sono quasi solo riassunti di concetti che abbiamo già esposto).

    Il primo, quello teorico, è che una democrazia non può ridursi alle “regole del gioco”: senza le risorse materiali e culturali, certi assetti del sistema dei media, la presenza di istituzioni di mediazione, e così via, il momento elettorale si risolve nel famoso meccanismo idraulico della gramsciana “conta”. Ovvero, come ha detto, mi pare molto bene Honneth, da buon hegeliano, in una democrazia “i soggetti – nella forma pratica dell’essere l’uno-per-l’altro nelle loro relazioni personali, economiche e politiche – contribuiscono sempre in modo cooperativo allo svolgimento dei compiti che presi complessivamente sono necessari per salvaguardare la loro collettività. Ne consegue che “democrazia” qui non significa soltanto poter partecipare in modo paritario e senza costrizioni al processo di formazione della volontà politica; interpretandola come una intera forma di vita, si intende infatti molto di più della possibilità di partecipare in modo paritario alle esperienze chiave di mediazione tra individuo e società, ove la struttura generale della partecipazione democratica si rispecchia di volta in volta nella particolarità funzionale di una singola sfera.” (L’idea di socialismo, Feltrinelli, Milano 2016, s.p.).

    Ovvero, perché una democrazia sia tale, *l’intera società dev’essere democratica*. Può essere accettabile che una società complessa come quella moderna sia divisa in sfere relativamente autonome (la famiglia, l’economia, lo Stato con le sue complesse articolazioni, eccetera), ma queste devono comunque essere coordinate da un superiore principio di razionalità comunitaria: per questo la Costituzione è così lunga e si occupa di tutti gli aspetti della società.

    Il secondo flash riguarda la democrazia antica: questa era tale *proprio perché* era una forma di vita, e il punto di vista che si concentra sulle procedure (democrazia diretta) risulta quindi profondamente fuorviante e sostanzialmente inutile per le esigenze del presente. Una brava antichista, marxista ma lettrice attenta anche di Polanyi (avevamo parlato di recente dell’esigenza di non disperderne il lascito), come la Meiksins Wood ha scritto pagine preziose, osservando che certamente nell’antica Atene erano presenti gli schiavi, ma la maggior parte degli ateniesi, che erano piccoli proprietari e artigiani, doveva comunque lavorare per vivere. Si trattava tuttavia di produttori indipendenti, quindi non sottoposti a uno sfruttamento di tipo puramente economico di tipo capitalistico, ma nemmeno, e questo è il punto, allo sfruttamento, cioè all’estrazione del surplus, tipico del mondo antico, ossia la rendita e le tasse. Cosa vuol dire in sostanza? “The Greek polis broke a general pattern in stratified societies of a division between rulers and producers, and especially the opposition of appropriating states and subject peasant communities. In the civic community, the producer's membership - especially in the Athenian democracy - meant an unprecedented degree of freedom from the traditional modes of exploitation, both in the form of debt bondage or serfdom and in the form of taxation.” (pag. 189). Ossia: “As long as direct producers remained free of purely 'economic' imperatives, politically constituted property would remain a lucrative resource, as an instrument of private appropriation or, conversely, a protection against exploitation; and in that context, the civic status of the Athenian citizen was a valuable asset which had direct economic implications. Political equality not only coexisted with but substantially modified socio-economic inequality, and democracy was more substantive than 'formal'” (H. Meiksins Wood, Democracy Against Capitalism, Verso, Londra, 1995, pagg. 189 e 202).

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  2. Terzo flash: la democrazia liberale è un’invenzione americana che stravolge il significato del termine democrazia: “As late as the last quarter of the eighteenth century, at least until the American redefinition, the predominant meaning of 'democracy', in the vocabulary of both advocates and detractors, was essentially the meaning intended by the Greeks who invented the word: rule by the demos, the 'people', in its dual meaning as a civic status and a social category. This accounts for the widespread and unapologetic denigration of democracy by the dominant classes. Thereafter, it underwent a transformation which allowed its erstwhile enemies to embrace it, indeed often to make it the highest expression of praise in their political vocabulary.” (Ibid., pagg. 225-6).

    La democrazia liberale è resa possibile dall’emergere del capitalismo, ossia dell’esistenza di “an economic sphere with its own power relations not dependent on juridical or political privilege. So the very conditions that make liberal democracy possible also narrowly limit the scope of democratic accountability. Liberal democracy leaves untouched the whole new sphere of domination and coercion created by capitalism, its relocation of substantial powers from the state to civil society, to private property and the compulsions of the market. It leaves untouched vast areas of our daily lives - in the workplace, in the distribution of labour and resources - which are not subject to democratic accountability but are governed by the powers of property and the 'laws' of the market, the imperatives of profit maximization.”. Ossia una sfera della società fondata su un nuovo, ma ben circoscritto, concetto di libertà si autonomizza e coltiva i propri imperativi funzionali senza alcun tipo di responsabilità sociale per i risultati che produce nella comunità, per quanto devastanti essi siano.

    Ultimo flash: la democrazia liberale in Europa: de Tocqueville. Non casualmente studioso assai parziale della “democrazia americana” (se interessa una lettura critica del suo pensiero, consiglio questo breve libretto: https://www.donzelli.it/libro/9788868430818), dopo anni di polemiche contro il “déspotisme démocratique”, eccolo cambiare improvvisamente registro: “nel 1848 democrazia e liberalismo non sono più nemici, anzi si congiungono: l’antitesi non è più tra liberalismo e democrazia, ma tra democrazia e socialismo. Intervenendo il 12 settembre 1848 all’Assemblea costituente nel dibattito sul diritto al lavoro Tocqueville diceva: “La democrazia e il socialismo sono congiunti solo da una parola, l’eguaglianza; ma si noti la differenza: la democrazia vuole l’eguaglianza nella libertà, il socialismo vuole l’eguaglianza nel disagio e nella servitù.” Tocqueville si era forse ricreduto? Nient’affatto. E’ che ora egli attribuisce al termine democrazia un nuovo significato: la sua democrazia è la liberaldemocrazia. Non è il suo pensiero che è mutato: erano cambiati i referenti, era cambiata la situazione.” (G. Sartori, Democrazia: cos’è, Rizzoli, Milano, 2000, pag. 204).

    Mi pare siano spunti facilmente inseribili nel discorso del post.

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